"Agli
amici di bose"
Non
è senza una certa emozione che prendo la parola.
In qualche misura mi sento spaesato, perché per me
questo luogo, Bose, non è mai stato il paese in cui
parlare, ma il paese in cui ascoltare e dunque mi sento
un po' fuori paese, fuori del paese dell'ascolto. Enzo ci
chiede di radunare qualche riflessione sull'eredità
che ci lascia questo lungo cammino di prete. In qualche
misura è un invito a riandare al cammino percorso.
E
così mi si affaccia alla memoria, e ne sento l'emozione,
il giorno in cui arrivai qui e tenni fra le mani la piccola
fune di una campanella: "suona" era scritto "e
qualcuno ti accoglierà, senza chiederti chi sei
".
Forse le parole non erano queste, ma il suono era questo.
La comunità monastica allora era il piccolo granellino
di senapa. Per vie inattese, che io chiamo grazia, mi fu
dato incrociarla.
Perché
parto di qui a dire qualcosa del cammino, perché
questa è una prima eredità lasciatami dagli
anni. La percezione della grazia: essere sfiorati da Dio,
dalla grazia, dalla bellezza del suo amore. Ricordate il
vangelo: il piccolo granello di senapa e l'albero che ospita
gli uccelli del cielo? Può essere cifra del mio cammino.
Vi confesso che, quando mi fermo a guardare l' albero, appena
lo osservo, mi riconosco nel granello di senapa. Credetemi
avverto tutta la sproporzione. A volte dico parole e qualcuno
viene a dirti che è rimasto toccato, ma erano piccole
parole. A volte mi fermo a meditare la parola di Dio e mi
sorprende un approfondimento, ma da dove viene? Faccio un
gesto e qualcuno intravede qualcosa del regno, ma chi lo
avrebbe immaginato? Ti senti piccolo, inutile servo. Non
c'è proporzione. E dunque un primo riconoscimento
è questo di essere nella dismisura: riconoscimento
di Dio, di un Dio che con me, con noi, usa questa dismisura.
La
sensazione è di essere stato accompagnato, di essere
oggi accompagnato. Salvato. Io salvato prima di tutti. Io
uomo come tutti. Per riprendere le parole del libro della
sapienza: io che "ho respirato l'aria comune, e sono
caduto su una terra uguale per tutti, levando nel pianto,
uguale a tutti, il mio primo grido". E dunque la dismisura
della grazia che trionfa nella piccolezza.
E
questa grazia, vorrei sottolineare, dentro i segni piccoli.
Noi siamo abbagliati dal colossale, dallo strepitoso. Oggi
come ieri, e forse più di ieri. Anche la comunità
di Corinto, come sapete era abbagliata dai segni eccezionali,
straordinari, strepitosi. E Paolo risponde: "forse
abbiamo bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione
per voi o da parte vostra? Siete voi la nostra lettera,
scritta nei vostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli
uomini. È noto infatti che voi siete una lettera
di Cristo, composta da noi, scritta non con inchiostro,
ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra,
ma su tavole che sono i cuori di carne" (2 Cor 3,1-3).
Vedete,
c'è sempre questo abbaglio che Dio debba rivelarsi
nel clamore, nello straordinario. Ma già l'Antico
Testamento ci ha raccontato di Elia che, sul monte, non
trova Dio nei lampi, nei tuoni, nella tempesta. Lo trova
in un sottile filo di vento, nel fruscio del silenzio. E
Gesù, pensate, ha raccontato Dio, svuotando se stesso
delle prerogative della sua divinità, facendosi uomo.
Ha raccontato Dio non nella ubriacatura della potenza, ma
nella vulnerabilità. Nella vulnerabilità della
nostra carne.
Questo
è lo stile di Gesù. Noi lo abbiamo messo da
parte, come i "super"di Corinto, quelli ammaliati
dai vip, vip di ogni colore, anche religioso. E andiamo
a cercare Dio nell'eccezionale, nel perfetto, nella forza.
Non nella debolezza. Nella debolezza di una vita così
com'è. Ma, così facendo, noi non testimoniamo
il vangelo. Sarà un' altra religione forse. Ma non
chiamiamola vangelo. Guardate che questo non avveniva solo
un tempo, nella chiesa di Corinto, ma avviene anche oggi,
nella nostra chiesa. Vi sembra che si guardi, che ci sia
attenzione per la lettera di Dio, quella scritta nella pelle
della gente? Per le realtà piccole e semplici in
cui è scritto il vangelo?
