UNA
SPIRITUALITA' DELLA RELAZIONE E DEL PROVVISORIO
Nulla
è scontato. Neppure il titolo di un articolo che ti viene
affidato e che ora cerco di esplorare come un viandante
che ha occhi consumati dall'età e dalla non conoscenza.
Confesso che già mi incuriosisce l'accostamento delle parole:
spiritualità-relazione, spiritualità- provvisorio. Non sono
infatti così lontani i tempi - perdurano le derive - in
cui la spiritualità veniva declinata come distacco o come
perfezione assoluta. Quasi che un cammino spirituale si
accompagnasse inesorabilmente a una rarefazione delle relazioni
umane per attingere a quelle divine, a un loro estenuarsi
in vista di un più intenso rapporto con Dio. O come se la
spiritualità fosse legata alla costruzione di mostri della
perfezione che guardavano dall'alto in basso la fragilità
degli umani e le piccole cose della vita. Mi chiedo se abbiamo
talmente superato il fraintendimento o se permane l'immagine
di uomini e donne dello spirito inaccessibili nella loro
superiorità, fondamentalmente disincarnati. Dovremmo stare
in guardia da una spiritualità che non sfiora la relazione
con l'altro, relazione che è fatta di anima e di corpo,
di gesti abitati dallo spirito. Faremmo un torto grave allo
Spirito relegando la sua azione ad ambiti privilegiati,
in netta totale dissonanza con le parole sacre che andiamo
ripetendo: "Del tuo spirito, Signore, è piena la terra".
lo non so dare, lo confesso, una vera definizione di spirituale.
Mi è più facile dire che spirituale è, per me, la percezione
dei mistero, dei mistero buono, della presenza dello Spirito
di Dio, del suo soffio che abita la vita, che abita l'altro,
che abita me. Questo soffio buono, promettente, questo mistero
buono, questa presenza buona che abita le cose, abita le
persone. E c'è in ogni uomo, in ogni donna. Questo soffio
di Dio che ci fa viventi quaggiù e anche oltre, un fuoco
buono che è acceso nell'altro per tutto il corso della sua
vita, una brace buona, spesso silenziosa. Spiritualità è
forse avere occhi per questo mistero buono che ci abita
e lasciarci condurre. È come intuire che le cose sono abitate.
Nella relazione dunque c'è il soffio del Dio creatore, che
nell'in principio disse. "Non è bene che l'uomo sia solo".
Del Dio creatore che ci ha fatto a sua immagine, a immagine
di lui, che non è la solitudine. I nomi con cui chiamiamo
Dio, con cui Gesù ci ha invitato a nominarlo, sono nomi
che cantano la relazione, non sono nomi di solitudine: padre
non è un nome di solitudine, figlio non è un nome di solitudine,
Spirito non è un nome di solitudine, i nomi chiamano immagini
di fuoco e non di gelo. Dietro i nomi il mistero di una
vita che non è solitudine né isolamento né assenza di passioni,
è relazione. Una relazione che chiama relazione. Che chiede
che tu entri in relazione. A volte ci domandiamo che cosa
è grande e che cosa è piccolo nella vita Te lo chiedi e
ti ripassano nella mente volti di cosiddetti "grandi", volti
senz'anima, monumenti del nulla, paesi senza tenerezza.
