Benedetta,
maledetta città
Benedetta,
maledetta città. E' il titolo dato alla nostra conversazione.
La chiamo conversazione, perché il "con" del verbo, conversare,
richiama un parlare insieme e non da una sola parte. I miei
sono frammenti sul tema. Il titolo del nostro incontro evoca
altri incontro ben più suggestivi tenuti alla cattedra dei
non credenti dal cardinale Martini nel 1995 alla Statale
di Milano. Dove, vi dirò, io venni chiamato a fare da "responder"
a un teologo americano famosissimo, Harvey Cox.
Confesso che mi sentivo come un pulcino al confronto con
un'aquila, per fortuna guardato con occhi buoni e incoraggianti
dal mio cardinale. Il titolo di quella cattedra in verità
era più completo, era: "Questa nostra benedetta maledetta
città". E ve lo voglio ricordare, perché non si tratta di
discutere su una città in astratto, ma su questa, quella
che noi abitiamo. "E poi "nostra" e nell'aggettivo - benedetta
maledetta che sia la città - nell'aggettivo "nostra", risuona
un affetto, un calore, è la nostra città, ci lega un'appartenenza.
Dire città forse può significare per alcuni di noi rilevare
uno spaesamento. All'inizio sta forse un sentimento di spaesamento.
Sentirsi fuori paese. Il paese ha un calore? Forse sì, anche
se poi il calore può diventare soffocante, ti senti stretto,
infatti si dice "una mentalità da paese".
Ebbene vorrei iniziare dallo spaesamento. Che nel mio cuore
ha come un'immagine che domina su altre: questa sensazione,
dello spaesamento, la provai sulla pelle in un giorno del
1986 quando il cardinale Martini da Lecco mi chiese di andare
come parroco a Milano. Puoi sentirla come una "maledizione",
tu che ogni mattina apri la finestra e ti perdi a misurare
il crescendo della luce sulle pareti bianche e grigie della
Medale o rincorri, da lontano, il baluginare di scaglie
di lago tra casa e casa o ti incanti per l'intenerirsi dei
germogli della vite a primavera sulla pergola che corre
lungo la casa.
Ti
verrebbe voglia di resistere, come ad una maledizione, all'invito
del Cardinale, che sembra evocare altro invito, ben più
noto, quello rivolto al profeta Giona: "Alzati e và a Ninive,
la grande città". E ti senti Giona. E non solo per un giorno.
Tentato di preferire il caldo ventre del pesce, grembo che,
alla fin fine, ti protegge, allo scomodo essere "vomitato"
sulle strade della grande città. Ricordo il disagio della
"strada", la strada quasi icona della città. E non solo
nei primi giorni. Le strade del passo affrettato, del traffico
convulso, strade simbolo dell'inquietudine umana. La strada
mi apparve, e ancora oggi mi appare, quasi cifra della città,
quasi luogo dei "senza dimora", luogo di tutti e di nessuno,
luogo della non appartenenza e della non protezione. Dalla
sera alla Statale, 19 ottobre 1995, ad oggi questa impressione
di maledizione non è di certo diminuita: il traffico è ancora
più convulso; nella città ci si apparta, appartamento; la
paura si è impossessata delle strade, si fatica ad uscire
la sera; i visi dolenti degli immigrati sui mezzi di trasporto,
uomini, donne, bambini, quasi implorazione quotidiana; la
differenza tra il centro città e le periferie dilatata a
dismisura; le contraddizioni. Le evocava pochi giorni fa
l'arcivescovo Scola parlando di "case senza abitanti e abitanti
senza casa". E negli occhi le immagini, che ogni giorno
ti rimandano i giornali e i servizi televisivi, di sgomberi
di case, di strade incendiate da scontri.
Maledetta la città ridotta a scontri? E lo spaesamento.
Potremmo continuare a raccontare le maledizioni. In un certo
senso, perdonate, non vanno dimenticate, le maledizioni!
Non sono da anestetizzare, annegandole nella indifferenza.
Cattiva medicina l'indifferenza, cattiva cura. Il Papa la
chiama globalizzazione dell'indifferenza. Questo forse il
vero male della città. Al contrario occorre portarsi addosso
l'odore delle pecore, per stare ad un'immagine suggestiva
di Francesco, il vescovo di Roma. Vicino nell'odore delle
pecore. Vicino. Quando uno parla senti dove vive, se nei
palazzi o presso i fuochi del gregge. Portarsi addosso la
maledizione e lo spaesamento, ma senza farsene soffocare.