Ma,
ecco la domanda, chi scrive la lettera? La lettera che siete
voi? Non siamo noi preti, non siete stati scritti da noi:
"scritta non con nostro inchiostro, ma con lo Spirito
del Dio vivente". Noi preti, e anche coloro che abitano
questo monastero tanto caro al nostro cuore, tutti assistiamo
con stupore a questa sproporzione tra quel poco o quasi
niente che facciamo noi e le cose grandi che fa Dio. Dove?
Nei piccoli, nei bassi: "ha guardato la bassezza della
sua serva", la sua piccolezza, il suo niente.
Chiediamoci
allora: dove vanno i nostri occhi, a chi e a che cosa diamo
attenzione? Oggi siamo attratti da ciò che luccica,
da ciò che fa rumore. L'ossessione del grande. Anche
in campo ecclesiastico.
La
piccolezza, terra emarginata, creatura in esilio. Eppure
ti rimane a memoria, e non ti riesce di staccartela dagli
occhi e dal cuore, la parola di Gesù, che si emozionava,
si incantava davanti ai "piccoli" . E gli veniva
di benedire Dio: "Ti benedico, Padre, Signore del cielo
e della terra perché hai tenuto nascoste queste cose
ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli"
(Mt 11,21) . Il tesoro secondo Gesù è nella
terra della piccolezza. Noi, al contrario, contagiati dal
mito del successo, dell'esibizione, del colossale, scaviamo,
a perdita di tempo, in altri campi, alla ricerca del tesoro.
Con il risultato di estrarre tesori che sono fantasmi, volti
truccati, maschere d'umanità, storie senza i colori
dell'anima.
L'ossessione
del "grande", dell'esibito, dell'urlato ci fa
visitatori frettolosi, superficiali della terra, della terra
del vivere quotidiano. Passiamo e non vediamo o perché
c'è un mito sempre più in là da inseguire
o perché c'è uno dei tanti proclami ecclesiastici
da realizzare. Mentre intorno a te pulsa la vita: pulsa
nelle vene dei volti, nelle vene delle storie quotidiane.
Pulsa Dio: è storia sacra.
Se
hai questo sguardo affettuoso, ti potrai incantare per le
storie, le mille storie, di cui sei fatto partecipe ogni
giorno, dalla nascita alla morte. Solo che tu guardi. Lettera
di Dio sono i volti.
Sono
i volti dei neonati che le mamme ti portano, è quasi
una processione, dopo la Messa della domenica. Ti dicono:
"è giusto che questo cucciolo ti veda, dopo
averti ascoltato per tante domeniche nella mia pancia".
Sono la lettera di Dio. Leggila.
Lettera
di Dio, sono i ragazzi che ti cercano per annunciarti che
si vogliono sposare, vedi che si stringono. Vorresti far
sentire loro, sulla loro pelle, il sorriso di Dio, il Dio
che in principio, quando creò l'uomo e la donna,
si incantò a guardarli: "vide" è
scritto "che erano una cosa bella, molto bella"
(Gn 2,31).
Lettera
di Dio là dove scorgi avvicinamenti a Gesù,
perché la parola di Gesù, scrostata dalle
pesantezze umane, dal carico delle tradizioni ecclesiastiche,
ha avuto il potere di far sussultare il cuore.
Una
lettera di Dio ti è sembrato di ricevere il giorno
in cui una ragazza ti raccontò di suo padre da mesi
moribondo, che faticava ad andarsene. Giorni e giorni di
apparente incoscienza. Poi lei ebbe un presentimento, disse
al papà: "Papà, va tranquillo, alla mamma
ci pensiamo noi". Se ne andò leggero, come aspettasse
solo questo.
Lettera
di Dio anche i volti, a volte stanchi o gli occhi rigati
di tristezza e tu leggi quanta passione nel cuore. E vorresti
abbracciare.
Lettera
di Dio le mani della tua gente che nell'incavo del palmo
della mano accolgono il pane delle Cena dl Signore. Leggi
in quelle mani il segno di uno stupore e di una tenerezza
infinita per il mistero che arde nel pane.
