"Storia
di una piccola cattedra"
Mi
sono chiesto che senso dare a questo incontro. Dentro la
mia vita. Perché la cattedra labbiamo
tutti vissuta, non come una dissertazione vana, ma come
un vento, forse lieve, che però muoveva la vita,
muoveva pensieri, muoveva sogni, muoveva la luce e muoveva
anche la fatica della luce, così direbbe unamica,
Gabriella Caramore, così ha intitolato il suo libro:
La fatica della luce, o se volete la fatica
di venire alla luce.
Mi
sono detto che il senso poteva essere non quello del bilancio
di unesperienza, perché, voi mi conoscete,
conoscete la mia misura, e sapete che non ne sono capace,
non mi ritrovo nelle sintesi. Forse più nei racconti.
Il senso allora che intravedo è quello di una breve,
sosta breve a osservare. Poi cè la vita, che
chiama. Sosta breve, non ci si può attardare. Sosta
in parete, prima di affrontare un altro strappo.
Ricordo
come nacque questa esperienza. Il nome, come voi sapete,
allude. Allude allesperienza di una cattedra ben più
prestigiosa, quella del cardinale Martini. Ci eravamo ritrovati,
un gruppo di amici, alle prime sessioni della sua Cattedra,
ne avevamo subito il fascino, ricordo la sala di via S.
Antonio 5. Il fascino era, devo dirlo, non solo per le cose
dette, ci sono altre cattedre prestigiose dove vengono dette
cose alte, ma per lintuizione che percorreva quella
del cardinale, intuizione allusa nella stranezza del titolo,
con quella aggiunta, alla voce cattedra, quella
specificazione dei non credenti. Nel panorama
ecclesiastico di quel tempo, e non solo di quel tempo, anche
del nostro tempo, dove per lo più la cattedra nei
nostri ambienti è riservata a gerarchie o a ecclesiastici
o a laici devoti, quelli che non fanno domande, ma fanno
genuflessioni, suonava stranezza che a salire in cattedra
fossero i non credenti o i diversamente credenti. E che
bastasse essere uomini e donne, uomini e donne pensanti,
per avere ospitalità ad una cattedra. E non dei sorvegliati
speciali.
Intuizione
bellissima. Che però ancora oggi mi pone una domanda:
come possiamo essere arrivati a pensare che solo alcuni
abbiano qualcosa da dire, da raccontare e che lo Spirito
parli solo nelle case dei credenti, solo dalle loro labbra
o, peggio ancora, solo nelle chiese e nelle sagrestie. Eppure
qualcuno ancora lo pensa, pensa che la verità è
da una parte sola e che i cattolici non hanno niente da
imparare da nessuno. E che in cattedra vanno di diritto
le gerarchie. Una verità, una falsa verità,
smentita dalla vita, insopportabile per chiunque di noi
custodisce lavventura di frequentare ancora senza
pregiudizi la vita, frequentare case, donne e uomini del
nostro tempo e di incontrarli al di là del pregiudizio
del diverso.
La
convinzione che in cattedra dovessero andare solo le gerarchie
ci sembrava cozzare contro pagine e pagine della Bibbia.
Anche fortemente e impietosamente polemiche, una polemica
a cui Gesù non si era sottratto: Sulla cattedra
anche lui parlava di cattedra sono saliti scribi e
farisei....
La
cattedra del cardinale, voi capite, incrociava questi nostri
pensieri. Ci si ritrovava nella sala di via S. Antonio,
ma poi si sentiva il bisogno di riprendere insieme le riflessioni.
Ci si ritrovò così in gruppo nella casa di
un nostro amico. La rivedo nella memoria. Ma poi ci dicemmo
che lesperienza andava condivisa, e che forse potevamo
pensare a una piccola cattedra nella parrocchia. Nella parrocchia,
ma non risucchiata da clericalismi e da appartenenze, avremmo
tradito il nome. Nello stile dellaccoglienza senza
discriminazioni e del non imprigionamento, uno stile che
andava prendendo i nostri sogni e che era alluso in quel
titolo del notiziario parrocchiale Come albero.
Nella forma dunque più aperta, la porta non è
ingombra, non assediata da "vischiosità clericali".
Puoi entrare e nessuno ti chiede tessere di appartenenza,
che già scoraggerebbero il tuo affacciarti. Puoi
entrare se la forma del riunirsi è lontana da ogni
arroganza dello spirito, ti senti accolto nella tua sete.
Sarà sete di Dio, del vangelo o di una umanità
o di una terra più vera? Accolti forse nella sete
alla quale ancora non sappiamo dare un nome.