Ricordo che il cardinale Martini l'ultima sera di quella
sessione della "cattedra dei non credenti", che aveva a
tema la città, ci fece questa confidenza, che mi sembra
racconti la condivisione delle strade della città: "Una
sera" disse "in cui tornavo in macchina da non so quale
incontro ero probabilmente stanco e quindi un po' incline
a quel cattivo umore che ci prende senza che ce ne accorgiamo
dopo una serie di impegni faticosi. Quando ci si lascia
un po' andare, la mente si rilassa, ma nello stesso tempo
emergono le ombre. Ricordo che mentre ero seduto in macchina
vedevo le case venirmi come addosso, una dopo l'altra, e
nelle case gli appartamenti, con dentro tanta gente che
si indovinava dietro le tendine, dietro le luci delle finestre;
e in ogni casa tanti pesi da portare: litigi, frustrazioni,
problemi, malattie, morti. Tutto questo mi dava un senso
di peso che mi schiacciava. Mi sentivo come gravato, soffocato
da quella moltitudine di caseggiati, di persone, di problemi;
sentivo riaffiorare l'angoscia per i morti del terrorismo,
per tutti gli uccisi dalla criminalità e dalla droga, per
i disperati, per tutti quelli che in quella notte erano
stanchi di vivere. Sentivo questo peso insopportabile senza
riuscire a trovare un ordine, un senso, un modo di tenere
in mano una simile marea di problemi. E mi prendeva un senso
di impotenza quasi fossi vinto e schiacciato da un senso
di impotenza debordante, eccessivo che si faceva beffe di
me" (Questa benedetta maledetta città" p. 118).
Un pastore che si porta addosso l'odore delle pecore. Al
contrario la tentazione può essere quella della fuga dalle
strade per difendersi in spazi protetti, in cenacoli chiusi.
C'è sempre questa tentazione della fuga, del tenere le distanze.
La fuga per diffidenza, per sfiducia, quella di Giona, convinto
che in Ninive non ci sia uno scampolo o un lembo del divino
o, se volete, un lembo di autentica umanità, persuasi del
vuoto, della indisponibilità al bene della città. Se nei
nostri occhi abita questa sfiducia verso l'altro l'esito
è che lo costringiamo a rintanarsi. E' la fiducia, che abita
i tuoi occhi, a stimolare l'altro a uscire, a condividere
con te le domande che lo abitano. C'è un sommerso che non
appare. Un sommerso di bene, di sacrificio, di generosità,
di fatica quotidiana, di passione, di ricerca, di attesa
che non appare.
Io per il fatto, direte voi, che sono prete, ho più di voi
forse l'occasione e la grazia di vedere, forse da più vicino,
questo sommerso. Potrei raccontare a lungo. L'uomo e la
donna rimangono, anche nella città o forse anche perché
vivono nella grande città , quasi per reazione, aperti alla
domanda. Alla domanda, non alle definizioni. Il cammino
della fede nella città non inizia mai, o quasi mai, dalle
definizioni o dalle proclamazioni, inizia come quello di
Emmaus da una domanda: "Di che cosa state discorrendo lungo
il cammino?". Fatti compagno di viaggio e chiedi: "Di che
cosa state discorrendo lungo il cammino?".
La strada della città, proprio perché terra di pluralismo,
è luogo delle domande: quelle serie, quelle della vita,
così diverse dalle domande coltivate in laboratorio! Di
qui l'urgenza di essere, come Gesù, là dove nasce la domanda.
E la domanda nasce spesso fuori dalle chiese, nasce per
le strade e nelle case: là dove accade una nascita, una
malattia, una morte, là dove ci si innamora o ci si sposa,
là dove si legge una luce negli occhi dei figli o si legge
il baratro di un disagio, il vuoto della delusione o della
droga, là dove ogni giorno è la fatica di vivere in faccia
a se stessi e al mondo. Dentro queste domande - come sulla
strada di Emmaus - capita di sentirsi sfiorati da una presenza.
Non sto facendo della poesia. Potrei raccontarvi l'ultima
storia.
All'inizio di questo anno una telefonata, una donna mi chiede
di potermi parlare. Mi trovo davanti agli occhi una donna
che si dice non credente, mi confida che i medici, quelli
più ottimisti, non le danno molto tempo, al massimo un anno,
per vivere. Mi dice che un'amica le ha passato il mo nome.
