GIUSTIZIA
E UMANITÀ
Sono
le prime due parole tra quelle che cercheremo di esplorare
insieme in questi mesi. Scavare in queste parole non è
facile. E' un'arte che non appartiene alla mia sola misura,
misura confessatamene piccola e povera: è un compito
che mi eccede. Per questo vorrei avervi compagni di ricerca
in questi mesi. Il mio non è un trattato, confesso
la parzialità. E' una parte, aspetta altre parti,
portate da voi. Un po' tutti noi dunque, voi e io, alla
ricerca dell'oro, se così si può dire. L'
oro di Dio, nella miniera del mondo. Della razza voi tutti
dei cercatori e degli scopritori dell'oro. Va, scava. E
scova l'oro, portalo alla luce, fallo brillare. Tutti, con
il dono dell'intelligenza dello Spirito che ci abita.
Giustizia
Mi
sono chiesto che cosa sia "giustizia", secondo
la parola di Dio. Ci troviamo infatti ad ascoltare discorsi
in cui la parola giustizia ha spesso anche un suono ambiguo,
o addirittura falso, perché è una giustizia
che vede il mio diritto, isolato, sconnesso da quello degli
altri. O vede una norma, un codice, ma non vede la persona,
non vede i volti. E' la mia giustizia, è la rivendicazione
e la difesa di ciò che è giusto secondo me
e per me. O secondo una norma codificata e non secondo una
situazione di vita...
Mi
sono detto che forse avrei dovuto chiedermi che cosa è
giustizia secondo la parola di Dio. Mi sono anche detto
che sarei dovuto uscire dalla parola astratta e chiedermi
invece che cosa significa essere giusto, quando sono giusto
e quando non lo sono. E subito mi sono accorto che la parola
va a indagare i rapporti: ho rapporti giusti, agisco secondo
giustizia con l'altro, a cominciare da Dio, con gli altri,
con le comunità cui appartengo: la famiglia, la società,
i popoli altri, la terra cui appartengo? Ho rapporti giusti?
Me lo chiedo aprendo dunque lo sguardo a un tessuto di vite
e di storie in cui io vivo. Io sono un ramo, un ramo che
riceve linfa e dà linfa.
Che
cosa dicono al riguardo le Scritture? Vorrei partire da
alcune considerazioni, che mi avevano colpito anni fa, era
il lontano 1994, leggendo un intervento che Enzo Bianchi
aveva tenuto a un Convegno di Biblia a Milano.
1. La Bibbia parla di giustizia come sofferenza e indignazione.
Si è giusti quando si soffre, per una donna o per
un uomo il cui diritto viene violato e conculcato. E quale
diritto, se non primariamente il diritto di essere uomo,
il diritto di un uomo di essere uomo, di una donna di essere
donna, il diritto di entrambi di avere una vita che sia
umana semplicemente perchè sono degli umani? E non
perché hanno una cittadinanza o non l'hanno, o perché
hanno una religione o ne hanno un'altra, o perché
hanno una cultura e ne hanno un'altra. Semplicemente per
il fatto di essere uomini e di essere donne.
Giustizia è sofferenza per il diritto violato. E,
di conseguenza, indignazione.
Potremmo
dunque dire che la giustizia inizia con l'indignazione.
La giustizia inizia con lo sdegno. Indignazione sacra, sdegno
sacro. Perchè sacri? Perché appartengono a
Dio: gli appartengono indignazione e sdegno.
Come
reagisce infatti Dio? Penso che tutti voi ricordiate alcune
parole infiammate del Dio della Bibbia, parole contro coloro
che commettono ingiustizia, parole che sembrano a volte
sconfinare nella collera e nell'ira: "Ogni giorno"
è scritto nel salmo "ogni giorno si accende
il suo sdegno". Un'ira, una collera che certo hanno
come intenzionalità ultima il ravvedimento dell'uomo
dalle sue ingiustizie. Ma che stanno a significare a tutti
noi la passione di Dio per i suoi figli. Lui si accende
per i diritti violati e conculcati. Non è un Dio
spento, pallido al punto di diventare evanescente. E' un
Dio sanguigno. " L'ira di Dio" scrive Enzo Bianchi
"non rinvia al capriccio di Dio, non è un "difetto
di giustizia" di Dio, ma espressione del pathos di
Dio ferito dal male perpetrato".