Nel
vangelo è scritto di Gesù che "accogliendo
le folle" parlava loro del regno di Dio. E quell
accogliendo non era per noi un inciso, irrilevante.
In quel gesto non era già un baluginare del regno
di Dio, quasi una precedenza del gesto sulla parola? Non
so se sempre ci siamo riusciti, ma vi confesso, era nel
desiderio che, entrando in questa sala, chiunque si sentisse
atteso e accolto. Desiderio di una cattedra che ponesse
il suo fascino e la sua bellezza nellaccoglienza.
Ricorderò come in una delle nostre cattedre, forse
sedici anni fa, venne per la prima volta tra noi, Moni Ovadia.
Entrò in questa sala, si guardò attorno e,
prima ancora di iniziare a parlare, mi disse: Ho capito,
don Angelo, chi siete. Lo guardai con aria stupita.
Gli chiesi da che cosa lavesse capito. Mi disse: dalla
disposizione delle sedie. Dalla disposizione, capite,
a cerchio delle sedie. Vi confesso che quella sera mi rallegrai.
Vi confesso anche un peccato di orgoglio. Mi dissi che forse
non era stato sbagliato del tutto cambiare lordine
delle sedie nella sala al primo piano. Lavevo trovata
con le sedie allineate, come in un antica aula scolastica
e il tavolo di presidenza stava sopra una predella. Cambiammo
la disposizione delle sedie, eliminammo la predella.
Cominciò
lavventura della nostra piccola cattedra. Un nome
ne chiamava un altro. Forse vi siete accorti: per la nostra
incapacità a programmazioni alte, per la mia incapacità,
la nostra piccola cattedra un poco, o forse tanto, si differenziava
da quella del Cardinale. Era meno un ciclo compiuto. Era
più rapsodica.
Ci
radunavamo a pensarla: la vita ci faceva incrociare domande.
Se stai nel chiuso delle sacrestie e delle burocrazie, non
accade nulla o quasi nulla. La cattedra voleva stare sulle
strade della vita, là dove camminiamo insieme e insieme
ci interroghiamo. Da pensanti, direbbe Martini. Perché
la vera distinzione diceva non è
tanto tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non
pensanti. E per grazia, lasciatemi usare
questa parola che dice lo stupore di ciò che accade,
per grazia accanto alle domande apparivano nomi,
a volte erano solo nomi e non ancora volti, o forse meglio
erano volti, se volto significa più della pelle di
un viso.
Abbiamo
incrociato donne e uomini che avevano dentro le domande
della vita. Sono diventati compagni di viaggio. Questa sera
mi sarebbe piaciuto elencarne il nome, a uno a uno, uno
stuolo, elencare i nomi, con amore, uno a uno. Quasi cento,
o anche di più. In questa sala li abbiamo ascoltati,
li abbiamo interrogati. Non sono stati dei conferenzieri
anche se ne avevano tutta la lucentezza. Abbiamo avuto larditezza
di chiedere loro qualcosa di più: di raccontarci
la loro ricerca. Ci hanno dato questo di più. Che
io penso appartenga allamicizia. Sono stati per noi
compagni di viaggio. Il mistero nel cuore dellaltro
impone rispetto, chiede silenzio e empatia, chiede di sostare
senza invasioni, sulla soglia, evoca lapertura del
cuore, quella di Gesù, che aveva fama -purtroppo
noi labbiamo perduta- di essere amico dei distanti,
accusato perché amico dei distanti. Amico
-non so se lavete notato- cè una precedenza
sulla distanza, la precedenza dellamicizia. Perché
è nellamicizia che avviene lo svelamento, laffacciarsi
delluno allaltro. Molti di noi, forse hanno
colto, questa dimensione della nostra piccola cattedra.
In questo forse ci sembra, anche perché piccola,
un po diversa da quella del cardinale. Chiedevamo,
a chi veniva tra noi, di riflettere con noi, ma anche di
raccontarsi. E si formavano fili, si intessevano fili. Tantè
che spesso ci sentivamo dire: ma come fate, come fate
ad avere luno e poi ad avere laltro?.
Non lo sappiamo. Era il miracolo della rete.
E
cadevano pregiudizi. Che solo la distanza poteva avallare.
I volti dei non credenti o dei diversamente credenti non
erano per lo più quelli altezzosi e cinici che tanta
letteratura e tanta predicazione cattolica ha contrabbandato.