Lettera
di Dio paradossalmente anche i troppi allontanamenti dalla
chiesa, allontanamenti che ti sembrano gridare l'attesa
di una chiesa meno interessata ai suoi privilegi, più
appassionata di vangelo, il nudo vangelo.
Ognuno
di noi potrebbe a lungo raccontare le tante lettere di Dio,
sconosciute a chi corre dietro i miti pallidi della grandezza.
Sconosciute a chi non ha tempo di indugiare a contemplare.
Sono
innamorato di Gesù e della sua vita. Gesù
passava, vedeva, si fermava. Non era della razza degli uomini
religiosi della parabola, che vedono e tirano diritto. Loro
hanno un programma troppo importante da realizzare! Diversa
la "pastorale" di Gesù, il suo modo di
costruire il regno di Dio. Era una "pastorale"
di volti. Il pastore, che vive i giorni e le notti delle
sue pecore, le conosce a una a una, si prende cura della
pecora madre, e di quella stanca, di quella ferita dalla
vita.
Gesù
ha seminato nel mio cuore un sogno. Così sogno. Che
la vita della chiesa non sia fatta di documenti, di infiniti
programmi, di altisonanti proclamazioni, ma di passione
per i volti.
D'altro
canto penso alle Scritture sacre che sono storie di volti,
penso alla vita di Gesù che fu un' osservatore di
volti, fino a rivendicarne la priorità: anche allora
si mettevano tante cose, troppe, prima del volto, e lui
diceva: "il sabato è per l'uomo non l'uomo per
il sabato"(Mc 2,27). Confesso una mia ritrosia nei
confronti dell'organizzazione, dell'eccedere dell'organizzativo,
questo ispessimento organizzativo che non permette o non
lascia tempo di vedere volti, di incantarci davanti ai volti.
Zaccheo trova le schiene degli osannanti che accompagnano
Gesù e si deve inventare un luogo di avvistamento,
un albero. Per Gesù Zaccheo è un volto, si
ferma. Lo chiama per nome. Mi pare di scorgere spesso questa
barriera. Ti verrebbe voglia di scoperchiare il tetto. Forse
anche oggi è da fare! Per calare il paralitico davanti
a Gesù. Sì, perché è in crescita
questo aspetto organizzativo: ad adempimento si aggiunge
ad adempimento e viene meno il tempo per la relazione.
Vi
dirò che anni fa, forse trenta, ero rimasto affascinato
dalla lettura di un libro di Italo Mancini, "Tornino
i volti", affascinato dalla sua riflessione che attingeva
a correnti di pensiero che si stavano affacciando, affascinato
dalla riflessione sul volto, un volto, lui diceva, da guardare,
da rispettare, da accarezzare, il volto la parte più
indifesa, più esposta. In questi anni mi sono chiesto
se in qualche misura la critica, rivolta alla società
che ha messo a centro del mondo l'essere, l' "io sono",
l'io dominatore, che cancella il volto dell'altro, l'io
prepotente, totalizzante, non potesse essere rivolta in
qualche misura anche alla nostra struttura ecclesiastica,
per una infedeltà al vangelo, al suo Signore Questa
cultura non ha contagiato segmenti della nostra pastorale?
È
così che mi si è acuita l'intuizione che il
vangelo passa attraverso l'ospitalità. Era la cosa
che mi aveva affascinato entrando per la porta di questo
monastero. Forse potremmo dire che uno si sente amico quando
si sente ospitato, in uno sguardo prima che in un luogo.
E vedo anche il pericolo che l'ospitalità, l'accoglienza
evangelica, sia interpretata o vissuta come un espediente,
come il trucco per passare l'evangelo e non come essa stessa,
nella sua incondizionatezza, essa stessa l'evangelo. "Gesù"
è scritto nei vangeli "accogliendo parlava del
regno di Dio". Nella versione liturgica della domenica
abbiamo cancellato l'inciso, che forse non è inciso,
"accogliendo"" E così si legge: "Gesù
parlava del regno di Dio alle folle". Peccato! Perché,
prima ancora che nelle parole, il regno traluceva da quella
accoglienza indiscriminata, incondizionata di Gesù.
Mi
è capitato spesso di chiedermi quale cura noi abbiamo
nella nostra vita oltre che nella nostra comunità
di questa dimensione che mi sembra epifania del vangelo,
l'accoglienza. Preoccupati di dire e di che cosa dire. Ma
a volte è un dire che non accoglie. Qui, a Bose,
siamo stati affascinati dal vangelo dell'ospitalità.
