la parola della domenica
Anno
liturgico A
|
|
|
Es
3,1-15 Il mistero della Trinità. Per inadeguatezza, mia, confessata, vorrei stare lontano da un fiume di parole, che lungo i secoli hanno cercato, pur con intento buono e intelligenza, di interpretare il mistero della Trinità; parole che oggi però suonano senza vibrazioni per questo mio povero cuore, con il risultato a volte di aggiungere veli e raggelare l'anima. Forse l'immagine della Trinità mi commuoverebbe se stesse nei racconti delle Scritture, così come mi commuove nell'emozionante icona di Andrej Rublëv. Forse mi commuoverebbe il nome "Trinità", se mi fosse consegnato anche solo per dirmi - come osa qualcuno - che Dio non è una infinta solitudine, ma una infinita compagnia. E che grazia delle grazie sarebbe per noi assomigliargli! Noi fatti a sua immagine e somiglianza, essere donne e uomini della compagnia e non della solitudine. Una compagnia non la definisci; puoi solo raccontarla. E vengo al racconto del roveto ardente. Chissà quante volte - ci penate? - Mosè, nelle sere che abbracciavano le notti, al fuoco, fuori le tende, avrà parlato dell'altro fuoco, quello che un giorno lasciò lui, pastore di greggi, e forse anche le pecore, occhi sgranati a non finire, per un roveto che ardeva e sorprendentemente non si consumava: per lui, esperto di roveti, l'inspiegabile. Una cosa so: so che dovrei, come fu detto a Mosè in avvistamento di roveto, togliermi i sandali, i sandali della mia presunzione di sapere e di dire, incrostazioni. E una cosa so che spesso, nelle mie omelie, non me li tolgo. E davanti mi sta una terra che è sacra. Sacra perché è terra del passaggio di Dio. Mi intriga nel racconto del roveto il desiderio di Mosè di carpire in qualche modo il nome di Dio e Dio che sembra, in qualche modo - perdonate - giocare a nascondersi. Alla fine, sì, dice un nome, ma subito lo apre. Così mi sembra - e la cosa mi incuriosisce - lo lega ad altri nomi: "Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono!"". E subito, senza cesure, quasi a svelare una compagnia: "Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe". A noi capita di usare l'espressione "io sono" a rivendicare presuntuosamente distanze, a marcare superbe solitudini; diciamo: "Lei non sa chi sono io!". Dio usa l'"io sono" per marcare vicinanza, compagnia. E sposa il suo nome ad altri nomi, veri come la nostra pelle. E' una cosa di pelle: Abramo, Isacco, Giacobbe. Potremmo forse dire che loro diventano la dimostrazione della verità del nome di Dio, di un Dio che ha come natura un esserci, lui per natura non si trattiene, si espone; esserci vuol dire esporsi. E la cosa per noi sorprendente è che lui rimane e rimarrà fedele per sempre a questo suo nome. Non verrà meno al suo nome. Mai. Anche nelle ore in cui ci sembra che lui lo scordi. Dirà a Mosè: "Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione". Voi mi capite, il suo esserci è per sempre, sposato dunque anche a questa generazione, sposato ora ai nostri nomi. Il suo esserci non dice staticità, dice movimento. E' il Padre che si è esposto creando, il Dio che soffre per il suo popolo sottomesso in Egitto, ascolta il grido, e scende. E' il Figlio che mette tenda fra noi e ascolta persino il silenzio dei gridi, passando per strade e per case, sedendosi con pubblicani e peccatori, commuovendosi all'implorazione di un ladro a un metro dalla sua croce. E lo Spirito che spinge il diacono Filippo, quasi lo rapisce, per una avventura su strada deserta, lo fa salire sul carro di un eunuco ed è un raccontarsi. E' lo Spirito che oggi - volesse il cielo che fossimo docili al vento - ci spinge a salire su altri carri. Ad ascoltare racconti. E a fare racconti. C'è movimento nel nome di Dio, nel nome della Trinità. Ma troppo spesso abbiamo ricondotto Dio e Trinità in antri da cui non esce suono. Diventano nomi e vanno come ridestati, rianimati, salvati dalla immobilità cui li abbiamo tristemente costretti. E' ancora possibile? Sembra suggerire, con un "forse", la strada, una carissima amica, Gabriella Caramore, in un suo suo libro edito da non molto, "La parola Dio", quando scrive: "Ha ancora senso oggi la parola Dio? Forse guardando dentro le Scritture e nella storia è possibile rianimare quel movimento che gli steccati delle dottrine hanno travolto e inaridito. Forse, è possibile ritrovare in essa lo stesso dinamismo delle vite umane e delle stelle". Bellissimo: "ritrovare lo stesso dinamismo delle vite umane e delle stelle". Movimento, dinamismo. A volte mi chiedo se l'aver offuscato il dinamismo in Dio non abbia provocato come contraccolpo una sorta di lentezze o di immobilismi nelle chiese. Le cose vanno insieme. Pochi giorni fa papa Francesco, parlando ai referenti del cammino sinodale delle diocesi d'Italia, diceva loro: "Una Chiesa appesantita dalle strutture, dalla burocrazia, dal formalismo faticherà a camminare nella storia al passo dello Spirito, rimarrà lì e non potrà camminare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo". Dio - oso dire - non lo si definisce, lo si racconta. La bellezza del raccontare. Riprendere a raccontare un Dio che abita roveti ardenti, dentro il patire di un popolo, un Dio che porta Abramo nei giorni della sconsolatezza fuori la tenda di notte a guardare le stelle. Un Dio che in Gesù di Nazaret mette tenda tra noi, non ci carica di pesi, sa quanto portano le spalle, le libera a costo di morire e promette una guida: "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità". Un Dio, Spirito, che ci mette in guardia dalla sottomissione: "E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!"". Chiamati a libertà. E così ritrovare lo stesso dinamismo delle vite umane e delle stelle.
Lettura del libro dell'Esodo - Es 3,1-15 In quei giorni. Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: "Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?". Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: "Mosè, Mosè!". Rispose: "Eccomi!". Riprese: "Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!". E disse: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe". Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Ittita, l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va'! Io ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!". Mosè disse a Dio: "Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall'Egitto?". Rispose: "Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte". Mosè disse a Dio: "Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi". Mi diranno: "Qual è il suo nome?". E io che cosa risponderò loro?". Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono!". E aggiunse: "Così dirai agli Israeliti: "Io-Sono mi ha mandato a voi"". Dio disse ancora a Mosè: "Dirai agli Israeliti: "Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi". Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione". Sal 67 (68) Cantate a Dio, inneggiate al suo nome. O Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo, quando camminavi per il deserto, tremò la terra, i cieli stillarono davanti a Dio, quello del Sinai, davanti a Dio, il Dio di Israele. R Di giorno in giorno benedetto il Signore: a noi Dio porta la salvezza. Il nostro Dio è un Dio che salva; al Signore Dio appartengono le porte della morte. R Verranno i grandi dall'Egitto, l'Etiopia tenderà le mani a Dio. Regni della terra, cantate a Dio, cantate inni al Signore. Riconoscete a Dio la sua potenza. R Lettera di san Paolo apostolo ai Romani - Rm 8,14-17 Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!". Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Lettura del Vangelo secondo Giovanni - Gv 16,12-15 In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà".
|
|
|
Segnala
questa pagina ad un amico scrivi il suo indirizzo e-mail: |
||||