L'amica, al suo funerale lunedì, mi confidò che quando le
passò il mio nome, Daniela le disse: "Ma non sarà uno che
vuole convertirmi!". L'amica le replicò che uno come me
non avrebbe accetto di parlarle per convertirla. Ci siamo
visti quasi tutte le settimane, tra chemio e pallide speranze,
la vedevo scavarsi nel fisico, settimana dopo settimana.
Ma ancor più la vedevo scavare tesori, a lei e spesso anche
a me nascosti, nel vangelo. La figlia non battezzata la
vedeva come illuminarsi, lei che sul principio aveva teneramente
scherzato chiedendo alla mamma se la sua non fosse una infatuazione
mistica. Poi s'accorse che era ben altro. Era un viaggio.
Così lo chiamò, il viaggio della sua mamma. Con tappa al
funerale, lunedì scorso, solo tappa per lei e non finecorsa,
perché in lei era nato un amore per Gesù, che conviveva
con tutti i suoi dubbi, i nostri dubbi, ma più forte dei
nostri dubbi.
Lunedì, una chiesa affollata, un silenzio intenso palpabile
commovente di amiche ed amici, che per lo più non hanno
buona frequentazione di chiese. E alla fine anche una ferita.
Questa è la chiesa nella grande città. Chiedono al parroco
la possibilità che la figlia e la nipotina possano dare
voce ad alcuni sentimenti per la mamma, per la nonna. Dice
di no, che lo facciano, ma non in chiesa sulla porta. Alla
porta della chiesa, prima di uscire, la bambina legge una
lettera, con voce che trema, alla sua nonna. La figlia chiede
di poter aggiungere la sua voce, il parroco reagisce con
un gesto rozzo: "Fuori, Fuori!". Nemmeno sulla porta della
chiesa. Un colpo al cuore. La figlia legge, quasi la voce
non si sente, fuori, davanti al carro funebre. Storie di
città. Tenere e amare a un tempo. Che ci dicono quanto sia
urgente stare nelle domande. Un bisogno di essere sfiorati,
ma senza l'invadenza della apparizione o la rozzezza dei
senza cuore. Sfiorati, come sulla soglia. Vicini a un riconoscimento,
che non annulla il mistero. Perché sembra essere nello stile
di Dio quello di non imporsi: spesso il passaggio avviene
nel sonno: la donna te la trovi accanto nel sonno, come
Adamo. E Dio non c'è; non si è fermato a farsi ringraziare.
Quel volto però è il segno che ti è passato accanto. Il
racconto di Cleopa e del suo compagno di viaggio , i due
di Emmaus, ci insegna che è bastato quel baluginare dell'infinito,
quella luce impigliata nel pane spezzato di ogni giorno
e soprattutto la memoria delle Scritture a rompere la tristezza
delle strade, a fermare la fuga: ritorni alla città, alle
cose di ogni giorno. Ma è come se in esse fosse impigliata
una luce. Anche le chiese diventano allora luogo ricercato
se, in qualche misura, diventano strada, se puoi entrare
senza sentirti censurato nella domanda o nel grido, senza
sentirti assediato da curiosità e da intrusioni clericali,
se l'accesso è liberato da presenze ingombranti alle quali
devi giustificare il tuo essere qui oggi o il tuo non esserci
domani. C'è un anonimato da temere e da allontanare, anonimato
come indifferenza. Ma c'è, lasciatemi dire, un anonimato
della città da custodire, un andare nella notte,- come Nicodemo.
Un anonimato da rispettare, da salvare. E dunque spazi dove
nessuno sia costretto o violentato, ma semplicemente accolto
e non trattenuto.
Mi diceva anni fa una ragazza - ed ero da poco arrivato
a Milano, la città è anche questo - mi diceva: "E' dai tempi
di Don Giancarlo e quindi da più di dieci anni, che non
metto piede in parrocchia. Forse vuol sapere perché sono
qui oggi. E' curioso, ma sono qui per un'immagine che ho
ritrovato in suo scritto, là dove lei parla di un albero,
quello del Vangelo, che dà ospitalità agli uccelli del cielo,
senza chiedere da che cielo vengano, senza pretendere tessere
di riconoscimento e senza trattenere. Ho sempre avuto paura
di essere trattenuta" .
