Storia
della torre: un Dio oltre i confini
Il
testo biblico della Torre di Babele, se esplorato nel territorio
che lo precede e nel territorio che lo segue, può
riservare qualche sorpresa.
È come se fosse assediato da nomi, prima e dopo.
Il capitolo 10, che lo precede, presenta ai nostri occhi
una tavola di popoli, una vera e propria "carta"
dell'umanità allora conosciuta.
Dai tre figli di Noè, di generazione in generazione
Storia dell'occupazione della terra, da parte dei differenti
popoli che risalgono ai tre grandi ceppi: camiti, semiti,
giapeti.
Così, anche dopo il racconto della Torre di Babele,
ecco un'altra genealogia e ancora generazioni, ancora nomi,
nomi e nomi fino ad Abramo.
A
prima vista sono pagine aride, i nomi sono anche difficili
da pronunciare.
Vi confesso che anch'io pativo una certa fatica, per esempio,
quando la vigilia di Natale mi toccava leggere della nascita
di Gesù dopo una lunga teoria di nomi, nomi e nomi.
Invecchiando ho cominciato a sentirmi affascinato, affascinato
dai molti nomi, dagli impronunciabili nomi.
Ho sognato che a raccontare la genealogia fosse un antico
di giorni, uno degli anziani della memoria accanto al fuoco,
in una notte di veglia, quando più non sai se negli
occhi dei bambini in ascolto il riverbero è quello
delle fiamme o se ad accenderli è la magia dei nomi
impossibili.
Vorrei aggiungere che questo succedersi di nomi, di generazioni,
di terre, mi affascina per due motivi:
primo perché, a volte, tento di immaginare che cosa
c'è dietro un nome, dietro una terra: le storie,
storie da raccontare, le infinite storie da raccontare;
in secondo luogo, mi affascinano le genealogie, perché
mi sembra di capire che in questo generare, in questo succedersi
di generazioni, in questo ramificarsi dei popoli sulla terra,
sia scritta quasi l'obbedienza -lo si sappia o no- a un
disegno, quello di Dio: "Fruttificate, moltiplicatevi,
riempite la terra" (Gen 1, 28).
E quel disegno era a sua volta, dentro una benedizione.
"Dio li benedisse, e disse loro Dio: "Fruttificate,
moltiplicatevi, riempite la terra"".
È
affascinante dunque pensare che questa varietà dei
popoli è nel segno della benedizione di Dio.
Questa differenza è una differenza benedetta. Questa
varietà è una varietà benedetta. Questa
molteplicità è una molteplicità benedetta.
La
dispersione dei popoli che si stanziano sulla terra non
è qualcosa di negativo, è opera della benedizione
di Dio.
Ed
è come se da questa mappa dei popoli, noi, come per
una fessura, già intravedessimo il messaggio del
capitolo 11.
Non è la dispersione che va giudicata negativamente.
Giudicato negativamente da Dio è piuttosto il tentativo
opposto, quello di imporre un'unità, non voluta da
lui, come dominio.
E
così ci affacciamo al nostro racconto, che esplora,
mette a tema, l'orizzonte del rapporto tra i popoli, tra
le culture.
Il libro della Genesi esplora temi capitali: il rapporto
uomo-donna, il rapporto con la terra e il rapporto con Dio,
con il male, con il lavoro
, e ora sembra esplorare,
in questo capitolo, l'orizzonte dei rapporti tra popoli
e popoli, l'orizzonte delle culture.
Il panorama, diremmo, internazionale, anche se il racconto
getta luci, a mio avviso, anche su un panorama meno lontano,
ma non per questo meno importante, che è quello personale.
Il
nostro testo inizia: "Ora tutta la terra aveva una
stessa lingua e le stesse parole".
Era
una condizione positiva -stessa lingua e stesse parole-?
O era una condizione degenerata, negativa?
Anche all'interno dell'esegesi rabbinica ci sono le due
interpretazioni.
Una
prima interpretazione tende a dire: "Una stessa lingua",
cioè la lingua con cui il mondo fu creato da principio,
la lingua "santa".
