CARLO MARIA MARTINI
l'intervista
integrale in risposta alle domande di Zita Dazzi di "Repubblica"
Pubblichiamo
l'intervista integrale che Zita Dazzi, giornalista di
"Repubblica" chiese a don Angelo in occasione
della morte del nostro amato cardinale Carlo Maria Martini,
intervista che per ragioni di spazio è stata costretta
a contenere nel numero di settanta righe.
Ci racconta il suo primo incontro
col cardinale Martini?
Posso
dire che per qualche fessura mi era sembrato di incrociarlo
quando la notizia che era stato eletto vescovo di Milano
mi raggiunse in una parrocchia in faccia a montagne e
a lago, allora ero parroco a S. Giovanni in un quartiere
di Lecco. Di lui si diceva che era un biblista e che frequentava
per impegni pastorali le periferie di Roma, ricordo come
la congiunzione delle due cose mi avesse profondamente
affascinato.
Un contatto più personale avvenne per un episodio
che mi aveva allora molto rattristato. Erano i primi mesi
della sua missione di vescovo. Nella parrocchia si era
deciso di invitare per una memoria di Monsignor Romero,
Padre David Maria Turoldo. L'invito aveva suscitato contrasti
nell'ambiente ecclesiale della città: l'accusa
era che la nostra scelta fosse in contrasto con le indicazioni
dei Vescovi. Padre David, declinò fermamente l'invito.
Ne fui molto rattristato, scrissi all'Arcivescovo per
raccontare l'accaduto. Ricordo che lo invitavo a non rispondermi,
immaginando l'ingombro delle lettere sul suo scrittoio.
Puntualmente invece mi rispose, dicendosi dispiaciuto
per l'accaduto, e confidandomi che avrebbe scritto a Padre
David per dirgli quanto la cosa l'avesse rattristato.
Pochi mesi dopo per la prima volta incontrò i preti
del decanato. Mi accolse sorridendo dai suoi occhi azzuri:
"Don angelo" mi disse "noi ci conosciamo".
Mi vide stupito. Aggiunse: "Ci siamo scritti a motivo
di Turoldo". Mi parlò di un vangelo oltre
le barricate.
Quando
vi siete visti per l'ultima volta? Siete rimasti in contatto
durante gli ultimi anni e mesi? E' mai andato a trovarlo
a Gerusalemme?
Mi
capitò di incontrarlo a Gerusalemme in occasione
di un nostro pellegrinaggio: quel giorno ci raccontò
della sua scelta di stare in una terra, quella dei Padri
che lui amava, del suo desiderio di stare dentro un conflitto,
in mezzo come un intercessore. Dal giardino in cui ci
parlava alzò la mano a segnare la finestra da cui
nelle prime luci dell'alba poteva contemplare il monte
degli ulivi. Come se a preghiera si aggiungesse preghiera.
Per l'ultima volta ho visto il cardinale all'inizio di
quest'anno. Devo confessare che, dall'ultima volta in
cui gli feci visita, mi costò fatica capire le
sue parole, che in parte mi sfuggivano anche se amplificate
al piccolo microfono. Ci si raccontava, ci si chiedeva
l'uno dell'altro, poi gli occhi andavano alla stagione
che stiamo vivendo: mi colpiva la sua lucidità
senza sconti né sbavature sui giorni amari e nello
stesso tempo la sua fiducia indiscussa. Quasi aveva il
sapore di una sfida, una sfida nella potenza del vangelo
e nelle imprevedibili insospettate vie dello Spirito,
che, era solito dire, "arriva prima di noi e opera
infinitamente meglio di noi". Ricordo come, nonostante
gli volessi risparmiare la fatica, volle apporre la sua
firma sul libro in regalo. E ti salutava stringendoti
nel suo abbraccio, quasi fosse un sacramento. Quel'ultima
volta, vedendolo indebolito, quasi mi prese paura di fargli
male stringendolo. E il pensiero mi corse al suo ultimo
abbraccio a Padre Turoldo. Prima fu abbraccio nella chiesa
di S. Carlo. Era il lontano 1983 e si dava una sua rappresentazione
sacra, "La morte ha paura", in occasione del
Congresso eucaristico. Poi l' ultimo abbraccio alla Rotonda
dei Pellegrini, nel consegnargli il premio "Lazzati".
