CREDENTI
E NON CREDENTI, LA SFIDA DEL DIALOGO
(per rivista Riforma)
È
una condizione inedita. E tutti siamo -chi più chi
meno- coinvolti. Solo pochi decenni fa il confronto "credenti"
e "non credenti" era occasione rara, confinata
a dibattiti su libri e riviste: qualcuno di noi ricorda
titoli che facevano notizia.
Oggi il confronto non è più così raro
né così lontano, non è riservato alle
cattedre accademiche. Il "non credente" -scrivo
la parola con un incerto disagio, perché sarebbe
ingenuo rattrappirne la figura nella categoria dell'ateo-
il "non credente" siede a tavola con noi, occupa
la scrivania accanto, è nella cerchia dei nostri
amici, quelli più cari, a volte è uno dei
partner nella coppia.
Non ho -lo confesso- competenze accademiche per discuterne.
Posso solo interrogarmi a partire dal vissuto quotidiano,
là dove si incrociano i cammini. Testardamente e
forse ingenuamente persisto a credere che se una condizione
ci è data, non può essere elusa, può
diventare anzi un'opportunità, oserei dire una grazia.
Se
l'incontro credenti e non credenti può essere evocato
come una terra di grazia e di mistero, non ci appartiene,
non può appartenerci come cristiani l'atteggiamento,
purtroppo ancora diffuso, forse prevalente, di chi sentenzia
e condanna. Sentenze e condanne tanto più radicali
e perentorie quanto meno si è interrogato e ascoltato
l'altro.
Il mistero di Dio nel cuore dell'altro impone rispetto,
chiede silenzio e empatia, chiede di sostare senza invasioni
sulla soglia, evoca l'apertura di cuore, quella di Gesù,
che aveva fama -noi purtroppo l'abbiamo perduta per strada-
di essere amico dei pubblicani e dei peccatori, cioè
della gente "distante", quelli che, sovvertendo
criteri inveterati, chiamava "vicini", più
vicini dei cosiddetti vicini.
L'osservatorio
del quotidiano, quello che mi è più familiare
come parroco, mi insegna che la realtà dei non credenti
è spesso più articolata e variegata di quanto
si pensi. Spesso dietro un volto c'è un cammino,
una storia da ascoltare. Tante storie quanti sono i volti.
I volti dei non credenti non sono per lo più quelli
altezzosi e cinici che tanta letteratura e tanta predicazione
cattolica ha contrabbandato.
In una sua riflessione su una rivista uscita in questi giorni
Massimo Marcocchi invita al discernimento e scrive:
"C'è il laicismo becero, c'è il laicismo
pensoso di uno scrittore e di un filosofo che ammiro molto:
Claudio Magris e Norberto Bobbio. Chi sono i laici? Sono
i non credenti? Forse questa definizione è spicciativa.
Il laico è l'uomo del dubbio, è l'uomo della
tolleranza, è l'uomo di una verità che si
va continuamente facendo, che non è radicata in visioni
generali del mondo, che è sostanzialmente antidogmatica"
(La rivista del clero italiano, 6/2001, pag. 441).
Tra
credenti e non credenti c'è, a mio avviso, una fiducia
da riconquistare. E nessuna fiducia, nessuna, può
essere attesa lungo i sentieri del dogmatismo e delle immobili
"verità".
Se io ho tutto e l'altro niente, anche in fatto di verità,
cade ogni possibilità di dialogo, può essere
ipotizzato solo un monologo. Al massimo posso concedermi
la benevola "degnazione" di ascoltare, ma con
la convinzione che l'altro non ha nulla da dirmi, nulla
che io non sappia.
E se l'altro, il non credente, fosse invece uno presso il
quale lo Spirito, in cui diciamo di credere, ci ha già
preceduti? Nei suoi "racconti dello Spirito Santo"
il Card. C. M. Martini afferma che lo Spirito arriva presso
gli altri molto prima di noi, semina prima di noi, opera
cose ben più grandi di quelle che noi possiamo fare
e immaginare.
Ci
accomuna, credenti e non credenti, il dono di pensare e
di interrogarci a partire dalle nostre provvisorie limitate
conquiste. Ci appartiene la condizione di essere tutti,
credenti e non credenti, della razza dei nomadi, fuori dalle
secche degli immobilismi:
Incontenibile andare
di monte in monte
inquieti dietro un mistero
che sempre ti seduce
da un'altra valle.
Perché
se è vero, come crediamo, che Cristo è la
via, la verità e la vita, è anche vero che
il suo mistero avrà sempre terre inesplorate, per
grazia, da attraversare.
Il prologo del vangelo di Giovanni sembra allargare la visione
quando del Verbo di Dio, della Parola luminosa delle origini
dice: "Tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò
che esiste.
Insensato e miope dunque il tentativo di ridurre Cristo
a un luogo o a una religione.
"Niente senza di lui": come a dire -mi si perdoni
la parola- che è "impastato" in ogni cosa,
è finito in ogni cosa: il canale ha portato acqua
dappertutto.
