LO
SCANDALO DEL PERDONO
Il
perdono di Dio. Vado per sussulti di emozioni, con una lettura
approssimativa e a volte esegeticamente rozza, delle scritture
sacre, ma l'unica che mi appartiene. Che Dio perdoni è buona
notizia, è la "buona notizia", un evangelo, è l'evangelo.
E' ciò che non ci aspetteremmo, perché, secondo i criteri
mondani, ampiamente praticati, al male… risposta sembra
debba essere il male, al male… sembra debba spettare di
diritto una ritorsione di male. Al male risposta l'odio.
Nel
migliore dei casi, a risposta una legge di parità, quella
del taglione, che sia cioè un male non maggiorato, ma una
uguaglianza di male. Così spesso succede tra noi. Nella
più spenta delle leggi della reciprocità: a tanto tanto.
Buona notizia che Dio spezzi la legge fin troppo ovvia,
ovvia di una ovvietà umana, quella che al male si risponda
con l'odio. Già la buona notizia percorre le Scritture ebraiche.
Si dirà che sono antropomorfismi, ma se Dio ha voluto che
lo si raccontasse così, come potremmo permetterci di raccontarlo
cancellando le immagini? A volte, e non così raramente,
ci succede di sentire purtroppo affermare che il Dio dell'antico
testamento è un Dio spietato a differenza del Dio del nuovo
Testamento che è un Dio di perdono. Quasi fosse sua passione
rispondere con diluvi. Certo quella del diluvio è una pagina
inquietante. Attingendo a miti molto antichi, racconta i
giorni della corruzione che precedettero il diluvio, una
corruzione colta nella sua devastante pervasività.
Leggiamo
il racconto ed è come se assistessimo al dilagare del male,
quasi si fossero rotte le dighe e la minaccia fosse dappertutto.
Una pagina, dobbiamo confessarlo, di una triste attualità.
Assistiamo da tempo a questa devastazione silenziosa ma
tentacolare dell'onestà, una devastazione diventata cronaca
quasi quotidiana, che ci fa tristi. Tristi e preoccupati
quando osserviamo la stagione che ci sta alle spalle. Alle
spalle abbiamo una stagione di corruzioni, molto simile
a quella che precedette il diluvio, con una violazione sistematica
ormai dell'ethos pubblico e dell'onestà personale, così
diffusa e cronica, da lasciarci quasi rassegnati e indifferenti.
Il
libro della Genesi ci fa avvertiti con lucidità e fermezza
che tutto questo è avvenuto, è potuto avvenire, per un deficit
pauroso di vigilanza. Causa un vivere senza lucidità, un
vivere divorati dalle cose, anche cose necessarie e buone,
ma solo quelle. Un vivere, direi, senza sospetto, senza
sospetto che qualcosa possa improvvisamente inghiottirci,
una sorta di passività opaca. Qualcuno potrebbe leggere
nel castigo delle acque l'immagine di un Dio che, inesorabile,
non perdona. Ebbene un bellissimo midrash della letteratura
rabbinica racconta che Dio con i tempi lunghi della ideazione
e della costruzione dell'arca, volle dare ai contemporanei
di Noè un segnale ripetuto per un cambiamento nella loro
vita, un cambiamento che non avvenne.
Racconta
il midrash: "Per centoventi anni il Santo, benedetto Egli
sia, ammonì gli uomini della generazione del diluvio, nella
speranza che si ravvedessero. Ma poiché non ascoltavano,
disse a Noè: "Fatti un'arca di legno di pino". Allora Noè
si mise a piantare cedri. La gente gli domandava: "cosa
sono questi cedri?" Ed egli rispondeva: "il Santo, benedetto
Egli sia, sta per mandare un diluvio sulla terra e mi ha
ordinato di preparare un'arca per salvarmi insieme alla
mia famiglia". La gente rideva e si prendeva gioco delle
sue parole. Intanto Noè coltivava e taceva e faceva crescere
i cedri. La gente continuava a domandare: "ma cosa fai?
". Egli rispondeva sempre nello stesso modo e la gente lo
scherniva, Alla fine tagliò i cedri, ne fece delle assi
e la gente gli domandava: "che cosa fai?". Egli rispondeva
sempre nello stesso modo e li ammoniva. Quando il Signore
vide che nonostante ciò, questa generazione non si ravvedeva,
decise di mandare il diluvio, Gli uomini, vedendosi perduti,
cercarono di rovesciare l'arca, ma allora il Signore circondò
l'arca di leoni" (Tanchuma-Noach).
Dobbiamo
confessare che il racconto della pagina della Genesi, con
le sue immagini antropomorfiche può lasciare in noi stupore
e sconcerto. Ci racconta infatti tutta l'amarezza di Dio:
aveva messo nelle creature il suo Spirito e ora vede uomini
e donne unicamente preoccupati di stravolgere i ritmi della
natura per prolungare la loro vita, quasi fossero degli
dei, vede la corruzione dilagante: "Il Signore vide che
la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni
intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre".
Ed ecco una frase che sfonda il cuore: "Il Signore si pentì
di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor
suo. Disse: "Cancellerò dalla faccia della terra l'uomo
che ho creato e con l'uomo anche il bestiame e gli uccelli
del cielo, perché sono pentito di averli fatti".