Ii Cardinale, ricordo, lo sfiorava dolcemente, quasi avesse
paura di fargli male - già gli era stato fatto
troppo male - sfiorava il suo corpo smagrito, esile, fragile,
eppure trasparente. Lo abbracciavano le mani, ma già
lo avevano abbracciato le parole del Cardinale: riconoscevano
la profezia, riconoscevano incomprensioni dolorose del
passato: "Oltre l'apprezzamento per ciò che
sei, vogliamo fare atto di riparazione, vogliamo evitare
di edificare soltanto sepolcri ai profeti, e dirti che
se in passato non c'è sempre stato riconoscimento
per la tua opera è perché abbiamo sbagliato".
Ora ero io ad abbracciare sfiorando per non far male.
E lui a seguirti con gli occhi sino alla porta, senza
staccare. Te ne andavi con la luce serena dei suoi occhi.
Martini,
a chi non lo conosceva bene, poteva incutere forse un
po' di soggezione. Ci racconta com'era con gli amici e
con i collaboratori più stretti? Intendo dire,
come se lo ricorda lei, fuori dalle occasioni ufficiali,
dagli incontri pubblici, dalle celebrazioni solenni?
Vorrei
sottolineare nelle sue parole l'inciso che condivido pienamente
"a chi non lo conosceva bene". Era, la sua,
una riservatezza che, a mio avviso, nasceva da una dose
di timidezza, non invadeva il campo, non forzava la porta,
stava sulla soglia.
Sempre intento a capire. Ricordo come mi raccontassero
di un Sinodo, in cui gli toccò di presiedere e
come egli avesse ricordato ai suoi collaboratori di porre
attenzione agli interventi dei vescovi "minori"
e come questi ultimi si fossero accorti della tenera attenzione
del cardinale nei loro confronti e come di conseguenza
portassero al segretario borsate di farmaci dei loro paesi
per una presunto raffreddore dell'arcivescovo, che forse
altro non era che un sintomo di una qualche timidezza.
In queste ore mi sono anche detto che quella sua riservatezza
non ha creato minimamente distanze: si prende distanze
da chi invade, ci si apre a chi sosta ad ascoltare e a
capire. Di quanto sia nel cuore della gente penso sia
una manifestazione luminosa l'emozione e la commozione
come quella cui stiamo assistendo, di tutto un mondo di
credenti, di non credenti, di diversamente credenti.
Quando
era vescovo di Milano, e anche dopo, Martini era diventato
un punto di riferimento Per tante persone che speravano
in un rinnovamento e in una maggiore apertura della chiesa
alla modernità. Come viveva lui questa sua grande
fama, l'aspettativa dei molti che speravano addirittura
che lui diventasse Papa?
Non
era uomo di carriera. Anzi metteva spesso in guardia da
questa malattia che è la rovina della chiesa. Gli
interessava Gesù e il suo vangelo, fuori dalle
astuzie e dalle macchinazioni. Erano in tanti a parlargli
dei loro sogni di una chiesa più libera, più
accogliente, più affidata al vangelo. Condivideva
i sogni. Percepiva che molti in lui riconoscevano il sogno.
Invitava a resistere
Quando
il cardinale chiese di andare in pensione e di potersi
ritirare a Gerusalemme, sembrava davvero stanco, affaticato
da tanti difficili anni trascorsi a Milano, forse soprattutto
da quelli del terrorismo, anni in cui dovette vedere tanto
sangue e dolore, in una città illividita dall'odio
e dalla violenza. Aveva sofferto molto in quel periodo?
Ha
amato queste strade ha pianto su questa città.
Ma non era un pianto arreso. Era il pianto di chi intercede.
Raccontava che gli capitava di ritorno nella notte nell'episcopio
di indugiare dall'alto a vedere la città: il buio
delle strade, le poche finestre illuminate. Che cosa dimorava
al di là di quelle finestre, drammi e speranze?
Pregava per la sua città.
Martini
era torinese, ma secondo lei arrivò a sentirsi
un po' anche milanese, così circondato com'era
dall'amore dei milanesi?
Certamente
rimanevano le sue radici torinesi, scritte anche nella
nobiltà del suo animo. Ma questa ormai era la sua
città. Sentiva che la città era in ascolto,
ben oltre i confini ecclesiastici. E la città era
in ascolto perché la sua era una parola libera.
Era come un accendere una lampada per il cammino, il cammino
di tutti.
Vorrei però anche aggiungere che non si sentiva
fortunatamente imprigionato nella nostra città,
sentiva la responsabilità delle chiese del mondo.
Che andava a visitare con uno stile suo, anzi quello del
vangelo, nella loro ferialità, non dai pallchi,
ma nella vita ordinaria delle comunità.
