Figure
dell'attesa: Elisabetta
Lc
1,39-56
In queste sere vorrei sfiorare con voi alcune figure dell'attesa.
Figure che stazionano in qualche modo nei dintorni della
nascita di Gesù, nomi che si accendono: Elisabetta, Maria,
il Battista, i pastori, Simeone e Anna.
Inizio con Elisabetta. Con Elisabetta, perché prima della
annunciazione nella casa di Nazaret, avvenne una annunciazione
a Zaccaria, marito di Elisabetta che officiava da sacerdote,
nell'ora dell'incenso nel tempio. Ebbene, perdonatemi se
io questa sera dimenticherò Zaccaria. Una buona volta metto
in secondo piano il maschile e riporto in primo piano, così
come mi riesce, una storia di donne.
Non
che la storia di Zaccaria, non abbia nulla da insegnarci.
Già è fessura il fatto che, non credendo alle parole dell'angelo
che annunciava nascita nel grembo di una donna sfiorita,
la sua, non credendo all'azzardo di quelle parole mescolate
a incenso, divenne muto. Quasi a dire che se non ci si affida,
se la vita è segnata prepotentemente dalla diffidenza, non
abbiamo più parole da dire, ma solo parole mute, che non
dicono nulla a nessuno.
Ma
c'è un motivo per cui vorrei parlare di Elisabetta, perché
di solito i racconti che riguardano uno o l'altro di noi,
le storie le facciamo incominciare dal giorno della nascita.
Dal giorno in cui uno viene, così siamo soliti dire, alla
luce. Ma la vita non nasce all'improvviso, ha bisogno di
un tempo per prepararsi. Chi ha aspettato un figlio lo sa.
Conosce le ansie, le meraviglie, le fatiche, i sudori e
lo stupore di quei nove mesi.
La
storia di Elisabetta la vorrei fermare questa sera ai tempi
dell'attesa, ai giorni invisibili del grembo. Mi è capitato
di pensare che raramente indugiamo a pensare ai giorni in
cui abbiamo dimorato nel grembo, alle trepidazioni e anche
alle fatiche da gonfiore che hanno accompagnato i nove mesi.
In uno scambio reciproco, in trasformazioni lievi ma tenere
dell'uno che è portato e dell'altra che lo porta. Raramente
sosto a pensare alle fatiche di quando mia madre saliva
scale ed io le pesavo dentro. Ai gradini, allora senza ascensori,
nella mia casa di Milano. Lei mi portava, forse anche mi
parlava. Le sono grato per i nove mesi.
Non
so se alla propria madre Gesù e il Battista, qualche sera
o qualche mattino, quando la luce ha la timidezza di un
intimo dialogare, abbiano chiesto dei loro nove mesi nel
tepore. Se scalciavano o se stavano quieti in attesa. Di
Elisabetta nel vangelo si fa una prima menzione per dire
che lei e suo marito erano giusti davanti a Dio, osservanti
fedeli delle leggi. E quasi con un po' di meraviglia, come
se non lo meritassero, si aggiunge che "non avevano figli
perché Elisabetta era sterile e tutte e due avanti negli
anni".
Poi
l'inaudito, un angelo porta annuncio di nascita a Zaccaria.
23"Compiuti
i giorni del suo servizio, tornò a casa. 24Dopo
quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta
per cinque mesi e diceva: 25"Ecco
che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si
è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini".
All'inizio, dice il racconto, per Elisabetta fu un portare
nel grembo. Tenendo quasi nascosto il rigonfiamento, le
era stata tolta la vergogna della sterilità.
Passano
cinque dei nove mesi, ma al sesto ecco un annuncio di nascita
per la sua cugina che al confronto era una ragazzina. Ed
Elisabetta rientra in scena, proprio quando quella sua cugina
molto più giovane, va a visitarla. E fu un incrociarsi di
grembi ricolmi. Sì, dopo l'annuncio dell'angelo il vangelo
racconta i giorni della visitazione. Perché Maria si mette
incammino in fretta verso la montagna di Giuda? Certo per
dare un aiuto alla cugina anziana che si era trovata incinta
nonostante l'età. Ma penso anche per un bisogno di raccontarsi,
di confidare un segreto. Donna dell'attesa che incontra
un'altra donna in attesa. Si abbracciano, si raccontano.