Una
indignazione che percorre le pagine dei profeti. Tutti le
ricorderete. Cito Amos, il pecoraio:
"Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano
sicuri sulla montagna di Samaria. Canterellano al suono
dell'arpa, si pareggiano a Davide negli strumenti musicali,
bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti
più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si
preoccupano. Perché andranno in esilio davanti ai
deportati e cesserà l'orgia dei bontemponi"
(Amos 6,1.4-7).
Mi
chiedo: abbiamo il pathos di Dio o non è forse vero
che il pericolo, ancora oggi in agguato, è quello
dell'indifferenza? Siamo stati educati all'indignazione
o veniamo da un'educazione, che ha cercato di contenere
l'accensione del sentimento di sdegno, un'educazione che
a volte ha addirittura colpevolizzato, come poco ascetico,
il moto di indignazione, un'educazione più attestata
sull'invito a subire, a lasciar passare, a ingoiare.
Gesù si indignava. E condannava questo non avere
occhi nè cuore.
Tutti
ricordiamo la parabola del ricco epulone (Lc 16,19-30).
Una parabola che di per sè non indaga sulle origini
più o meno ingiuste della ricchezza. Ma della ricchezza
dice l'effetto, un effetto inquietante, evidente nell'immagine
dell'uomo ricco. La ricchezza rende ciechi. Ciechi e insensibili.
Ciechi e indifferenti. Sì, nella parabola colpisce
il contrasto tra chi veste di porpora e bisso e banchetta
ogni giorno lautamente e chi invece giace alla porta coperto
di piaghe, escluso anche da ciò che cade dalla mensa
del ricco, escluso dallo scarto. Colpisce il contrasto,
ma ciò che colpisce ancor più è il
fatto che il povero e il ricco siano vicini, ad uscio: "Giaceva"
è scritto "alla sua porta". Gesù
mette in discussione l'indifferenza, l'insensibilità
e lo fa parlando della compassione dei cani: "Perfino
i cani venivano a leccare le sue piaghe".
La
parabola ci mette in guardia. Mi dice: guarda che finisce
così, che ti si chiude il cuore. Finisce che, preso
dalle tue cose, preso dalla frenesia dei lussi della vita,
neppure più ci pensi a questo squilibrio inquietante:
tu e l'altro. Noi e gli altri. Che sono ad uscio. Perché
c'è anche questo di vero: che oggi i mezzi della
comunicazione ti portano ad uscio le povertà della
terra, i drammi dell'umanità. Ma tu continui imperterrito
nel tuo stile di vita.
Non
ci si preoccupa. "Canterellano al suono delle arpe"
ci ha detto il profeta Amos "bevono il vino in larghe
coppe e si ungono degli unguenti più raffinati, ma
della rovina di Giuseppe non si preoccupano." Della
rovina del popolo non si preoccupano. Si occupano dei loro
interessi. E una cosa è giusta o sbagliata, se asseconda
o no i propri interessi. Siamo ciechi. Ciechi o miopi. Oggi
assistiamo -è l'effetto oppiaceo dell'accumulo, dice
il vangelo- assistiamo a un crescere dell'indifferenza e
della miopia. Guardiamo vicino a ciò che interessa
a noi. Non ci sfiora il pensiero della rovina di Giuseppe.
E guardiamo ciò che riguarda noi oggi. Non ci sfiora
la domanda se il nostro benessere consuma le risorse delle
generazioni future. Come se fosse cosa che non ci riguarda.
Mentre Dio ci ha dati in custodia gli uni agli altri. Ricordate
la domanda senza cuore di Caino: "Sono forse io il
custode di mio fratello?". Questo vuol dire essere
uomini, secondo la Parola di Dio: essere custodi l'uno dell'altro.
