SEGUO IL RUMORE DEI PASSI
Sono lettore innamorato di vangeli, non sono un esegeta,
scavo nelle parole. Mi emoziono quando incontro e posso
portare alla luce l'oro che le abita. Trovo tracce di
Gesù sotto polvere di sabbie, che il tempo e la
nostra opacità vi hanno in ampia misura depositato.
Quando
leggo sento il rumore dei passi, sono leggeri, senza fanfare,
senza esibizioni, senza autocelebrazioni che ne rompano
l'incanto. L'incanto della realtà, la realtà
della sua persona, del suo vangelo, della sua via. La
sua via, via dello Spirito, tanto diversa da tante vie
dello spirito che abbiamo disinvoltamente chiamate cristiane,
di Cristo.
Seguo
il rumore dei passi che portano a una casa. "Dove
abiti?". "Venite e vedrete". I due, iniziatori
del movimento, si videro aprire una casa. Lui non abitava
sinagoghe, né abitava palazzi. Entrarono, erano
tutt'occhi per vedere, erano le quattro del pomeriggio:
quella luce sulle cose di casa e sul suo volto niente
e nessuno di lì in poi l'avrebbe più cancellata,
impigliata per sempre nel più profondo dei loro
occhi.
Qui
mi ha portato il rumore dei suoi passi. E mi pento di
essermi a lungo illuso di sapere di lui leggendo dissertazioni
teologiche, illuso che lo avrei potuto conoscere senza
abitare la sua casa. Giorni fa un'amica mi ha scritto
di occhi: "Da parecchio tempo ti osservo, spio qua
e là tra i tuoi modi di fare
". Uno,
chi è, lo conosci nella sua casa, molto più
che nei luoghi cosiddetti sacri.
La
casa è più umana, nella casa si può
smarrire una moneta e passare ore a cercarla e chiamare
le donne del vicinato a far festa quando, dopo tanto frugare,
è uscita dalla penombra agli occhi. Nella casa
succedono gli inciampi, succedono anche le nostre fragilità,
le nostre debolezze, succede di smarrire una moneta. Nelle
chiese no, tutto procede senza scarti, dall'inizio alla
fine, tutto deve filar liscio, roba da mostri sacri. Lui
lontano anni luce dal posare come un mostro sacro. E senza
un grumo di simpatia, un grumo che è un grumo,
verso i mostri sacri.
Chi
veramente fosse e dove spingessero i suoi pensieri lo
videro fin da quei suoi inizi. Perché, già,
i saggi dicono che dalle luci dell'alba si intravvede
il giorno. Cominciò a strabiliare dall'inizio.
Non so se quel giorno, là lungo le acque del fiume
Giordano, vi fosse, per caso attratto dalla curiosità,
qualcuno di quelli che muoiono dal desiderio di organizzare
gli ingressi ufficiali, loro ci sanno fare. Nel caso avrebbero
storto il naso increduli ai propri occhi. Iniziava dal
basso, non da un minimo di importanza, ma dalla fragilità
degli umani. Si era messo in una strana compagnia e senza
un rigo di distanza. Nell'acqua dei peccatori. E per di
più non era una finta. Non faceva finta, come quelli
che all'inizio della messa chiedono perdono, bontà
loro! No, di cose per finta lui non ne aveva mai fatte,
chiedeva di essere immerso con loro, senza corsie preferenziali.
Il Battista, suo cugino, trovò disdicevole la compagnia
e voleva impedirglielo, ma lui in risposta a dirgli: "Lascia
fare, ora: così infatti conviene che si compia
ogni giustizia". Sconcertante! Ancora più
sconcertante se pensiamo che queste sono le prime parole
esplicite di Gesù nel vangelo di Matteo. Ebbene
le prime sue parole mettono a fuoco una concezione rivoluzionaria
di giustizia. Dico rivoluzionaria perchè qui si
ribaltano le nostre visioni, le nostre comuni, ovvie,
condivise nozioni di giusto e di non giusto, di giustizia
e di non giustizia, è una sovversione del nostro
comune modo di pensare, di sentire. Perché? Ma
perché per noi giusto sarebbe marcare la distinzione,
tra Dio e chi non è Dio e giusta sarebbe la distanza
tra chi ha peccato e chi non ha peccato. "Tu"
sembra dire il Battista "non solo confondi i ruoli,
ma porti ulteriore confusione, perché non metti
una separazione dove è giusto metterla, tra giusti
e non giusti. Con la tua scelta di stare con tutti a ricevere
il battesimo, e pure pregando, sinceramente pregando!
Porti confusione nelle menti e nei cuori".
