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Angelo Casati , su Servitium, dicembre 2016



UNA SPIRITUALITA' DELLA RELAZIONE E DEL PROVVISORIO

 

Nulla è scontato. Neppure il titolo di un articolo che ti viene affidato e che ora cerco di esplorare come un viandante che ha occhi consumati dall'età e dalla non conoscenza. Confesso che già mi incuriosisce l'accostamento delle parole: spiritualità-relazione, spiritualità- provvisorio. Non sono infatti così lontani i tempi - perdurano le derive - in cui la spiritualità veniva declinata come distacco o come perfezione assoluta. Quasi che un cammino spirituale si accompagnasse inesorabilmente a una rarefazione delle relazioni umane per attingere a quelle divine, a un loro estenuarsi in vista di un più intenso rapporto con Dio. O come se la spiritualità fosse legata alla costruzione di mostri della perfezione che guardavano dall'alto in basso la fragilità degli umani e le piccole cose della vita. Mi chiedo se abbiamo talmente superato il fraintendimento o se permane l'immagine di uomini e donne dello spirito inaccessibili nella loro superiorità, fondamentalmente disincarnati. Dovremmo stare in guardia da una spiritualità che non sfiora la relazione con l'altro, relazione che è fatta di anima e di corpo, di gesti abitati dallo spirito. Faremmo un torto grave allo Spirito relegando la sua azione ad ambiti privilegiati, in netta totale dissonanza con le parole sacre che andiamo ripetendo: "Del tuo spirito, Signore, è piena la terra". lo non so dare, lo confesso, una vera definizione di spirituale. Mi è più facile dire che spirituale è, per me, la percezione dei mistero, dei mistero buono, della presenza dello Spirito di Dio, del suo soffio che abita la vita, che abita l'altro, che abita me. Questo soffio buono, promettente, questo mistero buono, questa presenza buona che abita le cose, abita le persone. E c'è in ogni uomo, in ogni donna. Questo soffio di Dio che ci fa viventi quaggiù e anche oltre, un fuoco buono che è acceso nell'altro per tutto il corso della sua vita, una brace buona, spesso silenziosa. Spiritualità è forse avere occhi per questo mistero buono che ci abita e lasciarci condurre. È come intuire che le cose sono abitate. Nella relazione dunque c'è il soffio del Dio creatore, che nell'in principio disse. "Non è bene che l'uomo sia solo". Del Dio creatore che ci ha fatto a sua immagine, a immagine di lui, che non è la solitudine. I nomi con cui chiamiamo Dio, con cui Gesù ci ha invitato a nominarlo, sono nomi che cantano la relazione, non sono nomi di solitudine: padre non è un nome di solitudine, figlio non è un nome di solitudine, Spirito non è un nome di solitudine, i nomi chiamano immagini di fuoco e non di gelo. Dietro i nomi il mistero di una vita che non è solitudine né isolamento né assenza di passioni, è relazione. Una relazione che chiama relazione. Che chiede che tu entri in relazione. A volte ci domandiamo che cosa è grande e che cosa è piccolo nella vita Te lo chiedi e ti ripassano nella mente volti di cosiddetti "grandi", volti senz'anima, monumenti del nulla, paesi senza tenerezza. Il mistero di Dio rimette in discussione schemi mentali abusati, costumi di vita che privilegiano grandezze puramente esteriori, di facciata. Ci mette in guardia da pericoli che sono in agguato: Il lavoro, la carriera, il successo possono a tal punto risucchiarci da farci, non dico cancellare, ma impallidire la relazione. Che vale guadagnare il mondo intero, se poi perdi la relazione? Sta scritto nel Cantico dei Cantici: "Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio" (8, 7). "Che cosa resta?" - si chiede Maurice Bellet, un prete psicanalista francese - "Cosa resta quando non resta niente? Questo: di essere umani verso gli umani, che fra noi dimori il fra noi che ci rende uomini. Perché se questo venisse a mancare, noi cadremmo nell'abisso, non tanto del bestiale, quanto dell'inumano o del disumano, il mostruoso caos di terrore e di violenza dove tutto si disfa" (Incipit o dell'inizio, Servitium, pp.13-14). E non è un pericolo astratto, è cronaca. La relazione, dunque! Si può purtroppo stare in casa senza esserci, si può stare in un amore senza esserci, si può percorrere una strada senza esserci, come se nulla accadesse. O puoi stare in una casa, in un amore, puoi percorrere una strada, entrando in relazione con ciò che odori, vedi, e ascolti. Ebbene gli spiriti più lucidi del nostro tempo avvertono che in questa nostra stagione è in agguato il pericolo di un affanno per le cose, per i nostri impegni, un affanno divorante che può devastare una vita, anche un amore, una famiglia, rubando tempo, attenzioni, energie, tenerezze alla relazione. Che è la vera ricchezza della vita. Un affanno che non ci lascia più il tempo dell'incantamento per Dio, per l'anima, per chi ci sta accanto, per chi incontriamo. Lo spirituale è dentro i gesti: sacramento sono quelle mani, sono un segno buono di Dio. Sacramento è quello sguardo, sacramento è quella casa. È sacramento di Dio, c'è Dio. È dentro quelle case, è dentro quelle mani. Starei per dire che nella relazione con l'altro entri, prima ancora che per quello che dici, per quello che tu sei. Potremmo forse dire che la spiritualità della relazione ha inizio nello sguardo. Scrive Christian Bobin: "quando ero invitato da qualche parte, io non entravo in una casa. Entravo negli occhi delle persone. Non vedevo il resto ( Il Cristo dei papaveri, La Scuola editrice, Brescia 2016, p.26). Se da un lato la parole "spiritualità" si