E
ospitare significa capire la sete. Qui, a Bose, io, penso
tutti noi ci siamo sentiti interpretati nella nostra sete.
E, a mia volta, la mia vita di prete è stata un sognare
e un chiedere a Dio di capire la sete.
Ho
detto sognare perché non sempre ci riesco, ma so
che la strada è questa. La strada è accorgersi
della sete che è nell'altro. E la potrai scoprire,
solo dopo averlo seguito, accompagnato. Lo saprai da lui.
Non imponiamogli i nostri bisogni spirituali.
Dove
va la sua sete? Questa domanda mi riporta al cuore un midrash,
un racconto della tradizione rabbinica che parla di Mosè:
"Fu
col gregge che il Signore lo mise alla prova. Osservano
i nostri maestri: una volta, quando Mosè pascolava
il gregge di Ithro nel deserto, gli sfuggì un capretto:
Mosè gli corse dietro sino alla fessura di una roccia.
Giunto là, il capretto si fermò davanti ad
una cisterna per bere. Quando Mosè gli fu vicino,
gli disse: "ma io non sapevo che tu corressi per la
sete! sei, dunque, stanco?" E, nel dire così,
se lo mise sulle spalle e continuò a camminare. Allora
il Santo, benedetto Egli sia, gli disse: "poiché
tu hai compassione e sai guidare il gregge degli uomini,
sono certo che saprai guidare anche il gregge del mio popolo
Israele".
Forse
potremmo accompagnare l'immagine della sete -capire la sete-
con uno dei sogni del Card. Martini sulla chiesa".
In stretta consonanza: "sogno" diceva "una
chiesa che parli dopo aver ascoltato e solo dopo aver ascoltato".
E la realtà, aggiungo io, è ancora lontana.
Lontana dal sogno del Cardinale.
E
se posso aggiungere un altro mio sogno, sogno una chiesa
più sbilanciata, come il suo Signore, verso chi è
fuori. Sì, perché un'altra eredità,
che mi porto nel cuore, è questa, è custodita
in quella parola paradossale del vangelo, che scuote tante
nostre appartenenze, la confessione di Gesù: "presso
nessuno in Israele ho trovato una fede così grande"
(Mt 8,18).
Vorrei
farvi questa confidenza: negli anni del Concilio, gli anni
di Busto Arsizio, in cui conobbi Enzo, accanto a lui conobbi
l'imprevedibilità dello Spirito. Ma in questi anni
purtroppo stiamo patendo questo barricarsi della chiesa
al suo interno, almeno nella sua immagine prevalente. Gesù,
so che sto per esagerare, era sbilanciato verso l'esterno.
Leggeva segni dello Spirito e s'incantava per le vie imprevedibili
dello Spirito. Lo Spirito come il vento: "il vento
soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove
viene e dove va" (Gv 4,8). E non è detto che
debba passare per i tempi che immaginiamo noi o negli esiti
previsti da noi, quasi che tutto debba essere sotto controllo
e fondamentalmente dentro l'istituzione. Questa mancanza
del controllo oggi è vissuta dalle gerarchie come
disagio, fatica, timore. Al contrario è grazia, è
salvezza, salvezza da ogni volontà di sequestro,
di imprigionamento, salvezza dalla pretesa di sapere tutto:
"sei qui, chi sei, quanto tempo ci stai?". Controllori
dello Spirito! Nei vangeli leggiamo di questi incontri affascinanti,
che cambiarono una vita: avviene l'incontro e poi non si
sa più niente: Zaccheo, la samaritana, e quanti altri,
che poi non ritroviamo nel registro dei frequentanti. L'etiope,
funzionario della regina di Etiopia, battezzato dal diacono
Filippo, senza nessuno dei nostri adempimenti canonici.
Battezzato al torrente. Aveva scoperto Gesù sul carro.
Poi scompare. Scompare nel segreto di Dio. I pastori, pensate,
quelli che vegliavano il gregge la notte della nascita!
E' necessario uno sbilanciamento e lo sbilanciamento è
verso chi è fuori secondo i nostri canoni. E' rimasto
qualcosa di questo sbilanciamento vissuto da Gesù?
