Cara
signora,ho visto questa mattina, sulle prime pagine di
molti quotidiani, una foto che La ritrae. Accovacciata
su un furgoncino aperto, scassato, uno scialle attorno
alla testa. Dietro di Lei si intravedono due bambine,
una più grande, con gli occhi sbarrati, spaventati,
e l?altra, piccola, che ha invece gli occhi chiusi: immagino
le sue due figlie. Accanto a Lei la figura di un uomo,
di spalle: suo marito, presumo. Nel suo volto, signora,
si legge un?espressione di imbarazzo misto a rassegnazione.
Vi stanno portando via da Ponticelli, zona orientale di
Napoli, dove il campo in cui abitavate è stato
incendiato. Sul retro di quel furgoncino male in arnese
- reti da materasso a fare da sponda - una scritta: ?ferrovecchi?.
Le scrivo, cara signora, per chiederLe scusa. Conosco
il suo popolo, le sue storie. Proprio di recente, nei
dintorni di Torino, ho incontrato una vostra comunità:
quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e dignità
in quei volti.
Nel nostro Paese si parla tanto, da anni ormai, di sicurezza.
È un?esigenza sacrosanta, la sicurezza. Il bisogno
di sicurezza ce lo abbiamo tutti, è trasversale,
appartiene a ogni essere umano, a ogni comunità,
a ogni popolo. È il bisogno di sentirci rispettati,
protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare
disponibilità e collaborazione nel nostro prossimo.
Per tutelare questo bisogno ogni comunità, anche
la vostra, ha deciso di dotarsi di una serie di regole.
Ha stabilito dei patti di convivenza, deciso quello che
era lecito fare e quello che non era lecito, perché
danneggiava questo bene comune nel quale ognuno poteva
riconoscersi. Chi trasgrediva la regola veniva punito,
a volte con la perdita della libertà. Ma anche
quella punizione, la peggiore per un uomo - essendo la
libertà il bene più prezioso, e voi da popolo
nomade lo sapete bene - doveva servire per reintegrare
nella comunità, per riaccogliere. Il segno della
civiltà è anche quello di una giustizia
che punisce il trasgressore non per vendicarsi ma per
accompagnarlo, attraverso la pena, a un cambiamento, a
una crescita, a una presa di coscienza.
Da molto tempo questa concezione della sicurezza sta franando.
Sta franando di fronte alle paure della gente. Paure provocate
dall?insicurezza economica - che riguarda un numero sempre
maggiore di persone - e dalla presenza nelle nostre città
di volti e storie che l?insicurezza economica la vivono
già tragicamente come povertà e sradicamento,
e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella
speranza di una vita migliore.
Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un?immagine.
È come se ci sentissimo tutti su una nave in balia
delle onde, e sapendo che il numero delle scialuppe è
limitato, il rischio di affondare ci fa percepire il nostro
prossimo come un concorrente, uno che potrebbe salvarsi
al nostro posto. La reazione è allora di scacciare
dalla nave quelli considerati ?di troppo?, e pazienza
se sono quasi sempre i più vulnerabili. La logica
del capro espiatorio - alimentata anche da un uso irresponsabile
di parole e immagini, da un?informazione a volte pronta
a fomentare odi e paure - funziona così. Ci si
accanisce su chi sta sotto di noi, su chi è più
indifeso, senza capire che questa è una logica
suicida che potrebbe trasformare noi stessi un giorno
in vittime.
Vivo con grande preoccupazione questo stato di cose. La
storia ci ha insegnato che dalla legittima persecuzione
del reato si può facilmente passare, se viene meno
la giustizia e la razionalità, alla criminalizzazione
del popolo, della condizione esistenziale, dell?idea:
ebrei, omosessuali, nomadi, dissidenti politici l?hanno
provato sulla loro pelle.
Lo ripeto, non si tratta di ?giustificare? il crimine,
ma di avere il coraggio di riconoscere che chi vive ai
margini, senza opportunità, è più
incline a commettere reati rispetto a chi invece è
integrato. E di non dimenticare quelle forme molto diffuse
d?illegalità che non suscitano uguale allarme sociale
perché ?depenalizzate? nelle coscienze di chi le
pratica, frutto di un individualismo insofferente ormai
a regole e limiti di sorta. Infine di fare attenzione
a tutti gli interessi in gioco: la lotta al crimine, quando
scivola nella demagogia e nella semplificazione, in certi
territori può trovare sostenitori perfino in esponenti
della criminalità organizzata, che distolgono così
l?attenzione delle forze dell?ordine e continuano più
indisturbati nei loro affari.
Vorrei però anche darLe un segno di speranza. Mi
creda, sono tante le persone che ogni giorno, nel ?sociale?,
nella politica, nella amministrazione delle città,
si sporcano le mani. Tanti i gruppi e le associazioni
che con fatica e determinazione cercano di dimostrare
che un?altra sicurezza è possibile. Che dove si
costruisce accoglienza, dove le persone si sentono riconosciute,
per ciò stesso vogliono assumersi doveri e responsabilità,
vogliono partecipare da cittadini alla vita comune.
La legalità, che è necessaria, deve fondarsi
sulla prossimità e sulla giustizia sociale. Chiedere
agli altri di rispettare una legge senza averli messi
prima in condizione di diventare cittadini, è prendere
in giro gli altri e noi stessi. E il ventilato proposito
di istituire un ?reato d?immigrazione clandestina? nasce
proprio da questo mix di cinismo e ipocrisia: invece di
limitare la clandestinità la aumenterà,
aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere,
paure.
Un?ultima cosa vorrei dirLe, cara signora. Mi auguro che
questa foto che La ritrae insieme ai Suoi cari possa scuotere
almeno un po? le nostre coscienze. Servire a guardarci
dentro e chiederci se davvero questa è la direzione
in cui vogliamo andare. Stimolare quei sentimenti di attenzione,
sollecitudine, immedesimazione, che molti italiani, mi
creda - anche per essere stati figli e nipoti di migranti
- continuano a nutrire.
La abbraccio, dovunque Lei sia in questo momento, con
Suo marito e le Sue bambine. E mi permetto di dirLe che
lo faccio anche a nome dei tanti che credono e s?impegnano
per un mondo più giusto e più umano.
LUIGI
CIOTTI