interventi


Angelo Casati , l'8 dicembre 2014, all'Hospice Madonna dell'uliveto,
Montericco di Albinea (Reggio Emilia)



Benedetta, maledetta città


Benedetta, maledetta città. E' il titolo dato alla nostra conversazione. La chiamo conversazione, perché il "con" del verbo, conversare, richiama un parlare insieme e non da una sola parte. I miei sono frammenti sul tema. Il titolo del nostro incontro evoca altri incontro ben più suggestivi tenuti alla cattedra dei non credenti dal cardinale Martini nel 1995 alla Statale di Milano. Dove, vi dirò, io venni chiamato a fare da "responder" a un teologo americano famosissimo, Harvey Cox.

Confesso che mi sentivo come un pulcino al confronto con un'aquila, per fortuna guardato con occhi buoni e incoraggianti dal mio cardinale. Il titolo di quella cattedra in verità era più completo, era: "Questa nostra benedetta maledetta città". E ve lo voglio ricordare, perché non si tratta di discutere su una città in astratto, ma su questa, quella che noi abitiamo. "E poi "nostra" e nell'aggettivo - benedetta maledetta che sia la città - nell'aggettivo "nostra", risuona un affetto, un calore, è la nostra città, ci lega un'appartenenza. Dire città forse può significare per alcuni di noi rilevare uno spaesamento. All'inizio sta forse un sentimento di spaesamento. Sentirsi fuori paese. Il paese ha un calore? Forse sì, anche se poi il calore può diventare soffocante, ti senti stretto, infatti si dice "una mentalità da paese".

Ebbene vorrei iniziare dallo spaesamento. Che nel mio cuore ha come un'immagine che domina su altre: questa sensazione, dello spaesamento, la provai sulla pelle in un giorno del 1986 quando il cardinale Martini da Lecco mi chiese di andare come parroco a Milano. Puoi sentirla come una "maledizione", tu che ogni mattina apri la finestra e ti perdi a misurare il crescendo della luce sulle pareti bianche e grigie della Medale o rincorri, da lontano, il baluginare di scaglie di lago tra casa e casa o ti incanti per l'intenerirsi dei germogli della vite a primavera sulla pergola che corre lungo la casa.

Ti verrebbe voglia di resistere, come ad una maledizione, all'invito del Cardinale, che sembra evocare altro invito, ben più noto, quello rivolto al profeta Giona: "Alzati e và a Ninive, la grande città". E ti senti Giona. E non solo per un giorno. Tentato di preferire il caldo ventre del pesce, grembo che, alla fin fine, ti protegge, allo scomodo essere "vomitato" sulle strade della grande città. Ricordo il disagio della "strada", la strada quasi icona della città. E non solo nei primi giorni. Le strade del passo affrettato, del traffico convulso, strade simbolo dell'inquietudine umana. La strada mi apparve, e ancora oggi mi appare, quasi cifra della città, quasi luogo dei "senza dimora", luogo di tutti e di nessuno, luogo della non appartenenza e della non protezione. Dalla sera alla Statale, 19 ottobre 1995, ad oggi questa impressione di maledizione non è di certo diminuita: il traffico è ancora più convulso; nella città ci si apparta, appartamento; la paura si è impossessata delle strade, si fatica ad uscire la sera; i visi dolenti degli immigrati sui mezzi di trasporto, uomini, donne, bambini, quasi implorazione quotidiana; la differenza tra il centro città e le periferie dilatata a dismisura; le contraddizioni. Le evocava pochi giorni fa l'arcivescovo Scola parlando di "case senza abitanti e abitanti senza casa". E negli occhi le immagini, che ogni giorno ti rimandano i giornali e i servizi televisivi, di sgomberi di case, di strade incendiate da scontri.