Gli esegeti ci fanno notare che questa è l'unica
parabola del vangelo in cui si dà a qualcuno un nome
proprio, l'unica. E Gesù lo dà al povero:
Lazzaro lo chiama. E la parola in ebraico significa "colui
che Dio aiuta". Mentre il ricco non ha nome. Credeva
di avere un nome, di essersi fatto un nome con le sue ricchezze.
Per il vangelo, pur vivendo nel lusso, rimane un "non
uomo".
Infatti,
se essere uomini significa vedere, l'egoismo ci spegne in
umanità, perché ci fa ciechi sulla realtà.
La realtà è il povero che sta al tuo uscio.
Se
essere uomini significa ascoltare, cogliere voci, parole,
segni, messaggi e appelli, l'egoismo ci spegne in umanità
perché ci rende incapaci di ascoltare, ascoltiamo
solo noi stessi.
Se
essere uomini significa entrare in relazione, affacciarci
al mistero dell'altro, l'egoismo ci spegne in umanità,
perché l'altro diventa uno di cui servirsi. Anche
nell'aldilà: "Padre Abramo" dice il ricco
"manda Lazzaro ad ammonire i miei fratelli".
2.
Un secondo passo che ci fa giusti secondo la Bibbia è
la compassione: dallo sdegno alla compassione. Compassione
nel senso originario della parola, del "patire con",
del "soffrire insieme", del lasciarci toccare
dall'ingiustizia e dal male che feriscono la donna, l'uomo,
questa nostra umanità, questa terra. Perché
Dio si lascia toccare, non tiene le distanze. E' scritto
in Zaccaria 2,12: "Chi tocca voi, tocca la pupilla
del mio occhio". "C'è una identificazione
di Dio con i più poveri, con gli oppressi, con le
vittime della storia. I senza dignità, gli angariati,
la vedova e l'orfano maltrattati, l'operaio defraudato del
salario, il giusto il cui sangue è versato, diventano
preghiera, invocazione vivente a Dio il quale ascolta e
diviene partecipe della sofferenza" (E. Bianchi).
Partecipare alla sofferenza dell'altro. Vorrei che andaste
nella memoria a un'altra parabola, quella del samaritano
che si prende cura dell'uomo assalito lungo la strada che
da Gerusalemme porta a Gerico.
Passa
il samaritano, l'eretico guardato con sospetto da coloro
che sono dentro, dentro il vero popolo di Dio. Ebbene, la
legge di Dio è nel segreto della coscienza del samaritano,
e dà luce ai suoi occhi. Vede, vede con il cuore,
prova compassione, è preso da un fremito alle viscere
e si ferma. Non si erano fermati il sacerdote e il levita:
videro e passarono oltre. E tu, dottore della legge -sembra
dire Gesù- falla finita, una buona volta, con le
tue astruserie teologiche. Prendi esempio! Prendi esempio
da un lontano, da uno che è fuori. Non dai frequentatori
del tempio -e qui Gesù è scopertamente polemico-
prendi esempio dal samaritano. Bando alle parole e alle
discussioni, "va e anche tu fa lo stesso!".
Che
cosa fa il samaritano? Il testo greco dice: "ha fatto
la compassione", ha generato compassione. E dalla compassione
sono nati i verbi del racconto, che parlano in modo luminoso
del suo prendersi cura.
Un
verbo che mi colpisce è "si fermò":
"si sentì fremere dentro e si fermò".
Verbo importante per una stagione come la nostra in cui
sembra ci sia negato il fermarci. Corriamo, con il rischio
di "passare oltre" come il sacerdote e il levita.
Forse corriamo per non vedere. O il nostro è un vedere
televisivo. Che non ci fa fermare.
Il
samaritano, l'eretico fece i verbi di Dio. Ce li ricorda
il salmo 145. Eccoli: "Rende giustizia agli oppressi,
da' il pane all'affamato. Il Signore libera i prigionieri,
il Signore rialza chi è caduto, il Signore protegge
lo straniero, egli sostiene l'orfano e la vedova".
Uno
di questi verbi mi affascina profondamente, il verbo chinarsi
per rialzare chi è caduto, chi è a terra.
