Raccontiamoci
la vita per sconfiggere il virus della solitudine
Don
Angelo Casati, 88 anni, saggista e poeta, voce profetica
fra le più ascoltate a Milano, mi racconta come sta vivendo
questi giorni difficili.
Caro
angelo, stiamo vivendo una situazione che per molte generazioni
è una novità assoluta. c'è tanta paura. come stai tu davanti
alla paura?
"Sì,
caro Paolo, forse sta qui l'eccezionalità dei nostri giorni:
nel fatto che la paura è generalizzata e tutti in paura
per lo stesso evento. Per il resto penso che la paura faccia
parte della vita, ognuno ha le sue paure, chi più chi meno,
chi per una cosa chi per un'altra. come sto io? Non ho mai
pensato una vita esente da sentimenti di paura, né a una
traversata senza momenti di bufera. La guardo in faccia,
la mia e quella degli altri che fanno la traversata con
me. Non condivido l'opinione degli ecclesiastici che vedono
nella paura un sintomo di una fede minore. E non penso che
sia un segno di poca fede sentirne la presa sulla pelle.
Penso a Gesù che più volte invitava a superare la paura,
a non temere. Quando i suoi discepoli per furia di acque
e tempeste urlavano dalla barca e i gridi sembrano soffocati
dall'urlo delle acque. Eppure anche lui provò sentimenti
di paura, quando per esempio di fronte alla morte che ormai
incombeva, all'ombra notturna degli ulivi nell'orto 'cominciò
- dice il Vangelo - a spaventarsi e a sentire angoscia e
disse ai discepoli: 'l'anima mia è triste fino alla morte'.
Lo sento compagno delle mie paure e delle paure dell'umanità".
La
paura della morte può essere sconfitta? cosa diresti anche
a chi non crede?
"Posso
sbagliarmi ma il problema per me non è come sconfiggere
la paura della morte, che non sarà mai totalmente sconfitta,
non siamo meglio di Gesù, ma come affrontarla, come ricondurla
a una misura tale per cui non paralizzi la vita. Ricordo
che cinquant'anni fa un ragazzo di un liceo, quando in un'ora
di religione si era arrivati a parlare di paura della morte,
ci disse: 'a me il morire non fa problema, importante è
non morire da vivi'".
Che
cosa può aiutarci?
"Se
ritorno al racconto del giardino del Getsemani, a colpirmi
è il fatto che Gesù anche in quel momento dia a Dio il nome
di 'padre', come un estremo affidamento a un Dio che se
è padre non potrà abbandonare alla morte un figlio. Lo strapperà
allo strapotere della morte. Nella fragilità, a sostegno,
Gesù cercò il volto di Dio. Dobbiamo però, per debito di
verità, aggiungere che nel momento della fragilità lui cercò
anche volti di amici, senza minimamente velare questo suo
bisogno profondo di vicinanze anche umane. Mendicante di
amicizie e di affetti. Il racconto del giardino narra quel
suo andare in cerca degli amici e la desolazione di trovarli
addormentati, quasi non ci fossero. Per tre volte disegnati
nel racconto quei passi in ricerca, per tre volte raccontata
la delusione: 'venne e li trovò addormentati… Venne di nuovo
e li trovò addormentati… Venne per la terza volta e disse
loro: 'dormite pure e riposatevi. basta! E' venuta l'ora:
ecco il figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani dei
peccatori. Alzatevi e andiamo'. Non gli bastava Dio?
