LE
PAURE CHE CI ABITANO
Permettete
che faccia una riflessione previa sulla mia presenza qui
oggi, con voi. Vi confesso che questo invito fattomi da
Luciano Gualzetti proprio non me lo aspettavo. Ho tentato
anche di resistere. Ancora oggi mi lascia interdetto. Che
cosa ci fa qui un vecchio prete, senza specifiche competenze?
Un po' sorridendo mi sono detto che siccome alle Caritas
stanno a cuore quelli che vanno lenti - come stanno a cuore
al pastore le pecore stanche e ferite - sono stato chiamato
io che sono uno dei rallentati, un gesto affettuoso di compassione.
Poi
ho pensato al passo di Gioele, ripreso da Pietro dopo la
pentecoste. Che parla di vecchi che fanno sogni. Mi sono
detto: parlerò di qualche sogno. Però il sognare, nel testo,
presupponeva l'effusione dello Spirito. Non mi restava che
augurarmi di non fare troppo velo allo Spirito. Ecco il
testo, bellissimo, che riguarda me, ma riguarda anche tutti
voi. Mi piace pensarvi così:
"Dopo
questo io effonderò il mio Spirito sopra ogni uomo e diverranno
profeti i vostri figli e le vostre figlie i vostri anziani
faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra
gli schiavi e sulle schiave in quel giorni effonderò il
mio Spirito" (Gl 3, 1-2).
Ed
eccomi qui, a parlare di paure. La mia non è una relazione
o non vorrebbe esserlo, dopo le parole di Luciano che ricordano
tracce di cammino e dopo le parole del nostro nuovo Vescovo
che ripete l'invito a non lasciarci rubare la speranza.
E che bello - lasciatemi dire - che un Vescovo inizi il
suo mandato fra noi scandendo più volte le parole, ormai
un po' consumate nelle nostre liturgie, ma bellissime: "Della
gloria del Signore è piena la terra".
Nelle
parole un sussulto di speranza contro le paure, che ci fanno
ciechi, incapaci di cogliere la gloria di Dio di cui è piena
la terra. Nel titolo dato al mio intervento - "le paure
che ci abitano" - si parla di paure al plurale. Penso sia
stato scelto riandando al titolo di un mio piccolo libro.
Ma io non saprei ripercorrere esaustivamente con voi le
paure che ci abitano. Neppure il libro ha la pretesa di
farlo. Una cosa sta però sotto gli occhi di tutti: che la
paura è diventata un clima.
"Solo
di oggi?": mi chiedo. Non penso. Nella memoria di tutti
noi ci sono parole e parole del vangelo che ci ricordano
l'insistenza con cui Gesù invitava a non temere, a non avere
paura. Certo la leggeva negli occhi di chi lo ascoltava
o di chi viveva ore di bufera in una barca sul lago. Ma
oggi la paura, quella percepita, sta di giorno in giorno
sempre più dilagando. E contagiando. E allora come guardarla
in faccia e come resisterle?
Io
non ho competenze, ma vorrei lasciarvi forse solo un pensiero,
certo parziale: a volte mi sembra di intuire che al fondo
di tutte le nostre paure che stanno generando un clima diffuso,
ci sia la paura - così la chiamo - del "viaggio". Paura
della vita così come ci è data e non come ce la prefiguriamo.
Sembra di dire una cosa scontata: ma la vita non è forse
un viaggio? Dal primo all'ultimo istante? E se un cucciolo
d'uomo non fuoriesce da un grembo di donna intristisce,
abortisce, muore; e se io non fuoriesco da questa vita al
termine dei miei giorni, termine ormai per me ravvicinato,
rimango nella morte.
Potrei
forse dire che la scelta allora è tra "rimanere" o "mettersi
in viaggio", tra stare fermi per paura o amare vincendo
le paure. Una condizione per amare è uscire. Mettersi in
viaggio. Se non ci mettiamo in viaggio - alludo a un modo
di pensare e di vivere - è illusione quella di dire che
amiamo. Al cuore mi ritorna una parola della prima lettera
di Giovanni, così precisa, senza "se" e senza "ma", quasi
implacabile: "Chi non ama rimane nella morte" (1Gv 3,14).