Nella città - forse più che altrove - avverti questo venire
e questo andare, che può anche lasciare un senso di disagio
in noi che, poco o tanto, vorremmo trattenere, definire,
contare: "contare il gregge" o misurare i passi dello Spirito.
Anche i Magi scompaiono dietro le ultime case di Betlemme,
anche i pastori dietro le dune del deserto. Occasioni mancate
le direbbe una certa categoria di pastoralisti, coloro che
pretendono pragmaticamente di misurare anche l'intensità
di un incontro. Accettare la città significa accettare che
le strade scompaiano oltre, oltre la tua casa, verso un
"Altro" e augurarti nel cuore che si sia accesa una luce.
Vorrei sfiorare un altro verbo, invitandovi a dilatarne
il senso. Oltre la sua immediata accezione, il verbo raccontare.
Nella città invitati a raccontare. Spero che non lo prendiate
come uno sconfinamento di poesia. Il verbo raccontare. Per
amore della città, riprendiamo a raccontare; il verbo non
è gelido né presuntuoso come invece è il verbo predicare.
Luogo delle prediche sono le chiese. Luogo del racconto
è la vita, là dove ci si incontra in una città. Per fare
prediche spesso si esigono titoli e autorizzazioni, per
il racconto no. Raccontare lo può fare chiunque, a qualunque
età, anche alla mia età di ultraottantenne, per raccontare
basta semplicemente essere un uomo, una donna. Una grazia
ritrovarci nella figura di chi racconta piuttosto che nella
figura di chi predica o declama. E sogno il racconto nelle
piazze. E' un'immagine. Il sogno è nelle parole del profeta
Zaccaria: "Così dice il Signore degli eserciti: vecchi e
vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno
con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze
della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle che
giocheranno sulle sue piazze" (Zc 8, 4-5). Sedere nelle
piazze e raccontarsi. E' una immagine, la piazza può essere
dovunque. Sedere sulle piazze e raccontarsi, di tutto, del
cielo e della terra, delle luci e delle ombre, degli umani
e di Dio, della vita e della morte, del nostro paese e del
mondo intero.
Vorrei ricordarvi un racconto di Italo Calvino tratto da
"Le città invisibili". Vi si parla di una città, Eufemia,
dove la vita non è ridotta a "vendere e comprare", ma ci
si raduna la sera e ci si dà tempo a raccontare. Emozionante
diventa nella sera, fino a notte inoltrata, parlarsi, raccontarsi,
scambiare le memorie, le memorie che ci fanno vivere, che
non ci fanno appiattiti, inariditi, ingrigiti nel "vendere
e comprare". Parlando dei mercanti di sette nazioni che
vi convengono a ogni solstizio e a ogni equinozio, Calvino
scrive: "Ciò che spinge a risalire il fiume e a venire fin
qui non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovi sempre
le stesse in tutti i bazar dentro e fuori l'impero del Gran
Kan… Non solo a vendere e a comprare si viene ad Eufemia,
ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt'intorno
al mercato, seduti sui sacchi o sui barili, sdraiati su
mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice - come "lupo",
"sorella", "tesoro nascosto", "battaglia", "scabbia", "amanti"
- gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di
sorelle, di tesori, di scabbie, di amanti, di battaglie.
E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per
restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca
ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno,
il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una
sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno
da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni
solstizio e a ogni equinozio" (La città e gli scambi. 1).
Costruire piazze del racconto! Che grazia sarebbe! Ma che
cosa significa questo? Pensate alle nostre città dove le
piazze non sono previste, dove non è prevista la sosta,
bisogna correre, restringiamo persino i marciapiedi e l'uno
non abbia spazio di stare accanto a raccontarsi. No, uno
dietro l'altro, ognuno a correre per suo conto. Verso dove?
Voi mi avete capito. Mi rimane questo sogno: sedere sulla
piazza e raccontarsi. Strade della città, strade del pettegolezzo
vano, della chiacchiera vuota, del rumore infinito, ma anche
strade del passa-parola, della notizia portata di bocca
in bocca, una notizia fuori la casa e quindi affidata al
vento, al vento dello spirito: molti di noi forse qui, questo
pomeriggio, per un "passa-parola"! Vorrei aggiungere: costruire
bellezza nella città. Una città brutta, soleva dire padre
Turoldo, abbruttisce. Una città bella, io aggiungo, ci fa
belli. Fare innamorare della bellezza.