E
Gesù non arretra, non arretra mai sui gesti che
diventano fessura da cui spiare il vero volto di Dio,
da cui spiare il suo disegno, il disegno della nuova giustizia.
Che è la misericordia. Che è la compassione
per la fragilità umana in cui siamo immersi e da
cui possiamo risalire, purchè uno sia stato nelle
acque con noi.
Lo
sentivano compagno delle acque, che sembrarono quel giorno
prendere ai loro occhi un altro colore, tant'è
che qualcuno disse di aver visto i cieli aprirsi e pure
una voce dall'alto che diceva gradimento su quella disdicevole
compagnia. Una compagnia che durò poi una vita,
tant'è che i puri non gliela avrebbero mai perdonata,
"Mangione e beone" per loro "amico dei
pubblicani e dei peccatori". Loro, monumenti di perfezione!
Primo
ingresso, il secondo sarebbe stato nella sinagoga di Nazaret:
"Venne a Nazaret e secondo il suo solito entrò
di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli
fu dato il rotolo del profeta Isaia". Aprì
il rotolo e non si fermò, come avrebbe dovuto,
alla lettura del brano del giorno. Andò -e come
si permetteva! - a cercare qualcosa di diverso, cercò
il passo del profeta Isaia, dove si parla di un Messia
chino sulle debolezze degli umani, uno che ha come sogno
quello di abitare la carne dell'uomo, la loro povera misura,
il loro pianto e il loro riso, i loro giorni, la loro
fatica e i loro sogni, una tenda, telo di vento e non
una reggia, mura immobili a segnare distanze. E lesse.
Il timbro rimase nell'aria, era di voce forte, ma a un
tempo tenera: "Lo Spirito del Signore è sopra
di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi
ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi
la vista; per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,
18-19). Si fece brivido di silenzio nell'aria. Aveva chiuso
con un taglio la citazione del profeta. Scandaloso taglio
per gli uomini dell'ortodossia. Aveva puntualmente omesso
le parole che minacciavano castigo. Il testo proclamava
"l'anno di grazia del Signore", ma aggiungeva:
"il giorno di vendetta del nostro Dio". Cancellato!
La liberazione era completa. Liberati anche dalla vendetta.
E da quelli che annunciano e minacciano vendetta, la vendetta
di Dio.
Prese
come sua passione, passione di una vita, le parole del
rotolo di Isaia: "Porterà il diritto alle
nazioni. Non griderà né alzerà il
tono, non farà udire in piazza la sua voce, non
spezzerà una canna incrinata, non spegnerà
uno stoppino dalla fiamma smorta. Proclamerà il
diritto con fermezza. Ti ho chiamato per la giustizia,
come alleanza del popolo, come luce delle nazioni, perché
tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere
i prigionieri". Per fedeltà alla profezia
non abitò le esternazioni delle piazze, passò
fasciando canne incrinate, dando un brivido di olio agli
stoppini dalla fiamma smorta.
Lui
che aveva appreso, nella bottega del cielo, da suo Padre
vasaio, l'arte di ricomporre argilla, lontano ogni disprezzo
per un minimo scarto. Proprio come stava scritto: "Ora
se si guastava il vaso che stava modellando, come capita
con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo
e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto"
(Ger 18, 4-5).
Passò
una vita a raccattare scarti, quelli che si sentivano
tali o quelli che si portavano addosso, a ferita d'occhi,
lo sguardo spietato dei censori senza cuore né
anima. Raccoglieva scarti, uomini come Matteo o come Zaccheo,
donne come Maria di Magdala o la donna del pozzo di Sicar.
Aveva
negli occhi la perfezione di suo Padre, ma dava alla perfezione
del Padre un nome, il nome della misericordia. L'aveva
negli occhi e la insegnava: "Siate misericordiosi"
diceva "come il Padre vostro che è nei cieli!".
Passò
giorni e notti con discepoli. Raccattandoli impenitente
dai loro sbandamenti. Raccontando loro le vette del regno,
ma mai incenerendoli per tradimento, per essersi lasciati
sedurre da vita di pianure. Mi succede a volte di chiedermi
se qualcuno spiò ombra di tristezza nei suoi occhi
per la loro dura cervice, anche loro, come noi, così
lenti a capire. Ogni volta che gli capitò di raccontare
ai discepoli con emozione che un amore come il suo avrebbe
avuto come sbocco naturale, ormai vicino, la morte di
croce, li sorprese, a distanza di secondi, a discutere
di posti e di primati. Non li lasciò. Non li lasciò
per durezza di cervice.