Rimane,
non ha viaggio. Una vita senza viaggio è una vita senza
amore. E una vita senza amore è un vita derubata del suo
più grande e affascinante viaggio. Io se non amo sono come
un cucciolo d'uomo abortito. E, allora, voi mi perdonerete
se vi farò fare un po' di fatica dietro pensieri come i
miei che hanno purtroppo un andamento poco lineare e rapsodico.
Che saranno uno sconfinare dietro le parole "paura", "viaggio",
"amare". "Ma come può esserci una paura" - mi si potrebbe
chiedere - "del viaggio? Ma come? Non dovremmo essere felici
di viaggiare?".
Sì,
se tutto è nei programmi; sì, se tutto si incastra alla
perfezione; sì, se tutto è preordinato; sì, se ci sono le
condizioni; sì, se ti sei assicurato. Se no, non ci si muove.
Preferiamo stare con i piedi per terra. Perdonate questo
sconfinamento molto personale. Mi capita la mattina di uscire,
alle sette, di casa, quasi tutti i giorni, con un amico
e di camminare per tre quarti d'ora nelle strade del quartiere.
Questa estate andavo da solo con i miei pensieri e mi ritornò
alla mente una parola bambina: "Guarda dove metti i piedi".
Forse
anche qualcuno di voi se l'è sentita dire e più di una volta.
Mi venne da pensare che se da un lato quell'invito "Guarda
dove metti i piedi" poteva avermi salvato da inciampi -
paura di inciampare - dall'altro mi aveva tolto l'avventura
di guardare ad altezza di persona o ad altezza di case,
o ad altezza di cielo.
Mi
dicevo: Me ne vado per peso d'anni gli occhi incollati
a strisce nere d'asfalto Vedo dove metto i piedi. Ma più
su che accade? Oltre che accade?
Dovremmo
essere in tanti - oserei dire: tutti! - riconoscenti alla
Caritas che ci risveglia dalle strisce nere d'asfalto. Dove
la visione è ferma. E ci mette per grazia sete negli occhi.
Oggi, viviamo la stagione della cautela. Ci neghiamo ai
sogni. Ci risuona nel cuore dilagando un altro detto antico:
"Sta con i piedi per terra!" Ci neghiamo il viaggio. Ritorno
sulla parola. Spesso la parola "viaggio" entra nei nostri
discorsi quando si parla di migranti.
Dovrebb
entrare sempre più nei nostri pensieri e nei nostri discorsi,
e dovremmo parlarne con intelligenza. Parlare del loro viaggio.
Ma forse - non so se vedo bene - si dice meno che al viaggio
dei migranti deve accompagnarsi il nostro viaggio. Ecco
vorrei sostare su questo viaggio che tocca a noi. Non c'è
accoglienza, non c'è inclusione, non c'è condivisione delle
diversità, se il nostro verbo è "rimanere", rimanere a riva,
sulla riva delle nostre pseudo-certezze, dei nostri inveterati
pregiudizi, delle nostre visioni senza respiro, incapaci
di sconfinamenti.
In
questi giorni è passato nel nostro paese, ed è stato intervistato
a TV2000 Padre Alejandro Solalinda. La sua casa-rifugio
Hermanos en el Camino di Ciudad Ixtepec, in Messico, dal
febbraio 2007 a oggi ha accolto e protetto decine di migliaia
di migranti ma le ha attirato anche la rabbia di tante persone,
prime fra tutte quelle collegate ai cartelli della droga.
Ebbene In un passaggio di una sua intervista invitava al
viaggio, a uscire.
Diceva:
"Dovete, dobbiamo essere in grado di cambiare la nostra
visione, allungandola. Quella che abbiamo ora è parziale,
molto corta: bisogna ampliare l'orizzonte, capire che la
Storia dell'umanità è lunga, ognuno di noi è un puntino
che però non deve rimanere inerte. Anzi, si deve azzardare
a mettere un nuovo paio di occhiali: una lente è quella
che mi fa capire come l'avanzamento tecnologico non basti
per evolversi, dato che stiamo compiendo azioni barbare
peggio ancora di quanto faceva l'uomo delle caverne.
Dobbiamo
chiederci dove vogliamo arrivare, fermare queste barbarie.