La ferialità. Mi colpì fin dall'inizio,
il suo desiderio che le sue visite pastorali fossero nella
ferialità. Incontrare la ferialità vuol
dire incontrare la vita più vera della gente, quella
quotidiana, che fa il tessuto normale delle nostre giornate.
E la ferialità della visita diceva uno stile, un
clima: il suo desiderio che dalla visita pastorale fosse
rimosso ogni aspetto decorativo, ogni parvenza di esteriorità,
ogni allusione alla maschera: la maschera nasconde il
volto.
Un vescovo viene per vedere da vicino, viene per conoscere:
che senso avrebbe ostentare fumo o sequestrarlo sui palchi?Dall'alto
dei palchi si conosce così poco di un popolo: un
popolo lo conosci immergendoti, condividendo un cammino.
Quali
sono gli insegnamenti più importanti che le ha
trasmesso?
Ne
colgo uno, non so dare precedenze. Tra i suo sogni sulla
chiesa, questo: una chiesa che parla dopo aver ascoltato
e solo dopo aver ascoltato. Raccontava di Gesù
che nei vangeli prima apre le orecchie del sordomuto,
poi le labbra, come a dire che se prima non si ascolta,
ci escono solo parole vuote.
Fra i suoi libri, uno dei più conosciuti é
stato quello intitolato "conversazioni notturne a
Gerusalemme". A lei quale é piaciuto di più?
(anche se certo é molto difficile fare una classifica
fra le centinaia di testi che ha firmato)
Non so scegliere: ogni suo libro mi ricorda lo scriba
del vangelo che dal tesoro trae cose nuove e cose antiche.
Sì, mi ha colpito molto il libro che lei cita,
il suo dialogo, non paludato, immediato, sincero, pieno
di simpatia, con i giovani.
Ma da bastian contrario vorrei proporre un esile piccolo
libro, poco più di una lettera, dal titolo: "Va'
a Ninive, la grande città". Dove l'invito
è stare sui confini, una chiesa che sta al confine.
"Non passa giorno - annota il cardinale- che tu non
assista a questo silenzioso passare di uomini e donne
dalla luce alle ombre e dalle ombre alla luce, dalla fede
alla non fede e viceversa". Noi dunque, secondo il
Cardinale, chiamati ad essere compagni di viaggio, e quale
viaggio, compagni di questi sconfinamenti, strade di fuga
e strade di ritorno nella notte. Stare sul confine, per
una sorta di innamoramento per questa realtà quotidiana,
fatta di storie e di volti.
Martini arrivò a Milano semi
sconosciuto ma ben presto seppe farsi conoscere e amare,
anche fuori dalla cerchia ecclesiastica, diventando molto
popolare. Lui però era ha persona schiva, amava
anche molto la solitudine. Come viveva questa situazione?
È vero che si prendeva spazi per stare solo, andando
in montagna ma volta alla settimana a camminare e a meditare?
E che qualche volta usciva dalla curia vestito in abiti
civili per girare Milano senza essere riconosciuto?
Non
solo si prendeva spazi per stare solo, ma li ha proposti
a tutti noi con una sua lettera a sorpresa, la prima "La
dimensione contemplativa della vita". Contemplare
per non diventare macchine della produzione, per dare
senso alle cose, per viverle senza consumarle in un banale
usa e getta.
Ricordo che si era riservato il mercoledì mattina
per una uscita da Milano, un tempo per un sosta e spesso
la sosta era sui sentieri delle montagne, a volte anche
in parete, anche quelle della Medale su Lecco, che scalava
alle prime ore del mattino, spesso in compagnia di due
compagni gesuiti fedeli, Silvano Fausti e Filippo Clerici.
Che
ricordo di lui serberà nel suo cuore, adesso che
il cardinale ha lasciato la vita terrena?
Quello
del pastore di Palestina che cammina davanti al gregge.
Indica un orizzonte, ma nello stesso tempo non accelera
oltre misura il passo, ha compassione della pecora ferita
e di quella gravida.
Il pensiero mi corre a un gesto, quello che fu dell'inizio,
quel suo ingresso così inusuale. Camminava confuso
tra la gente: non era processione, non era corteo, era
cammino.
Ci sembrò di capire: uomo del cammino e non del
palco, uomo della strada e non delle parate. Niente cordoni,
niente posti riservati, niente separatezze. Così
è stata la visita di Dio: Gesù di Nazareth,
uomo della strada, Dio della ferialità e della
condivisione.