TESTIMONI
DELLA BELLEZZA CHE SALVA
Se mi permettete vorrei fare due premesse:
la prima riguarda voi, voi che siete qui questa sera a riflettere
sulla "bellezza che salva", ed è come se
i miei occhi cogliessero in voi una bellezza. Che cosa bella
che voi ci siate, e siate qui questa sera, dopo una giornata
che solo posso tentare di immaginare: l'ora in cui vi siete
alzati, e poi un impegno, un altro
, e ancora la forza
di essere qui questa sera ad ascoltare un parroco.
Ecco
un parroco, questa è la seconda premessa:
che bello che io sia stato preceduto da chi invece ha titoli
accademici, questo mi rincuora, perché il mio intervento
che è più modesto -sono un frequentatore non
delle Facoltà ma delle storie della gente- questo
mio intervento certamente più modesto e parziale
è sostenuto dal rigore intellettuale di chi mi ha
preceduto. E questo mi dà coraggio a parlare, un
parlare che forse è un raccontare.
Il
titolo che mi è stato affidato va ad esplorare il
territorio del terzo momento della lettera del nostro Cardinale,
che ha come icona la Trasfigurazione, il momento della discesa
dal monte e porta questo titolo: "Testimoni della bellezza
che salva".
Un titolo un po' desueto nel vocabolario ecclesiastico,
nei documenti ecclesiastici, dove per lo più ci viene
detto: "dovete essere testimoni della morale, testimoni
della verità
", quasi una verità
e una morale senza bellezza.
E l'esito purtroppo è: come sono noiosi questi testimoni
della verità, di una verità gelida, senza
sussulti.
E l'esito purtroppo è: come sono pesanti questi testimoni
della morale, che hanno l'aria del figlio maggiore della
parabola, che concepisce lo stare nella casa del padre come
un dovere, un precetto.
Avendo
dimenticato la testimonianza della bellezza, non siamo sfuggiti
-così mi sembra- a questo rischio della noia e della
pesantezza.
Abbiamo confuso la radicalità del Vangelo con la
pesantezza: il volto dei testimoni spesso non è quello
dell'illuminazione del monte, ma quello corrucciato dell'imposizione,
della lamentazione.
Testimoni senza bellezza: "esseri impacciati"
-scriveva più di cinquant'anni fa E. Mounier, e forse
ci fotografava- "esseri impacciati, che non si guardano
in faccia, che camminano con gli occhi al suolo, che pesano
e misurano il gesto al millimetro
eroi linfatici,
vasi di noia, sacchi di sillogismi, ombre di ombre
".
E Péguy, trent'anni prima, ne aveva indagata l'anima
e scriveva: "perché non hanno la forza di essere
della natura, credono di appartenere alla grazia, perché
non hanno coraggio temporale credono di essere penetrati
dall'eterno, perché non possono appartenere al mondo
che li rifiuta credono di appartenere a Dio".
Testimoni senza bellezza.
E la cosa è sconcertante, perché la pianura
-il mondo- la pianura che attende i discepoli che scendono
dal monte, è un territorio dove, al dire di qualcuno,
l'unica sensibilità rimasta è la sensibilità
per la bellezza.
"Il mondo moderno" -ha scritto lo scrittore russo
Solgenitzin- "il mondo moderno essendogli franato contro
il grande albero dell'essere, ha spezzato il ramo del vero
e il ramo della bontà, solo rimane il ramo della
bellezza. Ed è questo ramo che ora dovrà assumere
tutta la forza della linfa e del tronco".
Senza bellezza non c'è appuntamento con il nostro
tempo.
Vorrei subito dire che la bellezza che siamo chiamati a
testimoniare non è il risultato di un'operazione
di maquillage.
Oggi -perdonate la nota polemica- ci sono troppe operazioni
che lasciano più di un sospetto nella chiesa, verniciature
esterne, c'è un agitarsi nell'organizzazione, la
regia degli spettacoli religiosi.