Certo, la forza di resistere nell'attesa, in attesa di eventi
così diversi da quelli che si aspettavano, loro la andavano
chiedendo a Dio, ma avevano anche bisogno - noi abbiamo
bisogno - di presenze amiche. Nell'attesa di eventi abbiamo
bisogno di raccontarci, soprattutto quando le attese sono
distanti da come le avremmo immaginate. Lei, donna incinta
per opera di Spirito santo, la cugina, incinta proprio nei
giorni in cui il suo grembo lo davano per disseccato!
La
storia delle due donne ci dice come non sia irrilevante
questo bisogno di comunicazione. E quindi non togliamo valore
e urgenza anche al bisogno che pure noi abbiamo di creature
con cui confidarci reciprocamente le attese. Mi sono detto:
se pensassimo alla grazia degli incontri, i nostri, che
custodiscono questa affascinante possibilità: di comunicarci
momenti di bellezza, di comunicarci racconti dello Spirito,
di comunicarci entusiasmo, gioia, consolazione, sostegno,
fedeltà! Accadimenti dello Spirito, occasioni per una nuova
pentecoste!
Leggo
il vangelo della visitazione e indugio all'immagine colma
di tenerezza delle due donne, Maria ed Elisabetta, abbracciate,
abbracciate in un momento di gioia intensa, abbracciate
l'una all'altra nella promessa di Dio e nella promessa della
vita. Leggo ma confesso che, in contemporanea, non mi riesce
facilmente di togliermi dagli occhi altre immagini, che
mi bussano da una cronaca quasi quotidiana, dove quasi ogni
giorno leggiamo di donne violate, stuprate, inseguite, uccise.
Storie
che raccontano l'offesa della dignità. Ogni due giorni un
femminicidio. Immagini contrastanti, abissalmente distanti,
contrapposte: l'abbraccio alla porta della casa di Elisabetta
e le sequenze dell'orrore dell'ultimo femminicidio. Come
se ogni giorno assistessimo all'insulto e all'aggressione.
Aggressioni alla vita che uccidono la speranza in un futuro
che sia promettente. Ci servono delle leggi, è urgente.
E che non si perda più tempo. Ma ci serve anche e soprattutto
una conversione.
In
termini più laici diremmo: ci serve, è urgente un cambio
di mentalità. Le due donne sull'uscio di casa ascoltano
la voce che viene dal grembo. Il bambino dell'una e dell'altra
fanno racconto, raccontano a loro, giorno e notte, che Dio
le ha guardate con benevolenza. C'è un segno anche nel loro
corpo, un segno nella carne. Dio non guarda l'apparenza,
ha fatto cose grandi in due donne, Maria ed Elisabetta,
umili e sconosciute.
Qui,
se non erro, sta la radice del rispetto, della salvaguardia
della dignità. Sta in questo leggere sempre comunque qualcosa
di grande nel piccolo. Il grande nel piccolo! Nel debole,
nell'indifeso, nel bisognoso di aiuto. Il rispetto della
dignità dell'altro sgorga dal tuo sguardo, uno sguardo che
legge l'altro, legge l'altra, non come vuoto, non come assenza,
ma come creatura abitata, creatura in attesa. Abitata da
qualcosa di grande! Che un giorno troverà l'ultima difesa
nel futuro di Dio.
Dovremmo
recuperare questo sguardo e questo rispetto, che pervadono
il racconto di ciò che avvenne quel giorno sull'uscio della
casa sui monti di Giuda. Avvenne come una pentecoste, un
flusso dello Spirito. E - a stupire! - una pentecoste non
in chissà quali spazi sacri o in forza di chissà quali riti
o preghiere, semplicemente per uno scambio di saluti, per
un sussultare dei corpi. Non sto fantasticando, è scritto:
"Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino
sussultò nel grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo".
È
stupefacente! E chi ce lo ha mai insegnato che a propiziare
discesa dello Spirito possono bastare parole semplici di
saluto, o può bastare uno sfiorarsi dei corpi, quasi un
rito laico, il rito del saluto, il rito dell'abbraccio,
sull'uscio di casa? A noi può succedere invece di attraversare
le soglie di casa come fossero vuote e di vivere i gesti
come fossero vuoti. Vuote le soglie, vuoti i gesti. I corpi
poi - altro che presenza dello Spirito! - li abbiamo a lungo
censurati come distanza da Dio. Mentre lo Spirito - dice
il racconto - deborda, deborda nei corpi.
