BEATI
GLI OCCHI CHE VEDONO
commento
alla lettera pastorale: "Quale bellezza salverà
il mondo?" (anno 2000)
Forse
perché sono un parroco e niente più, innamorato
delle storie sfiorate da Dio, le infinite storie che fanno
la mia vita quotidiana, un parroco e niente più,
anche quando leggo le lettere pastorali dei vescovi, del
mio in particolare, oso sperare che qua e là si aprano
invisibili fessure, da cui, come da soglia segreta, intravvedere
il cuore di chi scrive, la speranza dunque che la dizione
"lettera" non sia un modo di dire, come succede,
ma vi sia conservata traccia di una confessione.
Anche nell'ultima lettera del Cardinale mi hanno sorpreso
le parole che sfiorano la confessione.
All'inizio, quasi il ricordo di un cammino dello spirito
e un invito: "Tutta questa lettera pastorale è
stata vissuta, prima di essere stata scritta, lasciandomi
muovere dallo Spirito, per entrare nel cuore del Figlio
e così conoscere il Padre. Non ho altro scopo diffondendola
che di aiutare tutti a compiere questo cammino".
E alla fine, quasi un testamento: "A questo sguardo
contemplativo dell'amore ho cercato di far tendere il mio
servizio episcopale in mezzo a voi, nella convinzione che
non c'è dono più grande da accogliere e da
trasmettere che quello della gloria di Dio e dello sguardo
diventato capace di riconoscerla e di testimoniarla ogni
giorno".
Gloria
di Dio, bellezza, bellezza di Dio, mistero da contemplare
come i discepoli sul santo monte, bellezza da cui lasciarsi
avvolgere e trasfigurare, come Mosè su un altro monte,
bellezza, per quanto è possibile ai nostri volti,
da irradiare.
Chi è attento al vocabolario ecclesiastico patirà
una certa sorpresa -un dolce stupore-- nel leggere la parola
"bellezza", che fa il titolo della lettera e accompagna
senza interruzioni, come la voce del torrente lungo il cammino
sui sentieri del monte.
Nel vocabolario ecclesiastico sono altre le parole più
usate, quelle con le quali abbiamo maggiore dimestichezza:
la parola "verità" per esempio, la parola
"bontà". Di verità e bontà
sono piene le omelie dei preti e i documenti ecclesiastici.
Una cittadinanza minore tocca invece alla parola "bellezza".
Quasi ci incutesse un certo disagio, nel dire "bello",
per esempio, in faccia a tutti, come fa il Cantico, il volto
di una donna. Un disagio che tempestivamente cerchi di arginare
e vaccinare, aggiungendo al sostantivo "bellezza"
la specificazione "di Dio": la bellezza di Dio.
Come se le altre bellezze fossero necessariamente spurie
o, peggio ancora, sporche, come se la Sua bellezza, dal
giorno in cui furono fatte in Cristo tutte le cose, non
avesse trovato dimora nella creazione, come se la bellezza
di Dio, irradiata sul volto del Cristo crocifisso, splendente
nel Cristo Pastore dalle braccia allargate, il più
bello tra i figli di donna, non fosse stata riverberata
sui nostri volti, ora che il suo Spirito dimora in noi"
e "riempie" -ma qualcuno ancora non ci crede?-
"tutta la terra".
Una bellezza da riproporre urgentemente, perché "una
città brutta" -ripeteva frequentemente Padre
D. Turoldo- "abbruttisce gli uomini". Forse si
può anche dire che una chiesa brutta ci abbruttisce,
ci impoverisce.
Ciò che oggi ci occorre è un sussulto, una
fascinazione, un innamoramento, l'emozione per la bellezza
racchiusa nel frammento" -direbbe Bruno Forte- finestra
aperta verso l'illimitato.
Il pericolo dell'abbruttimento, della negazione della bellezza
è reale -dice l'Arcivescovo- e non riguarda solo
i non credenti e gli spazi del mondo, riguarda anche i credenti
e la vita della chiesa: "Parlo di quella negazione
della bellezza che è spesso sottile e pervasiva e
abita la vita di credenti e non credenti: è la mediocrità
che avanza, il calcolo egoistico che prende il posto della
generosità, l'abitudine ripetitiva e vuota che sostituisce
la fedeltà, vissuta come continua novità del
cuore e della vita".