E quindi, voi mi capite, siamo chiamati a essere, oltre
che della razza dei nomadi, anche della razza degli scopritori,
uomini e donne delle miniere, che sanno scavare e scovare.
Fuori dalle ingenuità del passato, quando ti volevano
far credere che l'oro fosse solo nella tua miniera. Giovanni
dice che tutto il mondo è una miniera. Va a scavare.
Va a scovare. Va a far brillare l'oro. Portalo alla luce.
Giorni
fa, Eugenio Scalfari, ex-direttore di "Repubblica",
neoilluminista, a conclusione di un suo editoriale scriveva:
"Molto si giocherà sulla cultura. Vorrei anche
dire che tutto si giocherà sulla cultura. Ricordatelo,
voi che pensate che il denaro e la sua conquista, il potere
e la sua conquista, la felicità materiale e la sua
conquista siano tutto. Denaro, potere, felicità materiale
non si conquistano senza cultura ma soprattutto non sono
tutto: ci sono spazi di fantasia, realizzazione di sé
e donazione di sé che stanno oltre la linea del semplice
benessere. Questo fa la differenza".
Leggendo queste parole mi sono sentito interpretato. Ma,
come credente, mi sono sentito attraversare da un'emozione
al pensiero che un laico, non credente, citasse, forse senza
saperlo, le tre tentazioni di Gesù nel deserto e
ce ne mettesse in guardia, ora che non sempre le voci ecclesiastiche
dall'alto ce ne segnalano il pericolo.
Altre volte è il non credente a portare alla luce
la "parte di non credente" -così la chiama
il Card. Martini- che dimora dentro di noi, là dove
fede e non fede convivono.
E, dunque, benedetto, benedetto il non credente, che ricorda
a noi credenti la preghiera del padre dell'ossesso del vangelo:
"Credo, Signore, ma tu vieni in aiuto alla mia incredulità".
E
benedetti noi, benedetti noi credenti, se, più che
certezze-prigione, sapremo seminare con fiducia domande.
Anche la fede, nell'immaginario del passato -forse anche
del presente?- era declinata presuntuosamente come una risposta
a tutto.
Poi nacque la domanda: dov'è? dov'è Dio nell'orrore,
nell'inferno della Shoah? La domanda del secolo che ci lasciamo
alle spalle, la domanda che ci fa curve le spalle.
È nata la domanda. O forse la domanda è da
sempre nel silenzio più segreto del cuore. Domanda
rimossa, o perché soffocata dal frastuono del nulla
o perché censurata dagli imbonitori delle coscienze,
quelli che vendono a buon mercato le risposte e non hanno
esitazioni. Loro sanno tutto!
Il biblista don Bruno Maggioni, in un suo editoriale illuminante
ricorda la problematicità e l'apertura di molte pagine
della Bibbia e così scrive:
"Colpisce il fatto che all'interno della Bibbia la
domanda dell'uomo non scompare, come se venisse annullata
dalla rivelazione. Bensì riemerge doppiamente.
L'esperienza del dolore innocente, dell'ingiustizia trionfante,
della delusione, pare contraddire la bontà e la fedeltà
di Dio e questo spinge l'uomo biblico -pur credente- a chiedersi
se veramente Dio è fedele, se davvero la sua promessa
è solida. L'uomo biblico si imbatte continuamente
nel mistero di Dio. E così la sua domanda si fa doppia.
Non soltanto chi è l'uomo, ma anche chi è
Dio.
Per alcuni il fatto che nella Bibbia la domanda si riproponga
costituisce una delusione. Personalmente ne provo entusiasmo.
È un segno che la Bibbia è un libro sincero,
non un libro edificante nel quale i conti tornano sempre.
Far tornare i conti è desiderio dell'uomo, non il
vero modo di manifestarsi di Dio".
Credenti e non credenti, compagni nella domanda che apre.
Nelle
prime pagine di un suo piccolo libro "Perché
no?", Moni Ovadia, uomo di teatro, saltimbanco, come
ama definirsi, "ebreo corrosivo", ricorda che
seconda la gemahtria cabbalistica ebraica, la parola Adam,
essere umano, corrisponde numericamente alla particella
interrogativa "che cosa?".
"Da questa identità numerica" -scrive Moni
Ovadia- "i nostri maestri deducono che essere umano
è colui che sa porre domande. Non chi dà risposte,
ma chi sa porre domande. Perché chi pone domande
apre alla produzione di senso, apre al futuro, dà
alle generazioni avvenire la possibilità di intervenire,
di esistere. Perché la domanda è quella che
apre la questione, sollecita una risposta anche su questioni
già apparentemente chiuse: si trova sempre una nuova
domanda" (Perché no?, Bompiani, 1996, pag. 10).
"La domanda" -fa eco Martin Cunz- "ci costringe
a guardare negli abissi di noi stessi, delle persone con
cui abbiamo a che fare, negli abissi della nostra epoca,
ma anche negli abissi di Dio".
26
giugno 2001
don
Angelo Casati
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