Scrive
un teologo, psicanalista e poeta brasiliano, Rubem A. Alves:
"Abbiamo pensato di incontrare Dio dove il corpo finisce:
e l'abbiamo trasformato in bestia da soma, in esecutore
di ordini, in macchina per il lavoro, in nemico da mettere
a tacere, e così lo abbiamo perseguitato, al punto di far
l'elogio della morte come via verso Dio, come se Dio preferisse
l'odore delle tombe alle delizie del paradiso. E siamo diventati
crudeli, abbiamo permesso lo sfruttamento e la guerra. Perché
se Dio si trova al di là del corpo, allora al corpo tutto
può essere fatto" (Rubem A. Alves, Il canto della vita,
Qiqajon, 2013, p. 11).
Maria
ed Elisabetta si parlano come donne abitate. Fin nel corpo
abitate. E l'una sente, vede l'altra come un dono, un dono
immeritato: "A che cosa devo?". Sì, "a che cosa devo che
la Madre del mio Signore venga da me?" Con parole simili
Davide aveva un giorno accolto l'arca del Signore. Davide
in quel giorno uscì in una esclamazione: "Come potrà venire
a me l'arca del Signore? " (2 Sam 6,9). E ora, sull'uscio
di una casa, si odono quasi le stesse parole: "A che cosa
devo che la Madre del mio Signore venga a me?".
Dunque
arca della presenza di Dio nei tempi nuovi è una creatura.
Certo Maria, ma anche Elisabetta con quel figlio che sussulta
nella sua carne, ma poi ogni creatura, perché ogni creatura
- dovremmo ripetercelo - ogni creatura che incontriamo non
è il vuoto, è abitazione. È abitata da Dio. Portatrice di
dignità, di una dignità ineguagliabile e inviolabile. È
il sacro scritto nella carne, è una zolla del divino - perdonate
se mi esprimo così - una zolla del divino che ha preso dimora
nelle fibre più segrete dell'umanità. Della nostra terra.
E
sull'uscio di casa un canto, il "magnificat". È vero, il
canto di Maria, il "magnificat", non si è più spento. Da
allora, da quel primo giorno sulla montagna, ha invaso a
ondate le nostre chiese. È bello pensarlo. Di quel canto
sono colme le chiese. Ma non dobbiamo dimenticare - spesso
lo dimentichiamo - che quel canto è nato sulla soglia di
una casa, non in un luogo sacro, ma in un luogo laico, profano.
Non nell'aria austera di un tempio, ma in quella familiare
di una casa.
E
vorrei - lasciatemi dire - vorrei che non fosse derubato,
forse lo è stato, di questa sua tipicità: di essere un canto
dentro le case, dentro la vita. Come vorrei - lasciatemi
dire anche questo - che non fosse un canto derubato della
sua carica rivoluzionaria, perché le parole di Maria, che
attingevano a una conoscenza profonda delle Scritture ebraiche,sono
parole che vibrano di una sfida, la sfida della fede, che
canta un rovesciamento, il rovesciamento operato da Dio.
Che si abbassa, si china sulla storia degli umili.
"Ero
piccola" dice Maria "ha guardato la mia bassezza". Canto
che celebra non il gonfiarsi sterile delle ambizioni mondane,
ma il gonfiarsi tenero dei grembi delle donne. La storia
sembra andare in un'altra direzione. Sembrano vincenti l'arroganza,
la prepotenza, il denaro. Sembrano vincere quelli che si
innalzano. Ma Dio li fa bassi - così canta Maria - Dio li
fa bassi ed esalta gli umili. Che non sono, badate bene,
i remissivi, i paurosi, i timidi. Non appare tale Maria
nel suo canto. Gli umili hanno una loro forza, che non è
quella delle istituzioni, non è quella delle leggi, e tanto
meno quella delle armi, ma quella dello Spirito; per questo
non si piegano davanti a nessuno, perché adorano solo Dio.
Forse
meraviglia anche voi il fatto che Maria parli della vittoria
degli umili non al futuro, per lei Dio li fa già vincenti
sulla terra. Sono la benedizione di questa terra che si
regge per loro. Per loro che portano non paura ma consolazione.
Poi ci sarà per loro la terra futura.
don Angelo Casati
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