In questa stagione ecclesiale siamo, secondo voi, sotto
accusa per questo, perché frequentiamo quelli che
sono fuori? Capite perché mi capita di sognare una
comunità che sia, come Gesù, criticata come
lui per questa sua vicinanza: perché mangia con i
pubblicani e i peccatori e coglie la loro sete. Pensate
la pena di quella porta della chiesa chiusa, chiusa al funerale.
Un simbolo!
Cogliere
la sete nell'altro e scoprire che è sete di Gesù.
Sono arrivato al cuore. Lui l'acqua zampillante. Ma il Gesù
dei vangeli, capite! Non quello addomesticato. Siamo arrivati
al punto che una chiesa parli di tutto fuorché di
Gesù, con documenti che parlano di tutto, con battaglie
fatte in nome suo, ma lontani dallo stile che lo qualificava.
Ci sentiamo dire, spesso, anche dal mondo laico. Ma parlateci
di Gesù. E qui vengo al cuore di ciò che il
cammino mi ha lasciato, e di cui sono grato a questa comunità
e al card. Martini, grato per l'acqua zampillante, custodita
nel pozzo. Perché ogni giorno di più vado
scoprendo che di questa acqua, della Parola di Dio, e di
Gesù, la parola fatta carne, il cuore, anche il cuore
di questa generazione, ha sete.
Mi
è capitato a volte di paragonare nel cuore Le Scritture
Sacre ai grandi invasi d'acqua, le dighe stupende che danno
emozione sui monti. Anni fa, quando avevo l'avventura di
passare l'estate nell'Alta Valtellina, oltre le torri di
Fraele, là dove vieni rapito per valli di ininterrotto
stupore, spesso mi succedeva di incantarmi davanti allo
spettacolo mozzafiato di gigantesche dighe, bacini immensi
d'acque di immensa potenza: a specchiarvisi erano le catene
dei monti. Senza quei bacini immensi sui monti, le nostre
valli sarebbero immerse per sempre nelle nebbie e nella
notte.
A
volte però lassù pativo un'altra emozione.
Mi perdevo a immaginare -agli occhi non era dato intravedere-
le segrete canalizzazioni delle acque nelle pareti dell'immensa
diga; e poi, più a valle, oltre le turbine, il ramificarsi
delle acque, quasi una ragnatela di canali che fanno verdissima
la valle. I prati -mi dicevo- vivono certo dei bacini, ma
vivono anche dei canali, che portano lontano, nei luoghi
più impensati, il miracolo delle chiare e fresche
acque.
E
così nel cuore, allo stupore per l'immenso bacino,
s'accompagnava e cresceva l'emozione per gli umili e segreti
percorsi. E a quelli vado legando l'immagine a noi cara
di questo monastero, che mette al centro le Scritture Sacre
e le riconsegna a noi, uomini e donne della valle. Superando
ogni separatezza.
In
questa luce vorrei evocare finendo un midrash sull'esodo.
Racconta il midrash:
"Ecco
a che cosa somigliava il pozzo che accompagnava gli ebrei
nel deserto: somigliava a un macigno, forato come uno staccio,
dai cui fori l'acqua zampillava, come se uscisse da un'ampolla.
Il pozzo girava, saliva e scendeva: saliva con loro sui
monti, scendeva nelle valli. Là dove gli ebrei prendevano
stanza, il pozzo si fermava in posizione elevata. L'acqua
allora sgorgava e saliva in alto in forma di colonna; ogni
principe scavava un solco col proprio bastone e ciascuno
faceva affluire l'acqua in direzione della propria famiglia
e tribù".
L'arte
è quella di scavare solchi perché arrivi l'acqua.
L'esperienza mi dice che non raramente succede che quest'arte
di scavare solchi sia più in persone che non frequentano
ambienti ecclesiastici che in quelli che vi stazionano.
Loro capaci di passare parola: Come la donna Samaritana.
Anche solo con un' interrogazione: "che sia forse il
Messia?" (Gv 4,29). Un passa parola che si serve per
lo più di mezzi semplici, di cose piccole, di voci
autentiche.
Benedetti
gli umili bastoni, benedetto il loro scavo, benedetto Dio
per il pozzo, il pozzo dell'acqua viva, che zampilla per
la vita eterna.
don
Angelo
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