Maledetta la città ridotta a scontri? E lo spaesamento. Potremmo continuare a raccontare le maledizioni. In un certo senso, perdonate, non vanno dimenticate, le maledizioni! Non sono da anestetizzare, annegandole nella indifferenza. Cattiva medicina l'indifferenza, cattiva cura. Il Papa la chiama globalizzazione dell'indifferenza. Questo forse il vero male della città. Al contrario occorre portarsi addosso l'odore delle pecore, per stare ad un'immagine suggestiva di Francesco, il vescovo di Roma. Vicino nell'odore delle pecore. Vicino. Quando uno parla senti dove vive, se nei palazzi o presso i fuochi del gregge. Portarsi addosso la maledizione e lo spaesamento, ma senza farsene soffocare.

Ricordo che il cardinale Martini l'ultima sera di quella sessione della "cattedra dei non credenti", che aveva a tema la città, ci fece questa confidenza, che mi sembra racconti la condivisione delle strade della città: "Una sera" disse "in cui tornavo in macchina da non so quale incontro ero probabilmente stanco e quindi un po' incline a quel cattivo umore che ci prende senza che ce ne accorgiamo dopo una serie di impegni faticosi. Quando ci si lascia un po' andare, la mente si rilassa, ma nello stesso tempo emergono le ombre. Ricordo che mentre ero seduto in macchina vedevo le case venirmi come addosso, una dopo l'altra, e nelle case gli appartamenti, con dentro tanta gente che si indovinava dietro le tendine, dietro le luci delle finestre; e in ogni casa tanti pesi da portare: litigi, frustrazioni, problemi, malattie, morti. Tutto questo mi dava un senso di peso che mi schiacciava. Mi sentivo come gravato, soffocato da quella moltitudine di caseggiati, di persone, di problemi; sentivo riaffiorare l'angoscia per i morti del terrorismo, per tutti gli uccisi dalla criminalità e dalla droga, per i disperati, per tutti quelli che in quella notte erano stanchi di vivere. Sentivo questo peso insopportabile senza riuscire a trovare un ordine, un senso, un modo di tenere in mano una simile marea di problemi. E mi prendeva un senso di impotenza quasi fossi vinto e schiacciato da un senso di impotenza debordante, eccessivo che si faceva beffe di me" (Questa benedetta maledetta città" p. 118).

Un pastore che si porta addosso l'odore delle pecore. Al contrario la tentazione può essere quella della fuga dalle strade per difendersi in spazi protetti, in cenacoli chiusi. C'è sempre questa tentazione della fuga, del tenere le distanze. La fuga per diffidenza, per sfiducia, quella di Giona, convinto che in Ninive non ci sia uno scampolo o un lembo del divino o, se volete, un lembo di autentica umanità, persuasi del vuoto, della indisponibilità al bene della città. Se nei nostri occhi abita questa sfiducia verso l'altro l'esito è che lo costringiamo a rintanarsi. E' la fiducia, che abita i tuoi occhi, a stimolare l'altro a uscire, a condividere con te le domande che lo abitano. C'è un sommerso che non appare. Un sommerso di bene, di sacrificio, di generosità, di fatica quotidiana, di passione, di ricerca, di attesa che non appare.

Io per il fatto, direte voi, che sono prete, ho più di voi forse l'occasione e la grazia di vedere, forse da più vicino, questo sommerso. Potrei raccontare a lungo. L'uomo e la donna rimangono, anche nella città o forse anche perché vivono nella grande città , quasi per reazione, aperti alla domanda. Alla domanda, non alle definizioni. Il cammino della fede nella città non inizia mai, o quasi mai, dalle definizioni o dalle proclamazioni, inizia come quello di Emmaus da una domanda: "Di che cosa state discorrendo lungo il cammino?". Fatti compagno di viaggio e chiedi: "Di che cosa state discorrendo lungo il cammino?".

La strada della città, proprio perché terra di pluralismo, è luogo delle domande: quelle serie, quelle della vita, così diverse dalle domande coltivate in laboratorio! Di qui l'urgenza di essere, come Gesù, là dove nasce la domanda. E la domanda nasce spesso fuori dalle chiese, nasce per le strade e nelle case: là dove accade una nascita, una malattia, una morte, là dove ci si innamora o ci si sposa, là dove si legge una luce negli occhi dei figli o si legge il baratro di un disagio, il vuoto della delusione o della droga, là dove ogni giorno è la fatica di vivere in faccia a se stessi e al mondo. Dentro queste domande - come sulla strada di Emmaus - capita di sentirsi sfiorati da una presenza. Non sto facendo della poesia. Potrei raccontarvi l'ultima storia.