E' come se Gesù
ci raccontasse quanto preziosa sia la presenza di persone
che al di là delle parole, anche solo tendendoti la mano,
ti aiutino a non sprofondare nel buio. Pochi anni fa è stato
beatificato un prete, che è nella benedizione di tanti noi
milanesi e non solo, don Carlo Gnocchi. Lui, mesi prima
di morire chiese che fosse accompagnato da un amico, gli
fu vicino don Giovanni Barbareschi. una delle tante sere
in cui don Giovanni si accingeva a salutarlo, don Carlo
lo fermò, gli disse: 'va' via no, go paura'. 'non andar
via' gli disse 'ho paura'. Rimase con lui notte e giorno
sino alla fine. La mattina del 28 febbraio, ormai sotto
la tenda ad ossigeno, fece cenno a don Giovanni che mettesse
la sua mano sotto la tenda, gliela strinse con le poche
forze che aveva, poi disse: 'grazie per quello che hai fatto
per me: è bello morire con un prete amico vicino'. A vincere
il turbamento un amico. un bisogno del cuore cui dare, se
possibile, una risposta: avere mani che ci accarezzino,
quasi parabola e presentimento sulla terra delle mani di
Dio, che attendono oltre la porta. Dico questo bisogno mentre
assisto sempre più a una morte privata per esigenze mediche
di questa possibilità. A volte o spesso non se ne può fare
a meno, ma rimane la tragicità di questa nostre impossibilità
a onorare due urgenze tanto importanti: sicurezza e tenerezza.
Mi chiedi di chi non crede: potrebbe sperimentare in un
abbraccio, in una carezza, in una stretta di mano, in uno
sguardo che l'amore è più forte della morte; il pensiero
di aver amato può rasserenare il cuore. Scrive Giovanni
nella sua lettera: 'da questo sappiamo di essere passati
dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non
ama rimane nella morte'. Come a dire che è già morto da
vivo" .
Ricordi
nella tua vita esperienze simili a questa? Se sì, come le
hai vissute?
“Non
ricordo situazioni simili. Io poi penso che ogni situazione
ha dell’irripetibile. Ricordare eventi del passato è prezioso
per trarne motivi di coraggio, non per ricavare modelli.
Posso sbagliare ma ricorrere a modelli potrebbe svelare
una certa inerzia dello spirito a immaginare proposte nuove
che nascono dalla diversità dei momenti storici, mai sovrapponibili.
Non sarà che oggi ci viene chiesto un supplemento di immaginazione,
di fantasia, di creatività? Per riferirmi a un ambito più
ecclesiale – lo dico sottovoce – non sarà che l’aver messo
l’accento unicamente sulla celebrazione della messa – ‘via
la messa, via tutto’ – non avrà avuto come contraccolpo
anche quello di allontanarci dall’immaginare, in sua assenza,
altre esperienze? E non dall’alto. Mi sono emozionato in
questi giorni leggendo una mail che mi è giunta da amici
dopo la domenica della samaritana al pozzo. scrivono: ‘in
questo tempo di digiuno eucaristico ci ritroviamo con amici
in casa e spezziamo insieme la Parola, ascoltiamo la tua
omelia, spezziamo il pane e ci ‘riappropriamo’ di un buon
vino. Ieri abbiamo ascoltato tutti i testi con voce di donna.
Poi ceniamo insieme. Coronavirus momento di grazia rispettando
il dolore. Un abbraccio a distanza’. Una chiesa che immagina
e inventa”.
Il prezzo di questa pandemia lo stanno pagando soprattutto
le persone più deboli. Che effetto ti fa questo dato?
“Paradossalmente,
questa avversità che stiamo attraversando, rendendoci molto
preoccupati di noi stessi, può per disavventura oscurare
storie e storie, degli ultimi: quelli che non hanno accesso
alle nostre cure o ai nostri interventi di aiuto. Le fasce
più deboli sono in grave difficoltà, ma noi le ignoriamo:
siamo presi da altri pensieri. Giusto segno di sensibilità
mettere all’attenzione di tutti il lavoro indefesso e pieno
di dedizione dei nostri medici, degli operatori sanitari,
ma andrebbe riconosciuta la preziosità anche delle prestazioni
di coloro che ci permettono di sopravvivere, spesso fasce
deboli, che con il loro lavoro prezioso, donne e uomini,
spesso invisibili, senza nome, sostengono la nostra ste
di vita. Dobbiamo, con una certa tristezza confessare che
il coronavirus ha invaso con tale prepotenza la comunicazione
che – ce ne rendiamo conto o no – sta, cancellando storie
più lontane, pagine inquietanti, tragedie dei nostri giorni.