Non
li lasciò per delusione, neppure l'ultima delle
sue sere, quando nella grande sala addobbata al piano
superiore raccontò, nell'ultima cena con i suoi,
che la sua vita ardeva inconsumabile in quel pane spezzato,
in quella coppa di vino versato, sintesi eloquente di
una vita e di una morte come la sua. Com'erano, mi chiedo,
i suoi occhi? Che cosa passò nei suoi occhi quando
per tutta risposta quelli si misero a discutere di chi
fosse tra loro il più grande? Ricordò loro
il suo comandamento, ma non mostrò loro la porta.
Andò con loro al giardino.
Non
li lasciò per delusione neppure l'ultimo giorno,
quando da risorto diede loro appuntamento sul monte: li
trovò, ultima ora, tra i dubitanti: "Ma essi"
è scritto "dubitavano". Scommise sulla
fragilità, scommise sulla debolezza, scommise sulla
loro pochezza, affidò, agli undici dubitanti, la
buona notizia del regno. E forse, a ben pensare, a nessuno
meglio che a loro poteva essere affidata la notizia buona
che Dio raccatta gli scarti e li fa portatori di buone
notizie.
Notizia
sorprendente, questa ultima nel vangelo di Matteo. A fronte
di uomini religiosi che si sono ampiamente esercitati
lungo i secoli nell'arte, dopo tutto facile, ma altrettanto
impietosa, di sradicatori. Contravvenendo, contravvenzione
ignorata, alla parabola del grano e della zizzania. Che
metteva in guardia uomini e donne di ogni tempo da ogni
forma di impazienza, da ogni forma di intolleranza. Dalla
furia degli sradicatori. "La zizzania" si dice
"è da sradicare". Con questo pretesto
hanno sradicato anche Gesù. Sradicato con il pretesto
che era un bestemmiatore, un indemoniato, un amico di
pubblicani e prostitute, era zizzania. Da sradicare.
C'è
sempre qualcuno che sa dov'è la zizzania e esige
lo sradicamento. E, dobbiamo confessarlo, anche noi, che
custodiamo questo invito inequivocabile di Gesù,
spesso non gli siamo stati lungo i secoli, forse nemmeno
oggi, fedeli. Ci siamo lasciati travolgere da zelo improvvido,
funesto, diventando giudici implacabili, intransigenti,
non rispettosi né delle coscienze nè dei
tempi. I tempi di Dio. Che non sono i nostri. La storia
è costellata di questa infedeltà all'invito:
"Lasciate che crescano insieme". Penso alle
crociate, alla lotta violenta agli eretici o a quelli
ritenuti tali, alla caccia alle streghe, alla spogliazione
delle culture diverse. C'è sempre qualcuno che
sa dov'è la zizzania e ne invoca a gran voce lo
sradicamento. Magari pensando di rendere così gloria
a Dio. In realtà offendendola. Non è forse
scritto nel libro della Sapienza: "Tu, Signore, padrone
della forza , giudichi con mitezza. Ci governi con molta
indulgenza. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo
popolo che il giusto deve amare gli uomini. Inoltre hai
reso i tuoi figli pieni di dolce speranza" (Sap 12,
19)? Riconoscibili i figli? Sì, dai loro occhi
"colmi di dolce speranza". Riconoscibile una
comunità? Sì, da che cosa? Dagli occhi colmi
di dolce speranza.
Indicava
orizzonti, come i pastori di Palestina che non stazionano
nelle retrovie ma camminano davanti al gregge. Lui li
aveva anche visti misurare il passo e farlo lento come
lo fa Dio, secondo i profeti. Un Dio pastore che misura
il passo su chi fa più fatica, sulla pecora malata,
stanca, incinta. Come leggiamo nel rotolo del profeta
Ezechia, là dove Dio, parlando di sé, dice:
"Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo
e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio.
Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò
all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita
e curerò quella malata, avrò cura della
grassa e della forte; le pascerò con giustizia
(Ez 34, 15-16). Rallentava i passi, spiava il rumore degli
stanchi, faceva il suo passo su quello degli ultimi, misurava
stanchezze sui volti, vedeva schiene piegate dalla fatica,
e visi segnati da tristezze.
Lo
sguardo all'umana debolezza succede, dobbiamo riconoscerlo,
quando si condividono i giorni e le notti, quando non
ci si tiene a "dovuta" distanza, quando si parla
solo dopo essere stati nelle case di uomini e donne, e
non per visite ufficiali e fugaci, solo dopo aver condiviso
l'allegria e il pianto. Forse anche per questo mancano
oggi sguardi come il suo all'umana debolezza.