Manca -e i più lucidi l'avvertono- manca un'incandescenza,
che parli dai volti, l'incandescenza di qualcosa che ti
è accaduto e ti ha acceso il volto, ti ha cambiato
la faccia.
Sul monte Gesù ha cambiato volto, ma anche i discepoli
dal monte scendevano come trasfigurati.
Succede a volte -e voi ne siete testimoni- che uomini e
donne cambino faccia. Li guardi e ti viene spontaneo chiedere
loro che cosa sia accaduto. Spesso ti senti dire che si
sono innamorati. Pensate che bello se anche noi cristiani
potessimo essere interrogati per il nostro volto, per il
brivido del nostro volto.
Ho come l'impressione che a volte gli uomini di chiesa siano
tentati, come Mosè, di mettere un velo sul loro volto,
non tanto nel tentativo di contenerne l'irraggiamento, quanto
invece nel tentativo di far immaginare agli altri chissà
quale luminosità e di nascondere i nostri improvvisi
depauperamenti, offuscamenti. Le distanze, le bardature
ecclesiastiche, la inaccessibilità per nascondere
l'assenza e il vuoto.
E
c'è subito un altro rischio da cui mettere in guardia
noi stessi: luminosi, non perché andiamo sotto i
riflettori, ma luminosi della bellezza del monte e cioè
della bellezza del Pastore bello. Bello affascinante, emozionante
nel suo consegnarsi senza condizioni a noi, a noi non perché
siamo puri, perfetti, ma perché siamo amati.
È questa la bellezza che salva, la bellezza di chi
si consegna. Di questa bellezza dunque essere testimoni.
Noi lo dimentichiamo e pensiamo che la bellezza e la forza
della testimonianza di una chiesa siano nella ricerca di
posti di privilegio o di potere e non invece nell'amore
disarmato del suo Signore.
Basterebbe riprendere in mano il Vangelo, il Vangelo di
Luca, per esempio, e continuare la lettura del capitolo
della Trasfigurazione. Incroceremmo tre episodi significativi:
" il rammarico dei discepoli perché non gli
riesce di fare miracoli sugli indemoniati,
" la discussione tra di loro su chi fosse più
grande, questioni di primato,
" la gelosia perché anche al di là della
loro cerchia qualcuno scaccia i demoni.
Siamo lontani dalla bellezza del monte, questa è
negazione della bellezza: è l'invasione della mediocrità,
del calcolo, delle rivalità, della meschinità
di cuore.
Vorrei
ora far tre brevi accenni ai tre territori della testimonianza
ricordati dal Cardinal Martini nella sua lettera.
Fare
esperienza della bellezza.
Fare esperienza della bellezza nella stanza interiore. "Maestro,
dove abiti?" "Venite e vedrete". Senza questa
dimora nel segreto, chiusa la porta, non ci sono accensioni
vere del volto, ci sono fuochi di paglia, c'è teatralità.
La liturgia stessa, la divina liturgia, dovrebbe risplendere
di bellezza.
Scrive l'Arcivescovo:
"Essa dovrà risplendere anche nella liturgia.
Quanto è importante una celebrazione liturgica che
nei tempi, nei gesti, nelle parole e negli arredi riflette
qualcosa della bellezza del mistero di Dio!
Ogni volta, nel cuore della celebrazione eucaristica, l'esclamazione
"mistero della fede" scaturisce dallo stupore
consapevole dell'orante, quando lo splendore della verità
gli si manifesta in pienezza. Dopo aver compito ciò
che il Signore Gesù ha comandato agli Apostoli di
ripetere "in memoria di Lui", gli occhi della
fede si aprono, come quelli dei discepoli di Emmaus (cfr.
Lc 24, 30-31) e confessiamo con stupore e gratitudine il
"mistero della pietà" (cfr. 1 Tim 3, 16).
La Bellezza si svela nel mistero di Cristo culminante nella
Pasqua: la celebrazione eucaristica ne costituisce il memoriale.
L'esigenza del celebrare bene si radica in queste convinzioni.
I ritmi di parola, silenzio, canto, musica, azione nello
svolgersi del rito liturgico contribuiscono a questa esperienza
spirituale" ( pagg. 42-43).