Basterebbe pensare alle donne, uomini, vecchi e bambini
siriani, proprio in questi giorni incolonnati ai confini
della Grecia, una processione laica di dolore infinito,
che bussa alle porte dell’Europa e non trova che respingimento.
Non vorrei che il coronavirus, al di là di una provocazione
immediata alla solidarietà, non la rattrappisse in una solidarietà
ristretta che non va a intaccare la mentalità purtroppo
incista, quella dei ‘nostri’, ‘prima noi’. Una solidarietà
ferita, amputata. E non aperta a chiunque abbia bisogno
di cura e di speranza”. Che città è la Milano di oggi che
vive chiusa a motivo del virus?
All'inizio
questa città ti spaventò, poi la amasti. cosa ti senti di
dire?
“Tu
ricordi, Paolo, la confessione di un mio spaesamento quando,
anni e anni fa da Lecco fui invitato dal card. Martini come
parroco a Milano. In verità non era spavento, era timore
che in una città la parrocchia finisse per essere terra
di anonimato. non fu così, la parrocchia divenne rete, rete
di relazioni, una rete che travalicò confini, anche quelli,
presunti tali tra credenti e non credenti o diversamente
credenti, una città che si accendeva agli sguardi. Da vecchio
prete, penso che la via del Vangelo sia questa, non quella
delle celebrazioni enfatiche o delle declamazioni ecclesiastiche
o politiche, modalità che, se non erro, Gesù non ha mai
fatto sue. Anche in questi giorni sentirti accolto anche
con la tua paura, sentirti accolto negli occhi di qualcuno,
negli occhi di Dio, per il quale tu sei pupilla, ma anche
negli occhi di chi vive e incontri fa la differenza. In
un mondo in cui – anche in questi giorni di apparente silenzio
– si stanno moltiplicando a dismisura le parole mi sembra
di poter dire che non conta il numero delle parole, conta,
come dice il Vangelo, la voce del pastore, il timbro della
voce in cui senti respirare un affetto e una vicinanza,
quel timbro inconfondibile che rende superflua la moltitudine
delle parole. Ti parrà strano, fuori dalla realtà ma la
città che torno a sognare è quella in cui ci si racconta.
Il racconto, anche di questi giorni, rompe la solitudine.
Meno fretta, meno marciapiedi stretti. E raccontarsi: l’immagine
è la panchina. Una mattina di una estate mi venne da scrivere:
ora
che i marciapiedi gridano
accorati alla ristrettezza,
sorte
amara è andare uno in fila all’altro
senza abbracciarsi,
senza raccontarsi,
quasi fosse divieto d’amore e di amicizia.
Inseguo da lontano la piazza
la panchina del raccontare.
Tu
mi capisci, è un’immagine. Una città dei racconti e della
panchina sconfigge il virus della solitudine. Ho sentito
di architetti che immaginano grattacieli che siano come
un paese, con spazi di un vivere comunitario, penso che
ogni quartiere debba averne l’immagine. Panchina e racconto.
Sedere sulle piazze e raccontarsi, di tutto, del cielo e
della terra, delle luci e delle ombre, degli umani e di
Dio, della vita e della morte, del nostro paese e del mondo
intero. Costruire piazze del racconto! Che grazia sarebbe!
Forse è ingenuità di un vecchio prete. Che con sorpresa
però ha colto una declinazione del suo sogno in parole luminose
di papa Francesco che evoca: ‘una città che non diventa
mero spazio di transito, ma una estensione della propria
casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato’. E
si sorprende alla bellezza: ‘quanto sono belle le città
che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di
spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento
dell’altro’”.
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