Diceva
Don Primo Mazzolari: "noi sappiamo quanto peso può
reggere una bestia da soma, o l'arcata di un ponte, ma
quasi mai chiediamo quale peso possano reggere le spalle
di un uomo o di una donna".
Indicava
orizzonti. Ancor prima che con le parole, li indicava
con la vita. Ma poi si dimostrava esperto dei tempi delle
crescite, anche della crescita del seme nella terra. Invitava
a dilatare negli occhi l'attesa, per veglia fiduciosa,
ai bordi dei campi seminati. A essere custodi di attese
anche nei giorni dell'inverno quando tutto sembra senza
vita sotto la crosta dura e fredda del campo. Insegnava
la pazienza del contadino del vangelo: "Il regno
di Dio" diceva "è come un uomo che getta
il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno,
il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa.
Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo
stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga.
Quando il frutto è pronto, subito si mette mano
alla falce, perché è venuta la mietitura"
(Mc 4,26-29).
Conosceva
i tempi delle crescite, lontano anni luce dai maestri
dello spirito che le sollecitano a tal punto da pretendere
crescite, forzando con le mani i piccolo teneri germogli.
Lui al gonfiarsi del terreno già sentiva salire
dentro l'emozione, si incantava e si lasciava cullare
dai sogni per i germogli. Aveva aperto una domanda nel
cuore della donna samaritana, una semplice domanda, ed
era come se non avesse più fame né sete.
I discepoli erano fermi al cibo, li invitò ad alzare
gli occhi, a sognare. Lui correva in avanti. E, in anticipo
di quattro mesi, vedeva campi biondeggiare per la mietitura.
Avrebbe
qualcosa da dire, io penso, a questa generazione sedotta
dal mito ubriacante dell'efficienza e della qualità:
se sei al massimo delle prestazioni conti, se sei al massimo
dell'eccellenza conti; se non lo sei, non conti: la vita
deve essere bella, perfetta, intelligente, ricca di successo,
la vita conta se è così, se appare. Un mito
che sforna a getto continuo, giorno e notte, donne e uomini
frustrati, non reggono il passo, non sono "all'altezza",
e si vivono come fossero il nulla.
Avremmo
dovuto, come chiesa per fedeltà resistere e contestare
alla radice questa impoverimento della vita, della vita
nella sua interezza, della vita con le luci e con le ombre,
con i ritmi con cui accade.
Non
doveva forse insegnarci anche questo l'incarnazione di
un Dio, che ha abitato il frammento, ha dimorato la nostra
povertà e debolezza? Lui che quando camminò
per le nostre strade fece una cosa dopo l'altra, e mai
due insieme, lui che stava nelle misure degli umani con
rispetto per le loro lentezze, con sguardo di tenera compassione
per la debolezza e la fragilità che incrociava.
E si negava fretta di sorpasso: si fermava, si chinava
e rialzava.
Era
un invito a non snaturare la vita: ha una sua lentezza.
Se la neghi perdi il colore, perdi il sapore, il colore
e il sapore della vita vera, quella autentica. Un invito
a fuggire l'inganno dell'illimitato, che ti fa stare in
quello che succede senza esserci, perché i tuoi
occhi sognano altro. Sono già altrove. Non sono
alla pagina della vita che stai leggendo, al volto che
stai incontrando, all'emozione che ti sta sfiorando.
A
volte, forse esagerando, mi succede di pensare che questa
sia la radicalità del vangelo, la radicalità
dell'incarnazione. La radicalità sta in questo
modo di stare al mondo di Gesù. Che ci sia chiesta,
me lo chiedo, la radicalità di diventare più
umani secondo l'immagine dell'umano che lui ci ha lasciato?
Le sue contestazioni più forti, quasi violente
per urto d'amore, non furono forse contro coloro che,
in nome della religione, ponevano carichi di "perfezione"
sulle spalle delle gente, salvo poi non fare quello che
ampiamente avevano declamato? "Sulla cattedra di
Mosè" diceva alla folla e ai discepoli "si
sono installati scribi e farisei..legano pesanti fardelli
e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono
muoverli neppure con un dito" (Mt 23, 2.4).
E'
notizia buona, e dunque vangelo, per me, per me che me
ne vado carico d'anni, il fatto che lui sia un Dio che
raccoglie i pezzi. Mi sorprende e mi commuove.
Perdo
pezzi
e tu li raccogli
alle spalle, Signore,
tu Dio dell'orfano e della vedova,
tu Dio dei frammenti,
tu hai compassione
del non intero,
dei pezzi di pane avanzati,
tu che non vuoi
che si perda nessuno.
Perdo pezzi di voce e di occhi,
di memoria e di cuore.
Dietro
alle spalle tu ti chini
e raccogli.