All'inizio di questo anno una telefonata, una donna mi chiede di potermi parlare. Mi trovo davanti agli occhi una donna che si dice non credente, mi confida che i medici, quelli più ottimisti, non le danno molto tempo, al massimo un anno, per vivere. Mi dice che un'amica le ha passato il mo nome. L'amica, al suo funerale lunedì, mi confidò che quando le passò il mio nome, Daniela le disse: "Ma non sarà uno che vuole convertirmi!". L'amica le replicò che uno come me non avrebbe accetto di parlarle per convertirla. Ci siamo visti quasi tutte le settimane, tra chemio e pallide speranze, la vedevo scavarsi nel fisico, settimana dopo settimana. Ma ancor più la vedevo scavare tesori, a lei e spesso anche a me nascosti, nel vangelo. La figlia non battezzata la vedeva come illuminarsi, lei che sul principio aveva teneramente scherzato chiedendo alla mamma se la sua non fosse una infatuazione mistica. Poi s'accorse che era ben altro. Era un viaggio. Così lo chiamò, il viaggio della sua mamma. Con tappa al funerale, lunedì scorso, solo tappa per lei e non finecorsa, perché in lei era nato un amore per Gesù, che conviveva con tutti i suoi dubbi, i nostri dubbi, ma più forte dei nostri dubbi.

Lunedì, una chiesa affollata, un silenzio intenso palpabile commovente di amiche ed amici, che per lo più non hanno buona frequentazione di chiese. E alla fine anche una ferita. Questa è la chiesa nella grande città. Chiedono al parroco la possibilità che la figlia e la nipotina possano dare voce ad alcuni sentimenti per la mamma, per la nonna. Dice di no, che lo facciano, ma non in chiesa sulla porta. Alla porta della chiesa, prima di uscire, la bambina legge una lettera, con voce che trema, alla sua nonna. La figlia chiede di poter aggiungere la sua voce, il parroco reagisce con un gesto rozzo: "Fuori, Fuori!". Nemmeno sulla porta della chiesa. Un colpo al cuore. La figlia legge, quasi la voce non si sente, fuori, davanti al carro funebre. Storie di città. Tenere e amare a un tempo. Che ci dicono quanto sia urgente stare nelle domande. Un bisogno di essere sfiorati, ma senza l'invadenza della apparizione o la rozzezza dei senza cuore. Sfiorati, come sulla soglia. Vicini a un riconoscimento, che non annulla il mistero. Perché sembra essere nello stile di Dio quello di non imporsi: spesso il passaggio avviene nel sonno: la donna te la trovi accanto nel sonno, come Adamo. E Dio non c'è; non si è fermato a farsi ringraziare.

Quel volto però è il segno che ti è passato accanto. Il racconto di Cleopa e del suo compagno di viaggio , i due di Emmaus, ci insegna che è bastato quel baluginare dell'infinito, quella luce impigliata nel pane spezzato di ogni giorno e soprattutto la memoria delle Scritture a rompere la tristezza delle strade, a fermare la fuga: ritorni alla città, alle cose di ogni giorno. Ma è come se in esse fosse impigliata una luce. Anche le chiese diventano allora luogo ricercato se, in qualche misura, diventano strada, se puoi entrare senza sentirti censurato nella domanda o nel grido, senza sentirti assediato da curiosità e da intrusioni clericali, se l'accesso è liberato da presenze ingombranti alle quali devi giustificare il tuo essere qui oggi o il tuo non esserci domani. C'è un anonimato da temere e da allontanare, anonimato come indifferenza. Ma c'è, lasciatemi dire, un anonimato della città da custodire, un andare nella notte,- come Nicodemo. Un anonimato da rispettare, da salvare. E dunque spazi dove nessuno sia costretto o violentato, ma semplicemente accolto e non trattenuto.