Non è forse vero che la stessa verità, senza
bellezza, è gelida, è teorema, è assetto
dottrinale, non fa trasalire il cuore? Lo fa trasalire il
racconto, perché abitato dalla bellezza dei volti
e delle storie: forse per questo Gesù, non definiva,
ma raccontava. E nel frammento della parola si apriva una
finestra, da cui contemplare il mistero.
Il bene stesso, la virtù, senza bellezza, diventano
pesanti, finiscono per soffocare: è il rimanere nella
casa del figlio maggiore della parabola, un rimanere senza
brividi, senza trasalimenti, semplicemente per un dovere.
Succede di ascoltare discorsi noiosi, pesanti, asfissianti
-si confonde la radicalità del vangelo con la pesantezza-
e noiosi, pesanti, soffocanti i cristiani stessi. Il volto
non è quello dell'illuminazione del monte, ma quello
corrucciato della lamentazione.
La liturgia stessa vive a volte in parole lontane da ogni
sussulto di vita e del cuore. Senza bellezza, si riduce
a teatro, teatralità vuota, coreografia perfetta
ma senz'anima. Parole proclamate, canti urlati, nell'assenza
di occhi che scrutano dalla soglia e adorano.
Anche la comunità, se viene meno all'interno la bellezza,
diventa nuda organizzazione, apparato senza cuore, registri
senza l'emozione dei volti.
Manca -i più lucidi l'avvertono- un'incandescenza,
che parli dai volti di qualcosa che è accaduto e
ti ha acceso il volto, ti ha cambiato faccia. Sul monte
Gesù ha cambiato volto, ma forse anche i discepoli,
quando dicevano: "è bello rimanere qui!"
È "bello": aggettivo meno usato nelle nostre
proposte pastorali. Noi diciamo: è giusto, è
vero, è doveroso, è legittimo. Poche volte
diciamo "è bello", a segnalare a noi stessi
e agli altri la bellezza di ciò che sta sotto i nostri
occhi. È bello il vangelo, è bello Gesù,
è bello il piccolo seme nascosto nella terra.
Succede che uomini e donne cambino faccia. Li guardi e ti
viene spontaneo chiedere loro che cosa sia mai capitato.
Succede che ti rispondano che si sono innamorati. Potesse
succedere anche ai credenti di essere interrogati per il
loro volto, trasfigurato come quello dei discepoli sul monte!
Quando il Cardinale parla di uno sguardo contemplativo disegna
quasi una condizione per la soglia della bellezza: avere
occhi.
Avere occhi: "Hanno occhi e non vedono". È
caratteristica degli idoli vani e vuoti avere occhi e non
vedere. Hanno occhi; e non vedono accadere la bellezza.
Sono gli uomini e le donne abbagliati dal mito pallido del
mercato, una mentalità mercantile che ha come unica
aspirazione ciò che è utile, ciò che
ha un tornaconto, ciò che rende
e non ciò
che è bello. Una simile mentalità non può
avere che un effetto, quello dell'accecamento: hanno occhi
e non vedono.
La bellezza è per i ricercatori di fessure, di soglie
segrete, di fili pressoché invisibili. Soglie non
tanto da varcare con animo predatorio, ma su cui sostare,
da cui intravvedere e provare emozione, commozione.
La bellezza è per i ricercatori di un oltre, quelli
che hanno resistito alla seduzione della quantità,
della grandezza esteriore, dell'esibizione.
Avere dunque occhi: "Beati i puri di cuore perché
vedranno Dio".
"Beati gli ubriachi" - scrive E. Galeano - "perché
vedranno Dio due volte". Parola che in un primo momento
risuona quasi dissacrante, ma forse sta a dire che occorre
uno sbilanciamento: quello di cui parlava il nostro Arcivescovo
nella sua prima lettera pastorale. E così si chiude
l'arco e si ritorna all'inizio.
In parrocchie troppo organizzate, troppo programmate, troppo
prevedibili
in credenti troppo organizzati, troppo
programmati, troppo prevedibili non c'è posto per
la fascinazione della bellezza.
La bellezza, nella sua totalità ultima è quella
evocata dall'Arcivescovo, la bellezza della Trinità,
sorpresa non nel balletto gelido dei numeri, ma nella sua
danza imprevedibile e stupefacente: nel suo donarsi all'umanità
e alla terra.
La bellezza -ricorderà il Cardinale nella lettera-
trova il suo luogo più emozionante nell'amore del
Crocifisso, in quel suo consegnarsi senza condizioni, a
noi, e non perché siamo puri, ma perché siamo
amati.