In
una sua riflessione su una rivista uscita anni fa su la
Rivista del clero Massimo Marcocchi scriveva:
Cè il laicismo becero, cè
il laicismo pensoso di uno scrittore e di un filosofo che
ammiro molto: Claudio Magris e Norberto Bobbio. Chi sono
i laici? Sono i non credenti? Forse questa definizione è
spicciativa. Il laico è luomo del dubbio, è
luomo della tolleranza, è luomo di una
verità che si va continuamente facendo, che non è
radicata in visioni generali del mondo, che è sostanzialmente
antidogmatica (La rivista del clero italiano, 6/2001,
pag. 441).
Ci
accomuna, credenti e non credenti e diversamente credenti,
il dono di pensare e di interrogarci a partire dalle nostre
provvisorie limitate conquiste. Ci appartiene la condizione
di essere tutti, credenti e non credenti e diversamente
credenti, della razza dei nomadi, fuori dalle secche degli
immobilismi:
Incontenibile andare
di
monte in monte
inquieti
dietro un mistero
che
sempre ti seduce
da
unaltra valle.
Perché
relativismo vero è rendere Dio e il suo mistero relativo,
imprigionandolo nel relativo dei nostri pensieri e delle
nostre formulazioni.
Insensato
e miope dunque il tentativo di ridurre Cristo a un luogo
o a una religione.
Non
è forse scritto del Verbo di Dio nel prologo di Giovanni
che tutto è stato fatto per mezzo di lui e
senza di lui niente è stato fatto di ciò che
esiste?. Niente senza di lui: come a dire
-mi si perdoni la parola- che è impastato
in ogni cosa, è finito in ogni cosa: il canale ha
portato acqua dappertutto.
E
quindi, voi mi capite, dovremmo essere, poco o tanto, uomini
e donne delle miniere, della razza degli scopritori, uomini
e donne delle miniere, che sanno scavare e scovare.
Fuori
dalle ingenuità del passato, quando ti volevano far
credere che loro fosse solo nella tua miniera. Giovanni
dice che tutto il mondo è una miniera. Va a scavare.
Va a scovare. Va a far brillare loro. Portalo alla
luce.
Ricordo
che Eugenio Scalfari, ex-direttore di Repubblica,
neoilluminista, a conclusione di un suo editoriale anni
fa scriveva: Molto si giocherà sulla cultura.
Vorrei anche dire che tutto si giocherà sulla cultura.
Ricordatelo, voi che pensate che il denaro e la sua conquista,
il potere e la sua conquista, la felicità materiale
e la sua conquista siano tutto. Denaro, potere, felicità
materiale non si conquistano senza cultura ma soprattutto
non sono tutto: ci sono spazi di fantasia, realizzazione
di sé e donazione di sé che stanno oltre la
linea del semplice benessere. Questo fa la differenza.
Leggendo
queste parole mi sono sentito interpretato. Come credente,
mi sono sentito attraversare da unemozione al pensiero
che un laico, non credente, citasse, forse senza saperlo,
le tre tentazioni di Gesù nel deserto e ce ne mettesse
in guardia, ora che non sempre le voci ecclesiastiche dallalto
ce ne mettono in guardia.
Altre
volte è il non credente a portare alla luce la parte
di non credente -così la chiama il Card. Martini-
che dimora dentro di noi, là dove fede e non fede
convivono.
E,
dunque, benedetto, benedetto il non credente, che ricorda
a noi credenti la preghiera del padre dellossesso
del vangelo: Credo, Signore, ma tu vieni in aiuto
alla mia incredulità.
E
benedetti tutti noi, se, con la cattedra, ma non solo con
la cattedra, più che certezze-prigione, avremo accolto
e seminato domande, se, dietro quelle domande, saremo andati
a esplorare orizzonti.
La
fede, purtroppo, nellimmaginario del passato -forse
anche del presente?- spesso viene presuntuosamente evocata
come una risposta a tutto.
Poi
nacque la domanda: dovè? dovè
Dio nellorrore, nellinferno della Shoah? La
domanda del secolo che ci siamo lasciati alle spalle, la
domanda che, con tante altre drammatiche, ci fa curve le
spalle.
È
nata la domanda. O forse la domanda è da sempre nel
silenzio più segreto del cuore. Domanda rimossa,
o perché soffocata dal frastuono del nulla o perché
censurata dagli imbonitori delle coscienze, quelli che vendono
a buon mercato le risposte e non hanno esitazioni. Loro
sanno tutto!