Purtroppo, dobbiamo confessarlo, la liturgia stessa vive,
a volte, in parole lontane da ogni sussulto di vita, da
ogni sussulto del cuore. Si riduce a teatro, teatralità
vuota, coreografie perfette ma senz'anima. Parole proclamate,
canti urlati, nell'assenza di occhi che scrutano dalla soglia
e adorano.
Purtroppo, a volte, anche per quanto riguarda la liturgia,
la bellezza ci si illude di raggiungerla lungo i sentieri
della ricercatezza o dell'imponenza.
Un libro, uscito lo scorso anno negli Stati Uniti, faceva
questa proposta a coloro che vivono il disagio di liturgie
solenni, ma disabitate, case vuote.
"Prova questa variante, va a Messa durante un giorno
feriale. C'è un'atmosfera diversa, più intima,
con poca gente. La cripta di un convento, la piccola cappella
in una città, e anche la tua stessa parrocchia
,
e la Messa si rivela spesso in modo insospettato. Potresti
chiudere gli occhi ed immaginare l'ultima cena. E tu sei
là, intorno alla tavola. E hai proprio ragione
tu
sei là".
Annunciare
la bellezza che salva.
La bellezza dell'annuncio nelle parole: abbiamo purtroppo
ereditato un'insopportabile "ecclesialese". Succede
di ascoltare discorsi noiosi, pesanti, asfissianti.
Dov'è la parola che fa ardere il cuore lungo il cammino?
Come ai discepoli di Emmaus.
Gli assetti dottrinali raramente fanno trasalire il cuore.
È il racconto che fa trasalire il cuore.
Gesù raccontava, non definiva. E il suo racconto
era pieno di vita, era attento alla vita, faceva parlare
la vita, la bellezza della vita. L'annuncio fatto da Gesù
è pieno di immagini.
Noi l'abbiamo spento.
Ed è una bellezza che Gesù scopre al di là
di confini molto precisi, ma ristretti.
Noi viviamo un certo soffocamento, dovuto al fatto di circoscrivere
la salvezza ai nostri confini, soffocamento dovuto alla
concezione dell'evangelizzazione come portare tutti dentro
la chiesa.
Di qui il soffocamento.
Nel Vangelo questa è una costante: le folle osannanti
sono spesso uno schermo; e, allora, beato chi sa arrampicarsi
come Zaccheo, chi sguscia tra la folla fino a toccarlo come
la emorroissa, chi scoperchia il tetto come i portatori
del paralitico. Qualcuno griderà anche oggi al disagio
per lo scoperchiamento del tetto.
Gesù chiamerà il gesto: fede.
Leggere
la fede là dove gli inquisitori non la sanno leggere,
hanno occhi e non vedono.
"Cogliere ogni nostalgia di bellezza": dice l'Arcivescovo
nella sua lettera.
"Unico mio senso religioso la nostalgia": scrive
Erri De Luca.
Occorre dunque risvegliare nostalgia, risvegliare le domande.
Sì,
la domanda. Coltivare le domande. La domanda apre, la risposta
chiude. Coltivare la bellezza che salva, quella di un Dio
che si dona. "rispettando e promuovendo con tutti la
bellezza come giustizia, pace e salvaguardia del creato".
Una città brutta, abbruttisce, una chiesa brutta
abbruttisce, così come abbruttiscono le architetture
che "non sono in grado di suscitare l'emozione propria
del mistero cui alludono".
"Condividere
il dono della bellezza significa inoltre vivere la gratuità
dell'amore".
Che bello uno che non calcola! È una novità
in un mondo che si muove solo per un calcolo.
"Condividere
il dono della bellezza che salva" significa ancora
costruire spazi dove, come nella Trinità, si viva
la ricchezza dei volti, e l'altro non come concorrente,
l'altro non sia vissuto come dipendente.
Lungo questa strada, con questa luce sul volto, saremo nel
mondo testimoni della bellezza contemplata sul monte.
don
Angelo Casati
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