Con l'altra lente, dobbiamo essere in grado di vedere con
gli occhi di Gesù. Non sto parlando da credente, perché
so che potrei risultare un predicatore come tanti, sto parlando
da uomo. Gesù da giovane fece cose incredibili nel suo tempo,
in quel primo secolo dopo Cristo in Palestina in cui c'era
una religione fondamentalista, escludente. Lui è stato semplicemente
se stesso, è andato contro le convenzioni, rompendo schemi.
Questa
è la prospettiva per andare avanti, credenti come atei".
Non so se vedo bene, ma a volte mi sembra di cogliere quasi
una schizofrenia. Da un lato l'immaginazione che arriva
a creare tecniche strepitose che hanno quasi dell'inverosimile,
dall'altro un rattrappimento, una mancanza di immaginazione
e di invenzione, nell'umano. Si inventa - sembra di dire
un ossimoro- si inventa il conosciuto. Pensate come si risolvono
o si sbandierano le soluzioni: "chiudiamo i confini, erigiamo
dei muri, mandiamoli a casa".
Ma
pensate che genio ci vuole, che folgorazione di fantasia,
che magia di intelligenza a dire queste cose!. A chiedere
di rimanere fermi! Lo spettacolo è indecoroso. In uno dei
miei sconfinamenti mattutini, mi venne da pensare come sia
indecoroso questo blaterare dicendo sempre le stesse cose,
sempre distruggendo e mai, una volta che è una volta, proponendo:
non c'è viaggio, siamo fermi alle parole, impalati a riva.
Ora
che ciarlatani beoti urlano giorno e notte le loro verità
senza decoro, a premio di sondaggi, mi arrampico curioso
su fili di silenzio.
Fermi
alle parole, impalati a riva o come spesso ci avverte papa
Francesco, sul balcone. Rimaniamo al balcone. Lo disse un
giorno - era agli inizi del suo ministero - agli universitari:
"Non restate al balcone, scendete, andate nelle periferie
esistenziali". Ora ha coniato persino un verbo: "Non balconare
la vita aspettando il fallimento". Così ha commentato un
quotidiano laico: "Balconare la vita: stare eternamente
sul balcone, guardando dall'alto, spendere le ore in un
chiacchiericcio il più delle volte malevolo, che non implica
nessuna responsabilità. Si riferiva a certi effetti negativi
del correntismo nella Curia romana?
È
più probabile che si riferisse agli umani in generale, ai
"terroristi delle chiacchiere" che ci capita - più o meno
consapevolmente - di essere". Certo viaggiare, scendere,
accompagnare non è senza fatica o senza pericolo e voi me
lo insegnate. Ma è la condizione dell'amore. Stare distanti
per non correre pericolo, per non essere feriti, che amore
sarebbe? Dio non si è tenuto distante, è disceso dal balcone,
a rischio di ferita. Dio non è nel trattenersi, nella rigidità,
Dio non è nel chiudersi. E' nello sbilanciarsi, che è lo
sbilanciarsi dell'amore.
E'
nel viaggio, ha deciso per il viaggio. In viaggio per amare.
Il pericolo, quello di essere fermi potrebbe insinuarsi
anche nei nostri ambiti, quelli della carità, ambiti personali
o collettivi. "Caritas discreta" diceva un vecchio adagio
latino: una carità che ci mette in viaggio per un discernimento,
"discreta". O anche si diceva: "Ubi caritas ibi oculus".
Una carità che ha occhi per vedere, per capire, per immaginare.
Gli occhi ti mettono in viaggio. A volte mi sembra di assomigliare
all'uomo della parabola, quello che ha ricevuto un talento
e lo ferma in un fazzoletto. Non lo mette in viaggio. E
dice -significativo! - "ho avuto paura". La paura ci paralizza,
la fiducia ci apre, ci apre all'invenzione.
Vi
devo confessare, che, quando sono un po' o tanto rattristato
per questo montare di egoismo, per il trionfo del'io, in
giorni in cui anche il plurale "noi" si sposa a rivendicazioni
isolazionismi o di chiusure, mi fermo a pensare a un sommerso.
Che siete voi. E mi dico che il regno di Dio non è morto:
è come seme nella terra o come un grumo di lievito nella
pasta. E dopo avere ricordato a me stesso che Dio è fedele
alle sue promesse, combatto così le mie paure: pensando
a voi, ai germogli che non fanno rumore nel loro tenerissimo
crescere. Crescere per fantasia, per immaginazione nella
carità. So di essere stato disordinato nei miei pensieri.
