El
Salvador
Il
popolo canta la sua liberazione
Forse
qualcuno ricorderà una canzone di Claudio Chieffo,
in voga nell'ormai lontano 1975: "Il popolo canta la
sua liberazione". Erano gli anni in cui in Europa si
andavano spegnando gli echi di rivoluzioni mai compiute,
mentre l'America Latina veniva sempre più stritolata
nella morsa di orribili dittature: dal Cile di Pinochet
al Guatemala di Ríos Montt, dal Nicaragua dei Somoza
all'Argentina di Videla... tutte cresciute sotto l'egida
dell'"Operazione Condor", un famigerato progetto
di repressione, ideato e coordinato dagli USA, costato tra
l'altro 300 mila desaparecidos (scomparsi) nell'intero subcontinente.
Dappertutto sorsero carceri clandestine, in cui la tortura
veniva praticata secondo le tecniche più diaboliche
e sofisticate, insegnate presso la "Scuola delle Americhe",
con sede a Panama, dove venivano addestrati migliaia di
ufficiali, venuti da ogni parte. Di conseguenza, i tentativi
d'insurrezione furono costanti e generalizzati; ma con le
sole eccezioni di Cuba, che aveva giocato d'anticipo, rovesciando
Batista nel 1959 e del Nicaragua, che riuscirà a
cacciare la dinastia dei Somoza nel luglio del 1979, dovranno
tutti aspettare le decadi successive, per passare attraverso
diverse fasi di pseudo democrazie. L'unico a non farcela
resterà El Salvador: nonostante 12 anni di dura guerra
civile ('80-'92) e 80.000 morti (tra cui l'arcivescovo Romero)
su una popolazione di ca. 4 milioni di persone, la sproporzione
tra il "pollicino del Centroamerica" e il potente
vicino del nord, che assisteva logisticamente ed economicamente
il dominio oligarchico-militare locale, era infatti insuperabile.
Così,
mentre gli altri poco alla volta riuscivano a rinascere,
El Salvador è andato sempre più sprofondando.
Un quarto della sua attuale popolazione è migrato
all'estero (ca. 2 milioni contro 6), mentre in patria si
conta che il 50% sopravviva, il 30% si arrangi con lavori
di fortuna e solo il 20% abbia un lavoro stabile. Tra costoro
però sarebbero già 24.000 i disoccupati a
seguito della crisi mondiale. L'idea più chiara della
situazione ce la offre il potere d'acquisto: a fronte di
un costo medio della vita di 762,78$ mensili (anche la moneta
nazionale, il Colon, è stato sostituito dal dollaro
USA), il salario minimo dell'industria è di 203,10$;
quello del commercio e dei servizi di 207,60$; quello delle
"Maquillas" (fabbriche di assemblaggio, in "zone
franche internazionali": le più diffuse) è
infine di 173,70$. El Salvador detiene inoltre il triste
primato percentuale della violenza, con 13 assassini al
giorno... Il tutto sotto il dominio incontrastato d'un partito
istituzionale, Alleanza Repubblicana Nazionalista (ARENA),
ininterrottamente al potere dal 1989, quando fu fondato
dal maggiore Roberto D'Aubuisson (mandante riconosciuto
dell'assassinio di Mons. Romero), in continuità con
il gruppo paramilitare ORDEN, uno dei cosiddetti "squadroni
della morte", da lui stesso creato in precedenza. Se
pertanto è difficile offrire in poche righe un quadro
completo della situazione, è ancor più difficile
rendere credibili le contraddizioni che talvolta la realtà
disvela. Così, se il principale eroe nazionale resta
indiscutibilmente Mons. Romero, a cui sono dedicate vie
e monumenti, nemmeno D'Aubuisson è privo di onori.
E se il 24 marzo gran parte del paese si ferma per festeggiare
l'anniversario del proprio pastore, profeta e martire, anche
il 23 agosto l'Assemblea Legislativa sospende i lavori,
per permettere ai deputati di commemorare il genetliaco
del loro fondatore, scomparso a sua volta nel 1992, un mese
dopo gli accordi di Pace. Su un piano diverso, troviamo
la stessa contraddizione nella contrapposizione economica
tra il paese reale, ridotto alla fame e la presenza di moltissimi
e modernissimi centri commerciali, che nulla hanno da invidiare
a quelli dei paesi sviluppati: a legittimazione delle più
comuni illazioni, che parlano di riciclaggio.
E'
in tale contesto storico, politico, economico e sociale,
che il 15 marzo scorso i salvadoregni sono tornati alle
urne. Noi eravamo presenti con una delegazione congiunta
dell'Associazione Oscar Romero (per intenderci: quelli del
Banchetto Equo e Solidale) e Pax Christi Italia, in qualità
di Osservatori Internazionali. Ed è stato alla sera,
uscendo dal Centro di votazione cui eravamo stati assegnati,
che mi è tornata alla mente quella vecchia canzone.
L'attesa infatti era carica di speranze, ma l'esperienza
dei brogli clamorosi cui avevamo assistito impotenti nel
2004, le ridimensionava parecchio. Di fatto, anche questa
volta non sono mancate intimidazioni, mesi di campagna violenta,
voti doppi, morti che "votavano", certificati
falsi, pullman di honduregni, guatemaltechi e nicaraguensi
portati a votare... in "virtù" del fatto
che, il voto non residenziale impedisce alla gente di riconoscersi.