accompagna alla parola "relazione" dall'altro si accompagna, come ad amico fedele, alla parola "provvisorio", si accompagna senza disprezzo del lato debole, fragile, consumato della vita, si accompagna all'"umano" della vita, un "umano" che per definizione porta il segno del limite. Dando dunque senso e valore al limite, al provvisorio. La spiritualità evoca ai nostri occhi l'immagine di un Dio che nell'Antico Testamento si è raccontato come il pastore che rallenta il passo, ha un pensiero per chi fatica: "Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri" (Is 40,11). Dobbiamo riconoscere che Gesù ha dato piena evidenza a questa spiritualità che si china sulla vita degli umani, sulla vita così com'è, una vita segnata dalla provvisorietà. Si incantava ai piccoli, fasciava canne incrinate, dava una goccia d'olio agli stoppini in tremito di estinzione. Un giorno raccontandoci di Dio, evocò il Padre che si prende cura dei gigli del campo. Chissà quante volte lui si era fermato a contemplare nidi di passeri o chiazze di colore dei gigli, vestiti inarrivabili! Cosa che più raramente facciamo noi oggi, consumati come siamo dalla frenesia, dalla fretta. Dio si prende cura, Dio nutre, Dio veste. E quanto al vestire penso che commuova tutti noi il ricordo di Dio per l'erba. Gli uccelli dell'aria e i gigli del campo ai nostri occhi sembrano avere più consistenza, più plausibilità di essere ricordati e quindi di ricevere cura. Ma l'erba del campo? Potrebbe sembrare così poca cosa! Così precaria! "Ora, se Dio veste così l'erba del campo che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto più per voi, gente di poca fede?". La cura di Dio per l'erba, oserei dire per un filo d'erba, mi fa pensare e mi commuove. E forse a qualcuno può ritornare alla memoria un racconto di Pirandello dal titolo "Canta l'epistola" e l'incantamento di Tommasino, la sua passione per la storia di un filo d'erba, dietro la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto: "Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo custodiva con l'anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle prime stelle che spuntavano nel cielo crepuscolare, perché con tutte le altre lo vegliassero durante la notte". Quasi una icona della cura che Dio ha per un filo d'erba. E, dietro l'immagine dell'erba, ognuno di noi, colto nella sua piccolezza infinita - mi si perdoni l'ossimoro!- , quella piccolezza su cui Dio si china, come ci ricorda il libro del Siracide. Che cosa sono i giorni dell'uomo? Fossero anche cento! "Come una goccia d'acqua nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni in un giorno dell'eternità. Per questo - notate, per questo - il Signore è paziente verso di loro ed effonde su di loro la sua misericordia". Mi sono chiesto se non è proprio questo chinarsi di Dio sul filo d'erba, sulla nostra piccolezza e fragilità, che ci libera dall'ossessione e dall'affanno che ci consumano. Ci fanno resistenti a una società che esibisce un mito devastante , quello della vita bella, integra, ricca di successo. La vita o è così o non conta, Cronaca anche di questi ultimi mesi: la protesta di genitori che accanto all'albergo prenotato per le loro vacanze scoprirono la presenza di una comunità di ragazzi disabili, avrebbero disturbato la serenità dei loro figli "abili". Purtroppo ci sono anche visioni cosiddette spirituali che, anziché soffiare sulla brace dei cuore, sono come una sferzata di gelo sulla brace. Modi di vedere lo "spirituale" da cui stare lontani, perché spengono la brace. Scartano i frammenti. Lui Gesù diceva "Raccogliete i frammenti!" (Gv. 6,12). Soffiava sulla brace di ciascuno. Un insegnamento che trova eco, eco a non finire, nelle parole di papa Francesco che ci mettono in guardia da un mito devastante della perfezione intesa come pratica dei precetti e ci fa dimenticare la misura umana che non regge senza la misericordia. Il "tutto subito" ha contagiato anche il mondo ecclesiastico e ci fa incapaci di sostare ai germogli, incapaci di incantarci al filo d'erba. O al piccolo seme che hai gettato e che scompare. Forse era solo un sorriso. Anni fa un'amica mi donò una riflessione di Sandro Rotili sul sorriso. "Il sorriso" scrive "è sguardo indulgente, come dice Paul Celan, è uno sguardo indulgente e misericordioso sull'altrui debolezza, è lo sguardo di chi sa bene di essere altrettanto dolorosamente afflitto dalla propria precarietà. La capacità di sorridere sul proprio dolore, sul non senso, ha il potere di frenare la caduta nel baratro della disperazione, da un lato, e, dall'altro, di salvaguardare dal cinismo corrosivo della disillusione. Impariamo dagli ebrei quella forma preziosa di libertà che è l'autoironia, antidoto divino al veleno del prendersi troppo sul serio. La vita, interpretata nella luce di un sorriso sofferto, ci faccia scoprire che ognuno è assoluto e assolutamente relativo. Lasciamo che ognuno abbia il suo cammino abissale. Chiediamo al Signore di tutti la pace e la capacità di venerare la bellezza del mondo senza diventare esteti, venerare la verità senza diventare fanatici, amare il bene senza diventare plumbei moralisti mancanti di pietà, amare il mistero senza diventare troppo devoti, accettare la contingenza e la fragilità senza andare alla deriva. Forse proprio in questo "senza" è nascosto quel sovrappiù di grazia che ci fa chiamare e riconoscere fratelli, che ci fa dire che mai potremmo vivere gli uni senza gli altri" (Quaderni di vita monastica 1999).

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