Il mistero di Dio rimette in discussione schemi mentali
abusati, costumi di vita che privilegiano grandezze puramente
esteriori, di facciata. Ci mette in guardia da pericoli
che sono in agguato: Il lavoro, la carriera, il successo
possono a tal punto risucchiarci da farci, non dico cancellare,
ma impallidire la relazione. Che vale guadagnare il mondo
intero, se poi perdi la relazione? Sta scritto nel Cantico
dei Cantici: "Se uno desse tutte le ricchezze della sua
casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio"
(8, 7). "Che cosa resta?" - si chiede Maurice Bellet, un
prete psicanalista francese - "Cosa resta quando non resta
niente? Questo: di essere umani verso gli umani, che fra
noi dimori il fra noi che ci rende uomini. Perché se questo
venisse a mancare, noi cadremmo nell'abisso, non tanto del
bestiale, quanto dell'inumano o del disumano, il mostruoso
caos di terrore e di violenza dove tutto si disfa" (Incipit
o dell'inizio, Servitium, pp.13-14). E non è un pericolo
astratto, è cronaca. La relazione, dunque! Si può purtroppo
stare in casa senza esserci, si può stare in un amore senza
esserci, si può percorrere una strada senza esserci, come
se nulla accadesse. O puoi stare in una casa, in un amore,
puoi percorrere una strada, entrando in relazione con ciò
che odori, vedi, e ascolti. Ebbene gli spiriti più lucidi
del nostro tempo avvertono che in questa nostra stagione
è in agguato il pericolo di un affanno per le cose, per
i nostri impegni, un affanno divorante che può devastare
una vita, anche un amore, una famiglia, rubando tempo, attenzioni,
energie, tenerezze alla relazione. Che è la vera ricchezza
della vita. Un affanno che non ci lascia più il tempo dell'incantamento
per Dio, per l'anima, per chi ci sta accanto, per chi incontriamo.
Lo spirituale è dentro i gesti: sacramento sono quelle mani,
sono un segno buono di Dio. Sacramento è quello sguardo,
sacramento è quella casa. È sacramento di Dio, c'è Dio.
È dentro quelle case, è dentro quelle mani. Starei per dire
che nella relazione con l'altro entri, prima ancora che
per quello che dici, per quello che tu sei. Potremmo forse
dire che la spiritualità della relazione ha inizio nello
sguardo. Scrive Christian Bobin: "quando ero invitato da
qualche parte, io non entravo in una casa. Entravo negli
occhi delle persone. Non vedevo il resto ( Il Cristo dei
papaveri, La Scuola editrice, Brescia 2016, p.26). Se da
un lato la parole "spiritualità" si accompagna alla parola
"relazione" dall'altro si accompagna, come ad amico fedele,
alla parola "provvisorio", si accompagna senza disprezzo
del lato debole, fragile, consumato della vita, si accompagna
all'"umano" della vita, un "umano" che per definizione porta
il segno del limite. Dando dunque senso e valore al limite,
al provvisorio. La spiritualità evoca ai nostri occhi l'immagine
di un Dio che nell'Antico Testamento si è raccontato come
il pastore che rallenta il passo, ha un pensiero per chi
fatica: "Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con
il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e
conduce pian piano le pecore madri" (Is 40,11). Dobbiamo
riconoscere che Gesù ha dato piena evidenza a questa spiritualità
che si china sulla vita degli umani, sulla vita così com'è,
una vita segnata dalla provvisorietà. Si incantava ai piccoli,
fasciava canne incrinate, dava una goccia d'olio agli stoppini
in tremito di estinzione. Un giorno raccontandoci di Dio,
evocò il Padre che si prende cura dei gigli del campo. Chissà
quante volte lui si era fermato a contemplare nidi di passeri
o chiazze di colore dei gigli, vestiti inarrivabili! Cosa
che più raramente facciamo noi oggi, consumati come siamo
dalla frenesia, dalla fretta. Dio si prende cura, Dio nutre,
Dio veste. E quanto al vestire penso che commuova tutti
noi il ricordo di Dio per l'erba. Gli uccelli dell'aria
e i gigli del campo ai nostri occhi sembrano avere più consistenza,
più plausibilità di essere ricordati e quindi di ricevere
cura. Ma l'erba del campo? Potrebbe sembrare così poca cosa!
Così precaria! "Ora, se Dio veste così l'erba del campo
che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto
più per voi, gente di poca fede?". La cura di Dio per l'erba,
oserei dire per un filo d'erba, mi fa pensare e mi commuove.