"Il cristianesimo" -scrive Bruno Forte- "confessa
che l'evento della bellezza si è compiuto una volta
per sempre nel giardino fuori Gerusalemme. Sulla roccia
del Calvario sta la Croce della Bellezza".
Il vero Giubileo è arrivare a questo giardino e contemplare
dall'esile fessura il pastore bello, il pastore che si consegna.
Ma la bellezza -l'Arcivescovo ce lo ricorda con forza- non
è un possesso. Non sopporta atteggiamenti predatori.
Ogni volta che la bellezza, qualsiasi bellezza -quella di
un bambino, quella di una donna, quella di un monte, quella
di Dio- è avvicinata con atteggiamenti predatori
si intristisce e inaridisce tra le mani.
La bellezza disegna un oltre, è fessura aperta: la
discesa dal monte dei discepoli e l'invito a tacere è
ammonimento a tutti oggi e in particolare alle chiese. Decisivo
non è il parlare, ma avere il volto trasfigurato.
Non c'è un luogo esclusivo della bellezza: circoscriverla
ad un luogo è fare azione predatoria. Ci sono soglie,
le più disparate. Beati gli occhi che vedono.
Penso alla soglia di due cari amici non credenti. In una
conversazione sull'argomento li ho sentiti citare con emozione
i versi di Borges:
un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire
chi ringrazia che sulla terra esista la musica,
chi scopre con piacere un'etimologia,
due impiegati in un caffè del Sud giocano in silenzio
a scacchi,
il ceramista che intuisce un colore ed una forma,
il tipografo che compone questa pagina che forse non gli
piace,
una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un
certo canto,
chi accarezza un animale addormentato,
chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno
fatto,
chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson,
chi preferisce che abbiano ragione gli altri,
queste persone che si ignorano, stanno salvando il mondo.
Anche in loro la bellezza che salva il mondo. Soglia della
bellezza che salva il mondo può essere anche una
camera d'ospedale nella grande città.
Ho respirato tempo fa la bellezza di Dio in una camera dell'Istituto
dei Tumori, quando, nei giorni che precedettero la sua morte,
ho visto gli amici di Antonella coccolarla fino all'ultimo,
parlarle anche quando tutti dicevano che era inutile, sorriderle,
tenerle la mano, accarezzarla. E non c'era disperazione.
Era passare tutti insieme una soglia.
Soglia della bellezza può essere, se hai occhi, la
mamma che questa estate in alta montagna leggeva nel sole
sulla sdraio un libro, nel passeggino accanto un bambino
mongoloide tenerissimo riposava. Gli occhi sembravano guardare
dentro, a solcare il mistero.
Non va ricercata la bellezza lungo i sentieri della ricercatezza
e nemmeno dietro quelli dell'imponenza.
Un libro uscito in questi anni negli Stati Uniti a coloro
che sono in ricerca e provano disagio in solenni liturgie,
case vuote disabitate, dà un consiglio: "Prova
questa variante: va a Messa durante un giorno feriale. C'è
un'atmosfera diversa, più intima, con poca gente.
La cripta di un convento, la piccola cappella in una città
e anche la tua stessa parrocchia, la messa si rivela spesso
in modo inaspettato. Potresti chiudere gli occhi ed immaginare
l'ultima cena. E tu sei là, intorno alla tavola.
E hai proprio ragione
Tu sei là".
Soglia della bellezza può essere in un giorno d'estate
il volto di una creatura che ami, la donna che Dio ti ha
portato un giorno nel sonno e che ora finalmente hai il
dono di contemplare, quasi una soglia di Cristo, della sua
bellezza.
Ho letto con emozione quest'estate in un biglietto di un
amico: "Anche oggi, come ventisette anni fa, in tempi
di contestazione, hai chiesto di rispondere alla domanda:
'Chi dici che io sia?'. Mi appiglio al presente. Annamaria
che guarda e sorride e poi cammina alla messa. Il suo sorriso,
il suo vestito leggero di seta a fiori. È troppo
facile ripeterti così. È così. Ma come
posso rispondere oltre i suoi occhi, oltre il suo sguardo,
il suo sorriso, la sua bocca? La sua grazia. Silenziosa
e morbida. Così. Foglie morbide, morbide e rosa,
onde".
La bellezza nel frammento. Anche la bellezza di Dio sulla
croce si è ristretta nel frammento, Avere occhi per
contemplare. Scendere dal monte non significa abbassare
la poesia. Ma portare nella carne la gloria.
don Angelo Casati
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