Mi affascina perché mi ricorda quello che un giorno
scrisse Luigi Pintor, un cosiddetto ateo. Scrisse: "Non
c'è in un'intera vita cosa più importante
da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti
il collo, possa rialzarsi".
3.
Questo accenno a Luigi Pintor mi sospinge a un ultimo passaggio
sulla giustizia, che riguarda la connessione sconcertante
tra religione e ingiustizia. La Bibbia ebraica, ma anche
il vangelo, spesso mettono in guardia da questa commistione
tra religione e ingiustizia, parlano di uomini religiosi
indifferenti o peggio conniventi con le ingiustizie. Succede
che con il culto, con le pratiche religiose si coprano le
ingiustizie. Le parole dei profeti -le sentiamo la domenica-
spesso vanno a denunciare e sono roventi nello smascherare
questo dissacrante connubio.
Un accenno, tra migliaia, ancora dal profeta Amos: "Io
detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre
riunioni; anche se voi mi offrite olocausti io non gradisco
i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione. Lontano
da me il frastuono dei tuoi canti. Il suono delle tue arpe
non posso sentirlo. Piuttosto scorra come acqua il diritto
e la giustizia come un torrente perenne" ( Amos 5,21-24).
Come
se si volesse comprare Dio con la magnificenza delle liturgie
e delle adunate religiose. Tanto con il denaro, si dice,
si compra tutto.
E
Gesù, a sua volta, non è stato tenero con
i cosiddetti osservanti. Ricordate Matteo: "Non chiunque
mi dice: 'Signore, Signore' entrerà nel regno dei
cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è
nei cieli". E segue un inciso, che spesso viene omesso
nella lettura liturgica. Che è indicativo: "Molti
mi diranno in quel giorno: 'Signore, Signore, non abbiamo
noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nl tuo nome
e compiuto molti miracoli nel tuo nome?' Io però
dichiarerò loro: 'Non vi ho mai conosciuti'"
-ma come non erano quelli che sbandieravano il nome di Dio?-
"non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me , voi
operatori d'iniquità".
Senti
lo sdegno di Gesù per una religione che copre l'ingiustizia.
Il pensiero ritorna alla parabola del samaritano. Gesù
costruisce i personaggi. Quanti ne poteva scegliere per
dire l'indifferenza. Sceglie gli uomini della religione.
E mette a confronto il clero e l'eretico. Se non sapessimo
chi inventa la parabola diremmo che è un anticlericale.
Lui voleva mettere in guardia da uno strano connubio che
andrebbe più profondamente indagato.
Umanità
Abbiamo
scavato parzialmente nella parola "giustizia".
Vorrei accennare, se mi rimane un poco di tempo, alla parola
"umanità". Essere umani. Con la scusa di
essere di Dio, di essere soprannaturali a volte si è
così poco umani, così poco partecipi con il
sentimento. Siamo di ghiaccio.
C'è
da riprendere in mano il Vangelo e abbeverarci dell'umanità
di Gesù. Ricordate l'uomo dalla mano insensibile
nella sinagoga? Gli uomini della religione hanno dimenticato
i verbi di Dio e si scandalizzano per il Rabbi di Nazaret
che compie i verbi di Dio. Fate pratiche religiose, sembra
dire, siete legati alle codificazioni della legge e non
avete umanità, non avete cuore per quest'uomo, l'uomo
che ha bisogno. L'uomo è prima del sabato.Un senso
di umanità che supera la legge.
Ho
pensato di ricordarvi alcuni passaggi del libro del Deuteronomio,
al capitolo 24, dal versetto 10 al 22.
Tra
coloro che sono più sprovveduti nella vita il Libro
del Deuteronomio fissa lo sguardo su coloro che sono costretti
a ricevere dei prestiti.