Ma
c'è una interpretazione anche divergente, che va
a segnalare la negatività dell'avere "le stesse
parole".
"Gli uomini" -commentano i rabbini- "erano
animati da uno stesso disegno. Essi dicevano: Dio non ha
alcun diritto di riservare per sé le regioni celesti.
Saliamo dunque al firmamento e facciamogli guerra".
Avere
le stesse parole, condizione negativa, secondo un altro
commento rabbinico, perché le stesse parole significa
"parole contrarie a colui che è l'unico nel
mondo".
Dunque un disegno contrario a quello di Dio.
"In
realtà" - osserva Enzo Bianchi - "se c'è
una parola unica, questa è la parola del più
forte, del più potente, di colui che detiene il potere"
(E. Bianchi, Adamo dove sei?, Qiqajon, 1994, p. 287).
È lui che si fa sentire!
Forse
non è un caso che già nella genealogia che
precede il nostro racconto, proprio in mezzo a quel dilagare
di nomi è narrata la storia di Nimrod, leggendario
fondatore di un regno nella regione mesopomica, una storia
raccontata con parole che creano un sussulto, come se la
patologia venisse da lontano:
"Kusch generò Nimrod; questi cominciò
ad essere un potente sulla terra. Egli era potente nella
caccia di fronte al Signore.
Perciò si dice : 'Come Nimrod, potente nella caccia
di fronte al Signore'.
Principio del suo regno fu Babel, Erek, Akkad e Kalneh nella
terra di Shin'ar".
È
significativo: "principio del suo regno fu Babel".
È un altro principio non quello del giardino.
Ci si è staccati dall'oriente, dall' "in principio"
del giardino, l' "in principio" di Dio.
Prosegue
il racconto:
"Ed avvenne che, emigrando dall'oriente, gli uomini
trovarono una pianura nel territorio di Shin'ar".
"Emigrando
dall'oriente".
È sempre carica di fascino questa parola senza aggettivo:
l'oriente. L'oriente dice Dio. Anche il Messia verrà
"dall'oriente".
Non per nulla, quando la terra ancora non era cementificata,
si potevano ancora costruire le chiese rivolte ad oriente,
nell'attesa del ritorno del Signore.
L'espressione "emigrando dall'oriente" potrebbe
evocare un grande "disorientamento". Un disorientamento
quando sembrava che ci fosse finalmente un progetto comune.
Ma la parola "oriente" ci risuona dentro con la
suggestione e l'emozione anche dell'illimitato: i Magi?
Dall'oriente. Non è detto da dove. L'oriente può
essere ogni dove.
E qui invece si va a concentrarsi nell'unica pianura: una
pianura che ci contenga tutti, come in un imbuto. Un recinto
che soffoca la sete dell'illimitato.
E mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l'assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli,
spazi senza recinti
e l'eco dopo millenni
di messaggi segreti
incisi da beduini
su rocce d basalto
a segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d'indipendenza
nell'infuocato deserto.
È
scritto ancora: "Vi si stabilirono". Quasi perdessero
l'animo dei nomadi.
"E si dissero l'un l'altro: 'Venite, facciamoci mattoni
e cuociamoli al forno'. Il mattone servì loro da
pietra e il bitume da cemento".
Il
testo non va certo nella direzione di censurare il progresso,
la tecnica. Tecnica, progresso a servizio del giardino o
contro il giardino?
Perdonate
la digressione, ma io mi ritrovo a lottare -lottatore perdente-
per il giardino.
A Lecco, a lottare per le pendici di Montalbano, un grappolo
di case, su un pianoro. Hanno costruito casermoni. Hanno
cementificato la città.
Ora mi ritrovo con una piccola piazza a Milano davanti a
una chiesa senza sagrato: bisogna sacrificare un fazzoletto
di terra, gli alberi. Vince l'automobile, cementifichiamo
anche il sottosuolo.
Il
progresso, la tecnica
per la libertà?
Mi
è successo di paragonare questa scena degli uomini
accaldati nella fornace a cuocere mattoni per la torre della
potenza a un'altra scena evocata dall'immaginazione forte
di Erri De Luca, che in un suo scritto sul giubileo parla
del Sinai come di una fornace.