A
fronte di tutto ciò però, vi erano anche delle
novità determinanti. La prima è stata una
maggiore consapevolezza e determinazione popolare, motivata
sia dalla disperata contingenza, che dalla popolarità
dello sfidante, Mauricio Funes. Il maggior partito d'opposizione,
il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale
(FMLN) - già confederazione di diversi gruppi guerriglieri,
trasformatosi in organizzazione politica, in seguito agli
accordi di Pace - aveva infatti scelto di candidare non
un politico di professione, ma un intellettuale, un giornalista
molto stimato dalla gente. Lo avevo conosciuto sette anni
fa, presentatomi da alcuni amici, proprio nella cripta dove
è sepolto Romero: era appena stato licenziato dalla
maggiore televisione locale, per la sua correttezza professionale,
ovviamente sgradita al regime. Un secondo elemento significativo
è stato rappresentato dal generale riposizionamento
politico dell'intera America Latina, che ha offerto ai più
un motivo di incoraggiamento. Infine, ma non ultimo, il
nuovo corso della politica statunitense.
E
il buon giorno si è visto dal mattino. Anzi, prima
ancora dell'alba, quando, giunti in loco, abbiamo trovato
una città blindata, ma anche una cortesia inattesa...
direi persino una certa premura nei nostri confronti. Tanto
che se i militari hanno rimosso i blocchi stradali per permetterci
l'accesso, i poliziotti ci hanno addirittura accompagnato
al Centro, per garantirci di arrivare in tempo (prima delle
5) a controllare le operazioni preliminari. Nel corso della
giornata avremmo poi scoperto l'arcano: l'ostinazione cerbera
dei ricchi nel ritenere "cosa propria" lo Stato
(evidentissima nelle reazioni scandalizzate della sera,
come se il voto l'avessero rubato nelle loro case) e l'ingordigia
di un accumulo senza misura, gli avevano ormai alienato
persino l'appoggio tradizionale della base e dei settori
intermedi dei corpi di sicurezza. Per questo la giornata
è trascorsa senza particolari problemi. La sera,
completato lo scrutinio, siamo finalmente usciti e allora
è successa la cosa più bella, indimenticabile,
ma anche più difficile da raccontare. Come esprimere,
infatti, l'emozione dell'essere avvicinati da molti, che
con la discrezione tipica dei contadini ci chiedevano sottovoce
se il sogno si fosse finalmente realizzato? Come non cogliere
quella sottile discrepanza tra sorrisi offerti e occhi umidi,
che in realtà tradivano il ricordo di volti: figli,
fratelli, genitori, amici... cui dedicare una vittoria,
frutto del loro sacrificio? Davvero in quel momento tutti
i martiri del Salvador erano tornati per festeggiare insieme.
Più tardi, un'amica mi ha mandato un sms con scritto:
"Questa sera Mons. Romero sorride al suo El Salvador
liberato". E davvero il popolo cantava la sua liberazione!
Poi
qualche ora d'apprensione: il Tribunale Supremo Elettorale
(TSE) tardava a comunicare i dati e quelli che uscivano
erano inverosimili. Era chiaro che ci stessero "riprovando".
Alle 20.40 però, inaspettatamente, per la medesima
strada da cui per decenni erano giunte cattive notizie,
è arrivata la svolta: il Segretario di Stato Statunitense
(Hillary Clinton) ha telefonato al TSE comunicando la totale
indisponibilità del suo governo a legittimare qualsiasi
broglio. Del resto gli occhi del mondo erano puntati sul
piccolo paese centroamericano, quale banco di prova della
nuova amministrazione USA. E fu la svolta. Adesso tocca
a Mauricio Funes compiere quello che ha tutta l'apparenza
d'un miracolo: con le casse statali vuote e i capitali in
mano a banche straniere deve rialzare il paese. Di fronte
ha due opzioni: quella di una radicale alternativa al modello
economico liberista, fin qui perseguito, come vorrebbe la
gente e il suo stesso partito o quella di un'alternanza
più morbida (noi diremmo riformista), come gli consiglierebbe
un certo realismo politico. Forse nessuna delle due è
pienamente praticabile, ma nemmeno trascurabile: un bel
rebus. Certamente le speranze poste su di lui sono esorbitanti
e forse persino eccessive. Ne parlavo con un vescovo amico,
che ne aggiungeva un'altra, del tutto particolare: "Adesso
anche il Vaticano avrà meno problemi a proclamare
santo Mons. Romero". E leggendomi nel pensiero, continuava
ridendo: "Certo non riuscirai a spiegare in Italia
perché la vittoria di un partito di sinistra, ex
guerrigliero, spiani la strada a un santo, ma
El Salvador
è anche questo!". Verissime entrambe le cose.
Comunque sia, tra mille contraddizioni e altrettante sfide,
per questo amato paese è finalmente sorta un'alba
nuova. Good morning, El Salvador!
Don
Alberto Vitali
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