Ebbene
si dice: "Quando presterai al tuo prossimo, non entrerai
in casa sua per prendere il suo pegno, te ne resterai fuori
e l'uomo al quale hai fatto il prestito ti porterà
fuori il pegno". Notate questa delicatezza del comando
di Dio: resterai fuori dalla casa. La casa è il luogo
della intimità dell'altro. Tu gli hai dato un prestito,
è vero, però non hai diritto di intrometterti
nella sua vita personale e intima, che riguarda solo lui
e il suo Dio. Tu non puoi intrometterti, non puoi invadere
questo spazio che è lo spazio della persona e dell'intimità.
Non puoi fare da padrone nella sua casa perché gli
hai fatto un prestito. E' un lato di luminosa umanità
che dovrebbe portarci ad esaminare i nostri rapporti con
gli altri, anche con le persone che sono tra le più
bisognose, per verificare se in effetti veramente rifuggiamo
da ogni pur minimo atteggiamento di velata oppressione,
di invadenza, di intromissione perfino nelle loro sfere
più intime, giustificato ai nostri occhi dal fatto
che noi abbiamo operato un gesto di carità nei loro
confronti.
Sotto
accusa vanno evidentemente tutti quei sistemi di vita, personali
o sociali, che poco o tanto tolgono rispetto alle persone
e finiscono per imporre la nostra presenza, la nostra visione
alle persone.
"Se
quell'uomo è povero non andrai a dormire con il suo
pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto
del sole perché egli possa dormire con il suo mantello
e benedirti" (24,12-13).
Anche
questo è delicatissimo comando. C'è una giustizia
che deve essere superata, sembra dire il libro del Deuteronomio.
È vero che tu gli hai dato una somma e tu hai il
suo pegno. Questo è vero dentro un criterio di pura
giustizia delle cose, dentro un criterio di pura distribuzione
delle cose. Ma tu ricorda che, se il pegno che tieni è
il suo mantello ed è l'unica cosa che lui ha per
coprirsi nella notte, tu devi restituirglielo per la notte.
Sembra di capire che per il Libro ciò che occorre
alla persona in qualche modo deve essere considerato come
suo diritto. Ciò che gli occorre è suo, sembra
dire il Libro.
Non
pensate che questo orizzonte andrebbe iscritto anche nelle
nostre riflessioni di ordine sociale, nella verifica dei
nostri impegni con gli altri a livello personale o di società
o anche di nazioni?
È
scritto ancora nel Libro: "Perché egli possa
dormire col suo mantello e benedirti. Questo ti sarà
contato come una cosa giusta agli occhi del tuo Dio"
(24,13). Notate la bellezza di questo verbo. Il testo non
dice: "perché egli possa dormire col suo mantello
ed esserti riconoscente", ma: "perché possa
dormire col suo mantello e benedirti" . Cioè:
la benedizione su di noi viene dai poveri, la voce di questo
povero è la voce che attira su di te la benedizione
di Dio. È come se noi fossimo resi giusti dalla benedizione
dei poveri.
Il
primo caso di un bisognoso che il Libro sottolinea è
quello di colui che ha bisogno di prestiti. Il secondo caso
è quello del salariato: "Non defrauderai il
salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli,
o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue
città; gli darai il suo salario il giorno stesso,
prima che tramonti il sole, perché egli è
povero e lì volge il desiderio; così egli
non griderà contro di te al Signore e tu non sarai
in peccato" (24,14-15). In questo caso è il
salariato che ha diritto alla ricompensa e viene sottolineato
che hanno diritto alla ricompensa tutti i salariati. Non
appena quelli del tuo popolo ma anche gli stranieri. Anche
questa, raccomandazione preziosa per nostri tempi. Ricordo
che anni fa mi capitò di incontrare un industriale,
che mi diceva d'aver assunto alcuni stranieri giunti dal
Camerun, tra l'altro bravissimi. Il giorno della paga, dopo
averla ricevuta, uno di questi andò da lui a chiedere
quanto dovesse lasciare di quanto aveva ricevuto. L'industriale
gli rispose che non doveva lasciare niente. Se questo è
potuto accadere è perché in altre parti, invece,
bisogna lasciare una parte della paga. Semplicemente perché
è uno straniero e quindi gli si può chiedere
anche una tangente.