Mi diceva anni fa una ragazza - ed ero da poco arrivato a Milano, la città è anche questo - mi diceva: "E' dai tempi di Don Giancarlo e quindi da più di dieci anni, che non metto piede in parrocchia. Forse vuol sapere perché sono qui oggi. E' curioso, ma sono qui per un'immagine che ho ritrovato in suo scritto, là dove lei parla di un albero, quello del Vangelo, che dà ospitalità agli uccelli del cielo, senza chiedere da che cielo vengano, senza pretendere tessere di riconoscimento e senza trattenere. Ho sempre avuto paura di essere trattenuta" .

Nella città - forse più che altrove - avverti questo venire e questo andare, che può anche lasciare un senso di disagio in noi che, poco o tanto, vorremmo trattenere, definire, contare: "contare il gregge" o misurare i passi dello Spirito. Anche i Magi scompaiono dietro le ultime case di Betlemme, anche i pastori dietro le dune del deserto. Occasioni mancate le direbbe una certa categoria di pastoralisti, coloro che pretendono pragmaticamente di misurare anche l'intensità di un incontro. Accettare la città significa accettare che le strade scompaiano oltre, oltre la tua casa, verso un "Altro" e augurarti nel cuore che si sia accesa una luce. Vorrei sfiorare un altro verbo, invitandovi a dilatarne il senso. Oltre la sua immediata accezione, il verbo raccontare.

Nella città invitati a raccontare. Spero che non lo prendiate come uno sconfinamento di poesia. Il verbo raccontare. Per amore della città, riprendiamo a raccontare; il verbo non è gelido né presuntuoso come invece è il verbo predicare. Luogo delle prediche sono le chiese. Luogo del racconto è la vita, là dove ci si incontra in una città. Per fare prediche spesso si esigono titoli e autorizzazioni, per il racconto no. Raccontare lo può fare chiunque, a qualunque età, anche alla mia età di ultraottantenne, per raccontare basta semplicemente essere un uomo, una donna. Una grazia ritrovarci nella figura di chi racconta piuttosto che nella figura di chi predica o declama. E sogno il racconto nelle piazze. E' un'immagine. Il sogno è nelle parole del profeta Zaccaria: "Così dice il Signore degli eserciti: vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle che giocheranno sulle sue piazze" (Zc 8, 4-5). Sedere nelle piazze e raccontarsi. E' una immagine, la piazza può essere dovunque. Sedere sulle piazze e raccontarsi, di tutto, del cielo e della terra, delle luci e delle ombre, degli umani e di Dio, della vita e della morte, del nostro paese e del mondo intero.

Vorrei ricordarvi un racconto di Italo Calvino tratto da "Le città invisibili". Vi si parla di una città, Eufemia, dove la vita non è ridotta a "vendere e comprare", ma ci si raduna la sera e ci si dà tempo a raccontare. Emozionante diventa nella sera, fino a notte inoltrata, parlarsi, raccontarsi, scambiare le memorie, le memorie che ci fanno vivere, che non ci fanno appiattiti, inariditi, ingrigiti nel "vendere e comprare". Parlando dei mercanti di sette nazioni che vi convengono a ogni solstizio e a ogni equinozio, Calvino scrive: "Ciò che spinge a risalire il fiume e a venire fin qui non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovi sempre le stesse in tutti i bazar dentro e fuori l'impero del Gran Kan… Non solo a vendere e a comprare si viene ad Eufemia, ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt'intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili, sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice - come "lupo", "sorella", "tesoro nascosto", "battaglia", "scabbia", "amanti" - gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbie, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio" (La città e gli scambi. 1).