Erri De Luca fa notare che il testo biblico recita così:
"Dopo aver parlato con Mosè "in monte Sinai",
Dio diede le due tavole".
"In monte", come a dire: dentro una cava, dentro
una fornace.
"Quel monte" -scrive Erri De Luca- "diventa
un'enorme fornace, kivshàn, quella in cui si cuociono
i mattoni e che raggiunge gradi che arroventano la terra.
Dio e Mosè stanno in quella fornace, dentro la colonna
di fumo e fabbricano i mattoni, levenìm, non più
quelli da schiavi in Egitto per l'edilizia faraonica, ma
quelli di libertà da consegnare all'intera specie
dell'Adàm.
Il Sinai è stata la più solenne cava di pietre
nella storia dell'umanità. Due sole tavole di quella
materia bastarono a fondare alleanza-libertà tra
creatore e specie umana" (Erri De Luca, L'urgenza della
libertà, pp. 12-13).
A
confronto: i mattoni della potenza nella pianura di Shin'ar
e i mattoni di libertà che vengono dalla fornace
del Sinai! Mattoni questi ultimi, cotti non sospettando
un Dio antagonista, ma cotti dall'uomo e da Dio insieme.
Ci
chiedevamo: il progresso, la tecnica, a servizio di quale
progetto?
Quale
fosse il progetto risulta con chiarezza dalle parole che
invitano alla costruzione della torre:
"Poi dissero: venite, costruiamoci una città
e una torre la cui cima sia nei cieli e facciamoci un nome,
affinché non ci disperdiamo sulla faccia della terra".
La
città che qui si vuol costruire è una città
immagine della grandezza: "la cui cima tocchi il cielo".
È come il tentativo di scavalcare i limiti umani.
"Non è l'aspirazione alla grandezza come tale"
-scrive Westermann- "o la creazione delle grandi opere,
che viene biasimata in questo racconto, piuttosto viene
indicato il pericolo dello scavalcamento dei limiti, che
minaccia l'uomo nel suo essere uomo" (K. Westermann,
Genesi, Piemme 1989, p. 93).
Un progetto di "svuotamento del cielo", che ritorna
nei Profeti, come progetto condannato da Dio:
"Eppure tu pensavi
salirò in cielo
sulle stelle di Dio
innalzerò il mio trono.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi
mi farò uguale all'altissimo" (Is. 14, 13-14)
Voler
essere grandi, farsi un nome, svuotare il cielo, è
l'anima del progetto.
La logica che soggiace è la logica dell'onnipotenza,
è la pretesa dell'immortalità.
La logica non è "custodire il giardino",
il giardino dell'umanità, ma farsi un nome, avere
successo, dominare sugli altri.
La torre del controllo: tutto sotto controllo!
Sembra di leggere qui l'origine di ogni razzismo, di ogni
totalitarismo, di ogni soffocamento della diversità.
"Ma
il Signore scese a vedere la città e la torre che
stavano costruendo gli uomini".
E
i rabbini, a commento di Dio che scende, scrivono:
"Dio non aveva bisogno di scendere a vedere. La scrittura
però ha voluto in tal modo insegnare ai giudici che
essi non devono dichiarare colpevole l'imputato, prima di
avere esaminato e considerato il caso di persona".
Prosegue
il racconto:
Il Signore disse: ecco, essi sono un solo popolo e hanno
tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro
opera e quanto avranno in progetto di fare non sarà
loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro
lingua perché non comprendano più l'uno la
lingua dell'altro".
È
come se Dio smascherasse la parola "unità".
Un solo popolo, una sola lingua, un'unità che soffoca
le diversità, un'unità che uccide l'immaginazione
-il modello è unico, va globalizzato! - un'unità
che è la propria lingua imposta a tutti: la lingua
della propria religione, della propria cultura, della propria
razza, le settanta lingue della genealogia impoverite in
un'unica lingua.
E si dice: abbiamo fatto l'unità. Come quando in
una casa parla uno solo. Dio smaschera questa unità,
l'unità dell'unica lingua.