E forse a qualcuno può ritornare alla memoria un racconto
di Pirandello dal titolo "Canta l'epistola" e l'incantamento
di Tommasino, la sua passione per la storia di un filo d'erba,
dietro la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto:
"Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi
lo custodiva con l'anima e col fiato; e, nel lasciarlo,
la sera, lo affidava alle prime stelle che spuntavano nel
cielo crepuscolare, perché con tutte le altre lo vegliassero
durante la notte". Quasi una icona della cura che Dio ha
per un filo d'erba. E, dietro l'immagine dell'erba, ognuno
di noi, colto nella sua piccolezza infinita - mi si perdoni
l'ossimoro!- , quella piccolezza su cui Dio si china, come
ci ricorda il libro del Siracide. Che cosa sono i giorni
dell'uomo? Fossero anche cento! "Come una goccia d'acqua
nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni
in un giorno dell'eternità. Per questo - notate, per questo
- il Signore è paziente verso di loro ed effonde su di loro
la sua misericordia". Mi sono chiesto se non è proprio questo
chinarsi di Dio sul filo d'erba, sulla nostra piccolezza
e fragilità, che ci libera dall'ossessione e dall'affanno
che ci consumano. Ci fanno resistenti a una società che
esibisce un mito devastante , quello della vita bella, integra,
ricca di successo. La vita o è così o non conta, Cronaca
anche di questi ultimi mesi: la protesta di genitori che
accanto all'albergo prenotato per le loro vacanze scoprirono
la presenza di una comunità di ragazzi disabili, avrebbero
disturbato la serenità dei loro figli "abili". Purtroppo
ci sono anche visioni cosiddette spirituali che, anziché
soffiare sulla brace dei cuore, sono come una sferzata di
gelo sulla brace. Modi di vedere lo "spirituale" da cui
stare lontani, perché spengono la brace. Scartano i frammenti.
Lui Gesù diceva "Raccogliete i frammenti!" (Gv. 6,12). Soffiava
sulla brace di ciascuno. Un insegnamento che trova eco,
eco a non finire, nelle parole di papa Francesco che ci
mettono in guardia da un mito devastante della perfezione
intesa come pratica dei precetti e ci fa dimenticare la
misura umana che non regge senza la misericordia. Il "tutto
subito" ha contagiato anche il mondo ecclesiastico e ci
fa incapaci di sostare ai germogli, incapaci di incantarci
al filo d'erba. O al piccolo seme che hai gettato e che
scompare. Forse era solo un sorriso. Anni fa un'amica mi
donò una riflessione di Sandro Rotili sul sorriso. "Il sorriso"
scrive "è sguardo indulgente, come dice Paul Celan, è uno
sguardo indulgente e misericordioso sull'altrui debolezza,
è lo sguardo di chi sa bene di essere altrettanto dolorosamente
afflitto dalla propria precarietà. La capacità di sorridere
sul proprio dolore, sul non senso, ha il potere di frenare
la caduta nel baratro della disperazione, da un lato, e,
dall'altro, di salvaguardare dal cinismo corrosivo della
disillusione. Impariamo dagli ebrei quella forma preziosa
di libertà che è l'autoironia, antidoto divino al veleno
del prendersi troppo sul serio. La vita, interpretata nella
luce di un sorriso sofferto, ci faccia scoprire che ognuno
è assoluto e assolutamente relativo. Lasciamo che ognuno
abbia il suo cammino abissale. Chiediamo al Signore di tutti
la pace e la capacità di venerare la bellezza del mondo
senza diventare esteti, venerare la verità senza diventare
fanatici, amare il bene senza diventare plumbei moralisti
mancanti di pietà, amare il mistero senza diventare troppo
devoti, accettare la contingenza e la fragilità senza andare
alla deriva. Forse proprio in questo "senza" è nascosto
quel sovrappiù di grazia che ci fa chiamare e riconoscere
fratelli, che ci fa dire che mai potremmo vivere gli uni
senza gli altri" (Quaderni di vita monastica 1999).
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