Lo sono per natura, ma ora fa aggiunta la vecchiaia. Vorrei
lasciarvi, finendo, una icona e una poesia. L'icona è del
vangelo.
Le
ultime parole di Gesù nel vangelo di Marco, prima che inizino
i giorni della passione e risurrezione sono queste, Marco
12, 41-44: "Seduto di fronte al tesoro, il Signore Gesù
osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi
ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò
due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé
i suoi discepoli, disse loro: "In verità io vi dico: questa
vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti
gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello
che aveva, tutto quanto aveva per vivere". Pensate, alla
fine della sua missione pubblica, Gesù ci invita a guardare
una che appartiene alla categoria dei poveri.
Toglie
attenzione a coloro che sdottorano nel tempio ad esibizione
di se stessi: "Guardatevi da… togliete gli occhi da loro".
E mette in cattedra - noi diremmo - una poveretta; pensate
a uno, a una, dei nostri ultimi. Noi non sempre lo facciamo.
Succede che aiutiamo, ma non sempre succede che mettiamo
in cattedra una povera vedova. Gesù sembra dire: "Posate
gli occhi, non finite di guardare quella vedova povera,
quasi invisibile, lei che nel silenzio più assoluto fa scivolare,
senza che se ne oda rumore, nel tesoro del tempio due monetine
che fanno un soldo. Che era tutto quello che aveva per vivere.
Guardate
lei, è la sintesi del vangelo, guardate i poveri, guardate
gli ultimi, hanno molto da insegnare. In fatto di vangelo
e non solo. Nessuno di noi sa come si chiamasse quella donna,
povera. Povera anche di nome. Una innominata, della folla
dei piccoli. Ma, agli occhi di Gesù, grande, la più grande.
E dov'è la sua grandezza? Tutti le avremmo suggerito: "Sta
sul sicuro, tieni quello che hai, che è poi un minimo, nemmeno
un minimo, sta sul sicuro, sono due monetine, tienitele
strette. Se te ne privi, che cosa succederà?".
Ebbene
lei le ha messe in viaggio. Confidando in Dio. E' vangelo,
notizia buona. Voi mi capite, oggi sono chiamato non solo
a dare, ma a guardare, ad ascoltare. Ed ecco la poesia:
è di un ragazzo egiziano, dieci anni - mettiamolo in cattedra
-. La poesia me l'ha regalata una amica, una poetessa, che
alcuni di voi forse conoscono, Chandra Livia Candiani. Lei
fa scuola di poesia con i bambini delle periferie, spesso
le classi sono in prevalenza di figli di immigrati.
Fares
- così si chiama il ragazzino -scrive di "un viaggio che
"aggiorna il paese antico". Penso che anche il mio paese,
che anche questa città che amo, ha bisogno di aggiornamento.
Da viaggio Ascoltiamo. Cancellate le mie parole, rimangano
queste:
Un
tempo lontano
un'avventura nel mare
una speranza profonda
un'onda mortale
un buio infinito
un popolo lontano
e un popolo vicino
una speranza di vivere
nell'interno del tempo
una avventura indimenticabile
una fatica assoluta
un mare di guai
una scoperta fantastica
dei fossili trovati
un mistero misterioso
una tragedia che ferisce
il cuore dell'altro
una paura da superare
un popolo misterioso
difendendo l'umanità
un popolo sincero
che viva in pace
un popolo accontentato
da ciò che ha
che non sprechi
i suoi doni e minerale
un'avventura
che scoprirà
un popolo nuovo
un'onda pulita
un popolo buono
un buio fitto
che tranquillizza il popolo
un popolo
che non tradisce
il suo fratello
un viaggio che
aggiorna un popolo antico
una foresta fitta
senza vita
una speranza commuovente
un mare profondo
con onde pericolose
passarlo sarà
un'avventura straordinaria
partendo
tornando
un'avventura lo sarà certo
un tempo infinito
sarà migliore
e di sicuro verrà da noi
invadendo la nostra cara terra
le porterà armonia
gioia felicità
cacciando per sempre i micidiali
il mondo fiorirà per tutti
e sorriderà all'umanità
un popolo che sa bene
accontentarsi del ciò che si ha
un popolo che protegga il proprio popolo
un fratello che non ferisce
il proprio fratello.
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