Le
parole della democrazia
di
Gustavo Zagrebelsky
Ogni
forma di governo usa gli "argomenti" adeguati ai propri
fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paurae il bastone per
far valere il comando dell' autocrate. La democrazia è
il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni,
nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono
le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento
delle società, le parole siano tanto importanti quanto
lo sono in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per
ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura
particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo. Anticipiamo
parte della lezione che Gustavo Zagrebelsky legge questa mattina
a Torino, nell' ambito di "Biennale Democrazia" Il numero
di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale
al grado di sviluppo della democrazia e dell' uguaglianza delle
possibilità. Poche parolee poche idee, poche possibilitàe
poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più
ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica.
Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter
pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti;
e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella
condizione del gregge che può solo obbedire al padrone.
Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro
le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di
Barbiana e la sua cura della parola, l' esigenza di impadronirsi
della lingua? Comanda chi conosce più parole. "È
solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi
e intende l' espressione altrui. Che sia ricco o povero importa
di meno". Ecco anche perché una scuola ugualitaria
è condizione necessaria, necessarissima, della democrazia.
Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono
essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni
sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore
emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le
parole, non far crescere parole con e su altre parole. Uno dei
pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio
ipnotico che seduce le folle, ne scatena la violenza e le muove
verso obbiettivi che apparirebbero facilmente irrazionali, se
solo i demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica.
Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere.
Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare
gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da
Socrate: "Sappi che il parlare impreciso non è soltanto
sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito";
"il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i
tempi", il che significa innanzitutto saper riconoscere e
poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato
da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento
dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà
schiavitù, l' ignoranza forza. Il tradimento della parola
deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta
Isaia, nelle sue "maledizioni" (Is 5, 20), ammoniva:
"Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene,
che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano
l' amaro in dolce e il dolce in amaro". I luoghi del potere
sono per l' appunto quelli in cui questo tradimento si consuma
più che altrove, a incominciare proprio dalla parola "politica".
Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano
il vivere insieme, il convivio. È l' arte, la scienza o
l' attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo
normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale,
di politica espansionista degli stati, di politica coloniale,
ecc. "Questa è un' epoca politica", ancora parole
di Orwell. "La guerra, il fascismo, i campi di concentramento,
i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare".
La celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea,
della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione,
di inconciliabilità assoluta tra parti avverse è
forse l' esempio più rappre* * * sentativo di questo abuso
delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non
del "politico" ma, propriamente, del "bellico",
cioè del suo contrario. Ancora: la libertà, nei
tempi nostri avente il significato di protezione dei diritti degli
inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo
sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza
e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella
alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola
d' ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare
qualunque propria azione. Quanto alla parola democrazia, anch'
essa è sottoposta a "rovesciamenti" di senso,
quando se ne parla non come governo del popolo, ma per o attraverso
il popolo: due significati dell' autocrazia. Da questi esempi
si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole
della politica: il passaggio da un campo all' altro, il passaggio
è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello
di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo,
dunque, di fronte al quale a chi pronuncia queste parole dovrebbe
sempre porsi la domanda: da che parte stai ? Degli inermi o dei
potenti? tere che, almeno, potrebbero invocare i fatti, se anche
questi non venissero loro sottratti. Non c' è manifestazione
d' arbitrio maggiore che la storia scritta e riscritta dal potere.
La storia la scrivono i vincitori - è vero - ma la democrazia
vorrebbe che non ci siano vincitori e vinti e che quindi, la storia
sia scritta fuori delle stanze del potere. Sono regimi corruttori
delle coscienze fino al midollo, quelli che trattano i fatti come
opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non
alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è
messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell'
ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la realtà
non è più l' insieme di fatti duri e inevitabili,
ma una massa di eventi e parole in costante mutamento, nella quale
ciò che oggi vero, domani è già falso, secondo
l' interesse al momento prevalente. Onde è che la menzogna
intenzionale, cioè la frode - strumento che vediamo ordinariamente
presente nella vita pubblica - dovrebbe trattarsi come crimine
maggiore contro la democrazia, maggiore anche dell' altro mezzo
del dispotismo, la violenza, che almeno è manifesta. I
mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e
quindi perfino ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati
uomini politici ma come corruttori della politica. La cura delle
parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate
definisce filologia. Vi sono persone, i misologi, che "passano
il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi
divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi
soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c' è
nulla di sano di saldo, ma tutto va su e giù, senza rimanere
fermo in nessun punto neppure un istante". Questo sospetto
che nel ragionare non vi sia nulla di integro c' è un grande
pericolo, che ci espone a ogni genere d' inganno. Le nostre parole
e le cose non devono "andare su e giù". Occorre
un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto
diverse siano, possano poggiare per potersi confrontare. Ogni
affermazione di dati di fatto deve essere verificabile e ogni
parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia
e da chi l' ascolta. Chi mente sui fatti dovrebbe essere escluso
dalla discussione. Solo così può non prendersi in
odio il ragionare e può esercitarsi la virtù di
chi ama la discussione. Affinché sia preservata l' integrità
del ragionare e la possibilità d' intendersi onestamente,
le parole devono inoltre, oltre che rispettare il concetto, rispettare
la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche i regimi
che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano
o li ricreano ad hoc. Sono l' estrema violenza nei confronti degli
esclusi.
(DALLA
LEZIONE DI GUSTAVO ZAGREBELSKY ALLA BIENNALE TORINESE)
FONTE: La Repubblica, 23 aprile 2009
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