Ricordo, come se fosse oggi, che un giorno di molti anni
fa, durante un mio soggiorno in Valle di Poschiavo, salimmo
un pomeriggio a San Romerio, un alpeggio a milleottocento
metri dove una piccola chiesa antica edificata nel dodicesimo
secolo veglia, come sentinella e rifugio in cima a un dirupo
di 800 metri a picco sul lago di Poschiavo. Uscimmo dall'ombra
della chiesa, ombra impigliata di memorie, ed ecco i nostri
occhi furono sorpresi dalla figura di un pastore: poco fuori
da una baita stava assorto nel silenzio dei monti, gli occhi
sembravano navigare indugiando ora al verde vivo dei prati
ora alle macchie bianche del gregge. Tacemmo, quasi fosse
da ascoltare, senza frapporre briciola di rumore, la bellezza
di quell'armonia. Poi ci avvicinammo e ci venne spontaneo
dirgli il nostro stupore per i suoi prati inviolati, senza
ferita di carte o di bottiglie abbandonate, tanto più che
quel luogo, proprio per la sua preziosità storica ed artistica,
era meta di non pochi visitatori. Ci venne spontaneo chiedergli
se tutto ciò fosse frutto di qualche ordinanza comunale
che comminasse punizione di multe ad eventuali trasgressori.
Il pastore alzò lento il viso, i suoi occhi abitati dalla
sapienza dei monti, ci disse che non esistevano ordinanze
di sorta e aggiunse: "E' così perché a noi sta a cuore la
bellezza".
Non le telecamere, non le pattuglie di vigilanti, non il
balenare di multe, ma la passione per la bellezza. Parola
di pastore, sapienza dei monti. A volte mi sorprendo a osservare
triste la stagione che stiamo vivendo, non vedo i pascoli
verdi, inviolati, del pastore dei monti, vedo luoghi sporchi
di insensatezza e di degrado. Fa scuola dall'alto. Mi prende
disgusto, ma poi mi sorprendo, vecchio come sono, a sognare.
A sognare che in donne e uomini erompano sussulti di resistenza.
Poi mi chiedo da dove ripartire. Per nuove stagioni di bellezza.
Ho trovato mesi fa, in una traduzione che mi ha colpito,
una parola custodita nel rotolo di Isaia. "Ascoltatemi,
ascoltatemi …" è scritto. E dunque un invito ripetuto, pressante,
urgente: "Ascoltatemi, ascoltatemi, mangiate la bellezza"
(Is 55,2). Partire da dove abitiamo facendo rete, radicandoci,
costruendo solidarietà.
"Una città che non diventa mero spazio di transito, ma una
estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli
con il vicinato". Le parole non sono mie. Troppo belle per
essere miei, sono di Papa Francesco, in parte riflettono
quello che oggi ci siamo detti. E vorrei concludere con
questa citazione da un discorso che giorni fa, il 28 ottobre,
papa Francesco fece ai movimenti popolari di liberazione,
un discorso che attingeva molto alla sua esortazione "Evangelii
gaudium", ecco un passaggio, molto concreto per noi, che
amiamo la nostra città. Diceva: "Oggi viviamo in immense
città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura
vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere
per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia
di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama,
elegantemente, "persone senza fissa dimora".
È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli
eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la
realtà si cerca nell'eufemismo. Una persona, una persona
segregata, una persona accantonata, una persona che sta
soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza
fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre;
potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro
un eufemismo c'è un delitto. Viviamo in città che costruiscono
torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano
una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male
sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio
ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini
degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche,
immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si
vede oggi.
Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono
sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti.
Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura
popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito
ma un'estensione della propria casa, un luogo dove generare
vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che
superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e
fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo!
Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico,
sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono
il riconoscimento dell'altro! Perciò né sradicamento né
emarginazione: bisogna seguire la linea dell'integrazione
urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola
sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono
riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie
e "truccare" le ferite sociali invece di curarle promuovendo
un'integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura
di facciata, no? E va in questa direzione.
Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano
una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un'infrastruttura
adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole,
ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose
che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute - l'ho
già detto - all'educazione e alla sicurezza della proprietà".
Parole che sembrano una consegna. Per noi che amiamo con
passione la nostra città.
don Angelo Casati
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