Nella Bibbia, nel Secondo Testamento, c'è un episodio
che tutti gli esegeti mettono a confronto con quello della
Torre di Babele, l'episodio della Pentecoste. Lo Spirito
scende sotto lingue di fuoco e nasce la comprensione delle
lingue. La confusione delle lingue a Babele, la comprensione
delle lingue a Pentecoste.
Che non è -come a volte si cerca di farlo passare-
l'accadere di una lingua sola, una sorta di esperanto, che
ci faccia intendere gli uni gli altri.
La gente era stupita non perché ci fosse una lingua
sola, ma perché udivano gli apostoli parlare ciascuno
nella propria lingua nativa. "E com'è che li
sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?"
(Atti 2, 8).
L'ideale
non è dunque un unico centro di potere religioso,
politico, sociale, culturale, ma stare dentro la lingua
mobile degli altri.
La
dispersione!
Dio non vuole essere rinchiuso in una sola lingua, potremmo
dire anche in una religione, se una religione tende a imprigionare
Dio.
Si può celebrare la Pentecoste e ritornare purtroppo
al progetto dell'unica lingua.
Così
scrive Erri De Luca:
Così
il cristianesimo riprenderà l'opera di ricondurre
l'umanità dispersa in Babele verso un'unica altura,
a un solo altare. È impresa forse non gradita al
dio che presso la torre disperse il più grande tentativo
ecumenico tentato dagli uomini.
Forse Dio apprezza di più i molti nomi con cui i
popoli lo hanno rivestito nelle varie lingue. La gutturale,
comune agli anglosassoni, la dentale dei mediterranei, la
levissima iod degli Ebrei sono le iniziali di un'inesauribile
pronuncia del suo nome. Dai trentasei angoli del mondo i
bisbigli delle persone declinano innumerevoli volte i titoli
astrusi e soavi del Creatore. Sparse in terra in litanie
e sussurri, è bello credere che le note compongano
in cielo un solo nome, i canti un solo accordo.
Per essere chiamato con molti nomi Dio disfece la torre,
la grandezza posticcia di uomini ridotti a maestranze. Scelse
di essere nominato in mille lingue perché non si
esaurisse la ricerca. È ancora lì, alla superficie
del caos.
C'era una torre in Scin'ar, fu smembrata in Babele. Quando
si dice "torre di Babele", si confonde un edificio
col nome del suo crollo, una nave con la tempesta che l'affonda.
Gli uomini coltivano con ostinazione residua il sogno di
un'unica fabbrica che arrivi all'origine dell'infinita varietà.
Dio demolì a Scin'ar la pretesa di agguantare per
virtù di tecnica, di ingegneria, l'universo. Non
ne siamo rimasti persuasi. La dispersione lì avvenuta
delle lingue e delle fedi da parte di Dio costituisce prova
di una provvidenza che non è stata ancora apprezzata
(E. De Luca, Una nuvola come tappeto, Feltrinelli 1994,
pp.18-19).
È bello pensare che il cap. 11 ha nelle sue ultime
battute il nome di Abramo che è il contrario dell'operazione
di Babele.
Non vuole svuotare il cielo: obbedisce alla voce.
Non vuole crearsi una città potente: esce dalla sua
terra.
Non vuole farsi un nome grande: accetta il nome da Dio e
Dio, non lui, farà grande il suo nome.
Una grandezza che non è prodotto delle proprie mani,
della propria voglia di affermazione, una grandezza che
viene da Dio:
"Farò di te un grande popolo
e ti benedirò
renderò grande il tuo nome
e diventerai una benedizione.
In te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra" (Gen. 12, 2-3).
È
la contestazione del mito della scalata, essere sopra gli
altri, se possibile sopra Dio
E infatti, quando un uomo, una donna, un popolo diventa
benedizione?
Quando costruisce la torre, o quando discende?
Al mito della scalata del cielo la Bibbia risponde con un
Dio che scende e cammina: "sono stato con te dovunque
sei andato" (2 Sam. 7,9). Risponde con la storia di
Gesù, il Figlio di Dio, sceso nella carne dell'uomo.
Davvero una benedizione.
don
Angelo Casati
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