Costruire piazze del racconto! Che grazia sarebbe! Ma che cosa significa questo? Pensate alle nostre città dove le piazze non sono previste, dove non è prevista la sosta, bisogna correre, restringiamo persino i marciapiedi e l'uno non abbia spazio di stare accanto a raccontarsi. No, uno dietro l'altro, ognuno a correre per suo conto. Verso dove? Voi mi avete capito. Mi rimane questo sogno: sedere sulla piazza e raccontarsi. Strade della città, strade del pettegolezzo vano, della chiacchiera vuota, del rumore infinito, ma anche strade del passa-parola, della notizia portata di bocca in bocca, una notizia fuori la casa e quindi affidata al vento, al vento dello spirito: molti di noi forse qui, questo pomeriggio, per un "passa-parola"! Vorrei aggiungere: costruire bellezza nella città. Una città brutta, soleva dire padre Turoldo, abbruttisce. Una città bella, io aggiungo, ci fa belli. Fare innamorare della bellezza.

Ricordo, come se fosse oggi, che un giorno di molti anni fa, durante un mio soggiorno in Valle di Poschiavo, salimmo un pomeriggio a San Romerio, un alpeggio a milleottocento metri dove una piccola chiesa antica edificata nel dodicesimo secolo veglia, come sentinella e rifugio in cima a un dirupo di 800 metri a picco sul lago di Poschiavo. Uscimmo dall'ombra della chiesa, ombra impigliata di memorie, ed ecco i nostri occhi furono sorpresi dalla figura di un pastore: poco fuori da una baita stava assorto nel silenzio dei monti, gli occhi sembravano navigare indugiando ora al verde vivo dei prati ora alle macchie bianche del gregge. Tacemmo, quasi fosse da ascoltare, senza frapporre briciola di rumore, la bellezza di quell'armonia. Poi ci avvicinammo e ci venne spontaneo dirgli il nostro stupore per i suoi prati inviolati, senza ferita di carte o di bottiglie abbandonate, tanto più che quel luogo, proprio per la sua preziosità storica ed artistica, era meta di non pochi visitatori. Ci venne spontaneo chiedergli se tutto ciò fosse frutto di qualche ordinanza comunale che comminasse punizione di multe ad eventuali trasgressori. Il pastore alzò lento il viso, i suoi occhi abitati dalla sapienza dei monti, ci disse che non esistevano ordinanze di sorta e aggiunse: "E' così perché a noi sta a cuore la bellezza".

Non le telecamere, non le pattuglie di vigilanti, non il balenare di multe, ma la passione per la bellezza. Parola di pastore, sapienza dei monti. A volte mi sorprendo a osservare triste la stagione che stiamo vivendo, non vedo i pascoli verdi, inviolati, del pastore dei monti, vedo luoghi sporchi di insensatezza e di degrado. Fa scuola dall'alto. Mi prende disgusto, ma poi mi sorprendo, vecchio come sono, a sognare. A sognare che in donne e uomini erompano sussulti di resistenza. Poi mi chiedo da dove ripartire. Per nuove stagioni di bellezza. Ho trovato mesi fa, in una traduzione che mi ha colpito, una parola custodita nel rotolo di Isaia. "Ascoltatemi, ascoltatemi …" è scritto. E dunque un invito ripetuto, pressante, urgente: "Ascoltatemi, ascoltatemi, mangiate la bellezza" (Is 55,2). Partire da dove abitiamo facendo rete, radicandoci, costruendo solidarietà.

"Una città che non diventa mero spazio di transito, ma una estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato". Le parole non sono mie. Troppo belle per essere miei, sono di Papa Francesco, in parte riflettono quello che oggi ci siamo detti. E vorrei concludere con questa citazione da un discorso che giorni fa, il 28 ottobre, papa Francesco fece ai movimenti popolari di liberazione, un discorso che attingeva molto alla sua esortazione "Evangelii gaudium", ecco un passaggio, molto concreto per noi, che amiamo la nostra città. Diceva: "Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, "persone senza fissa dimora".

È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell'eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c'è un delitto. Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.

Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito ma un'estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell'altro! Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell'integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e "truccare" le ferite sociali invece di curarle promuovendo un'integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione.

Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un'infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute - l'ho già detto - all'educazione e alla sicurezza della proprietà".

Parole che sembrano una consegna. Per noi che amiamo con passione la nostra città
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don Angelo Casati

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