Il
biblista don Bruno Maggioni, in un suo editoriale illuminante,
ricordando la problematicità e lapertura di
molte pagine della Bibbia, così scriveva:
Colpisce
il fatto che allinterno della Bibbia la domanda delluomo
non scompare, come se venisse annullata dalla rivelazione.
Bensì riemerge doppiamente. Lesperienza del
dolore innocente, dellingiustizia trionfante, della
delusione, pare contraddire la bontà e la fedeltà
di Dio e questo spinge luomo biblico -pur credente-
a chiedersi se veramente Dio è fedele, se davvero
la sua promessa è solida. Luomo biblico si
imbatte continuamente nel mistero di Dio. E così
la sua domanda si fa doppia. Non soltanto chi è luomo,
ma anche chi è Dio. Per alcuni il fatto che nella
Bibbia la domanda si riproponga costituisce una delusione.
Personalmente ne provo entusiasmo. È un segno che
la Bibbia è un libro sincero, non un libro edificante
nel quale i conti tornano sempre. Far tornare i conti è
desiderio delluomo, non il vero modo di manifestarsi
di Dio.
Credenti
e non credenti, compagni nella domanda, dunque, è
così vorrei porre fine alla mia riflessione, compagni
nella domanda, nella domanda che apre.
Proprio
alcuni giorni fa Paolo De Benedetti, vi ricordate, ci raccontava
che in Babilonia, allepoca del Talmud, nel V secolo
della nostra era, cerano due maestri, uno stimava
moltissimo laltro, lo stimava molto, ma allora per
consultarsi non cerano né telefono né
computer, non cera niente. Fate conto, diceva, che
uno stesse a Mossul e laltro stesse che so a Bagdad,
allora gli mandò trenta cammelli carichi di domande.
Lepisodio finisce qui, non sappiamo quanti cammelli
sono tornati con le risposte, non sappiamo niente, ma è
significativa la storia, e quindi bisogna fare domande.
Anche, se aggiungeva, abbiamo un posto che si raggiunge
col treno, cioè Roma, anzi al di là del Tevere,
dove ci sono cammelli carichi di risposte
Nelle
questioni di Dio scrive Gabriella Caramore come
in quelle degli esseri umani, occorre provare a dire tutta
la verità di cui si è capaci, sapendo nello
stesso tempo che ogni nostra verità sarà sempre
parziale, instabile e che non saremo noi a giudicare la
nostra verità. E che un buon antidoto contro lidolatria
(anche quella dei nostri stessi pensieri) alla quale tutti,
in diversa maniera soggiaciamo, è lasciare , talvolta,
che le nostre domande rimangano senza risposta, che resti
scoperta la nervatura delle nostre inquietudini, delle nostre
oscillazioni e incertezze, invece che cercare di far quadrare
le operazioni a tutti i costi, come in una o contabilità
fittizia e di frode(La fatica della luce, pag. 9)
Nelle
prime pagine di un suo piccolo libro Perché
no?, Moni Ovadia, uomo di teatro, saltimbanco, come
ama definirsi, ebreo corrosivo, ricorda che
seconda la gemahtria cabbalistica ebraica, la parola Adam,
essere umano, corrisponde numericamente alla particella
interrogativa che cosa?.
Da
questa identità numerica -scrive Moni Ovadia-
i nostri maestri deducono che essere umano è
colui che sa porre domande. Non chi dà risposte,
ma chi sa porre domande. Perché chi pone domande
apre alla produzione di senso, apre al futuro, dà
alle generazioni avvenire la possibilità di intervenire,
di esistere. Perché la domanda è quella che
apre la questione, sollecita una risposta anche su questioni
già apparentemente chiuse: si trova sempre una nuova
domanda (Perché no?, Bompiani, 1996, pag. 10).
La
domanda -fa eco Martin Cunz- ci costringe a
guardare negli abissi di noi stessi, delle persone con cui
abbiamo a che fare, negli abissi della nostra epoca, ma
anche negli abissi di Dio.
Per
questo dopo aver ringraziato non senza commozione questa
sera i nostri amici che ci hanno fatto dono del loro racconto,
ringrazio questa sera tutti voi, donne e uomini delle domande,
che ci avete in questi anni sorpreso per il vostro interesse,
la vostra partecipazione, la vostra amicizia. Spesso nel
gruppo degli amici che pensavano questa piccola cattedra,
ci chiedevamo: Non sarà ora di chiuderla dopo
tanti anni?. Ma la domanda non chiude e non si chiude.
Voi ci avete fatto continuare, la vostra domanda ci ha fatto
continuare. Siamo arrivati a questo passaggio in parete.
Per ripartire.
don
Angelo
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