Se
il salariato è povero -dice il testo- alla sera stessa
deve ricevere lo stipendio. Avviene nel testo la rivoluzione
dei nostri tempi: per alcuni la scadenza della paga può
anche avere il ritmo dei quindici giorni o del mese, ma
ci può essere qualcuno che non resiste a campare,
non vive nel ritmo dei quindici giorni o del mese. L'attenzione
dovrebbe essere al ritmo delle persone. Dovremmo ricordarlo.
Noi tutti, chi in un modo e chi in un altro, abbiamo debiti
materiali o morali verso qualcuno. Ci sono persone che lavorano
per noi. Dobbiamo sempre chiederci se le trattiamo con giustizia
e con riconoscenza. Bisogna "significare", cioè
bisogna rendere visibile la giustizia e anche la riconoscenza,
altrimenti - dice il Libro- non avremo la benedizione dei
poveri, ma avremo l'accusa dei poveri: "Perché
non gridi contro di te al Signore e tu non sia nel peccato"
è scritto.
Nel
Libro vengono poi ricordati quelli che possiamo definire
come "poveri strutturali": "Non lederai il
diritto dello straniero o del povero e non prenderai in
pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato
schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore
tuo Dio; perciò ti comando di fare queste cose"
(24,17-18). E prosegue: "Quando facendo la mietitura
nel tuo campo vi avrai dimenticato un qualche mannello,
non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero,
per l'orfano e per la vedova, perché il Signore tuo
Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quando bacchierai
i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami:
saranno per il forestiero, per l'orfano e per la vedova.
Quando vendemmierai le tue vigne, non tornerai indietro
a racimolare: sarà per il forestiero, per l'orfano
e per la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo nel
paese d'Egitto, perciò ti comando di fare questa
cosa" (24,19-22). Possiamo definire queste categorie
"i poveri strutturali", categorie che in certo
modo quasi appartengono alla struttura della terra. Lo straniero
senza terra, l'orfano senza padre, la vedova senza marito
sembrano quasi simboli della povertà dell'uomo.
Queste
categorie, forse in forme diverse, ricorrono nella storia.
Senza terra, senza padre, senza marito. Qualcuno a volte
con tutti e tre questi "senza" insieme.
Troviamo
nel brano un bellissimo ammonimento che riguarda la mietitura,
l'abbacchiatura, la raccolta dell'uva. Devi lasciare che
un poco sia dimenticato. Alle categorie più deboli
e più indifese non devi dare l'olio, l'uva, il grano
perché sarebbe ancora un'elemosina. Dimentica nel
campo olive, uva e grano, dimenticane una parte per loro,
per evitare loro l'umiliazione di domandarne, lasciane una
parte. Sembra qui di ricordare le parole di Gesù:
"Non sappia la tua mano quello che fa l'altra".
Un invito ad agire quasi con una certa noncuranza nel lavoro
perché ne rimanga per loro.
I
poveri potrebbero essere gli stranieri, i carcerati, gli
emarginati, i malati incurabili, i pazzi. Dimentica le cose
per loro, appartengono a loro, sono per loro. Ne possono
usare senza doverle chiedere e senza sentirsi nei panni
di chi, ancora una volta, riceve.
Ci
si può chiedere che cosa possa significare per noi
oggi dimenticare per gli altri qualcosa, di materiale o
di non materiale. Può significare dimenticare alle
spalle un poco del nostro tempo. Succede al contrario che
si faccia molto pesare il fatto che abbiamo tante e poi
tante cose da fare. Con il risultato che uno poi si senta
a disagio, come se gli stessimo regalando qualcosa. Se poi
ti prende un po' del tuo tempo, lasciaglielo, come se gli
appartenesse, senza che senta l'obbligo di ringraziare:
gli appartiene, è cosa sua. È necessario rivedere
la nostra vita sotto questa dimensione del lasciare qualcosa
alle nostre spalle, come se fosse degli altri.
Accenni
di umanità, accenni semplici, che ci fanno pensare,
che ci invitano a essere più umani, che ci tolgono
dall'illusione di essere cristiani senza essere umani.
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