Al
di là degli antropomorfismi evidenti, noi intravediamo,
tra riga e riga del testo, il volto di un Dio non crudele,
ma appassionato: Dio soffre, Dio si addolora. Siamo lontani
anni luce dal volto gelido, asettico, impassibile del Dio
dei filosofi o di certa teologia. E' come se Dio, nel racconto,
misurasse tutta la distanza tra ciò che aveva modellato
con le sue mani e ciò che si ritrova davanti. Lui che si
era incantato per la creazione dell'uomo e della donna.
"E vide" è scritto "che era bene", era bellezza. Ora che
cosa vede? "E vide che ogni intimo intento del loro cuore
non era altro che male. Sempre"! Ma noi sappiamo che il
pentimento di aver creato l'uomo è breve, dice solo il suo
amore ferito. Il suo è un avvertimento, un avvertimento
agli umani: sono infatti loro che, non dando ascolto al
soffio di Dio che li abita, portano il diluvio sulla terra,
la abbandonano in mano alla morte, anziché continuare la
creazione, fanno opera devastante di decreazione. Il pentimento
di Dio è breve. Perché Dio a fronte dello sfacelo, ricomincia,
ricomincia con Noè, ricomincia con un resto di ogni essere
vivente, un resto fatto di maschio e femmina, cioè ricomincia
con l'amore che genera vita. Così fa Dio.
Ebbene
il Dio dell'arca, il Dio che ricomincia, il Dio che farà
brillare l'arcobaleno a dire che mai più succederà il diluvio,
sembra avverare le parole del profeta Osea:"Io non sfogherò
la mia ira ardente, non distruggerò Efraim di nuovo, perché
sono Dio e non un uomo, sono il Santo in mezzo a te e non
verrò nel mio furore" (Os 11,9). "Sono Dio e non sono un
uomo" questo fa la differenza, la differenza è lasciare
la collera ardente, la differenza è non distruggere, non
incenerire l'altro, la differenza è rifiutare di abitare,
quasi dimora definitiva, il furore. Anche nei momenti di
estrema corruzione, perdonando Dio apre una via. La apre,
certo, per la fiducia che non gli muore mai in cuore, lui
è Dio! E' la conversione - così potremmo forse chiamarla
- di Dio.
In
un brano di un lontano discepolo di Isaia tra parola e parola
sembra infatti di intravedere l'immagine di un Dio che a
sua volta si converte. E meno male, diremmo, che si converte!
All'inizio della mia conversione, di un possibile mio cambiamento,
sta infatti la conversione di Dio: "Io" dice Dio "non voglio
contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti
davanti a me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale
che ho creato" (Is 57,16). Tenero questo Dio che mi guarda,
argilla deforme come sono, e pensa: "Se mi lascio prendere
dall'ira, finisce che lo distruggo, e così distruggo una
creatura in cui riposa il mio spirito, finisce che distruggo
il mio stesso soffio di vita". Mi sembra anche di poter
dire che non sono solo le sue parole a raccontare un Dio
che perdona e testardamente riprende, sono anche i suoi
gesti. Uno su tutti mi succede spesso di ricordare, un gesto
tenero di Dio, tenero e troppo spesso dimenticato. Dimenticato
anche da grandi pittori illustratori emozionanti delle pagine
sacre.
L'uomo
e la donna hanno peccato. Secondo gli schemi ovvi dell'ovvietà
umana viene loro spontaneo immaginare che se Dio li cerca
- "Dove sei, terrestre?" - non può essere se non per un
intento di punizione, di incenerimento: "Udirono" è scritto
"il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel
giardino alla brezza del giorno, e l'uomo con sua moglie
si nascose dalla presenza del Signore, in mezzo agli alberi
del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse:
"Dove sei?". Rispose: "Ho udito la tua voce nel giardino:
ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto"(Gn
3, 8-10).
Paura
nel cuore del terrestre e della sua donna. Paura per nudità,
per rumori di passi. I passi attesi, di un Dio che passeggia
alla brezza del giorno, mutati in passi di paura. Siamo
rimasti al pensiero che se Dio ti cerca dopo il tuo smarrimento
è per incenerirti, o per svelare agli occhi di tutti la
tua nudità. Siamo rimasti a un'immagine di paura. Mi capita
spesso di raccontare ciò che mi capitò anni fa: sfogliavo
un libro regalo, ripercorrendo pagina dopo pagina le opere
emozionanti di Michelangelo e gli occhi mi corsero a una
cacciata dal paradiso terrestre. La spada fiammeggiante
dell'angelo puntava a terrore alla nuca di Adamo, mentre
la donna si ritraeva impaurita e curva. Volti dolenti, spalle
ricurve per eccesso di vergogna. Mi ricordo che gli occhi
mi corsero allora a un particolare: il terrestre e la donna
erano ritratti nudi. Se la memoria della Bibbia non mi tradiva,
Michelangelo, ma non solo lui, era in errore. Dio al terrestre
e alla donna aveva cucito teneramente tuniche di pelle.
E perché l'insistenza, non solo dei pittori, sulla spada
fiammeggiante e non sulle tuniche che Dio aveva loro cucito?
Sono innamorato di un Dio che cuce tuniche di pelle. Non
mi fa più paura. E' un Dio che apre i cieli non a scarica
di fulmini ma a ricerca di chi si è smarrito. A volte mi
sorprendo con tristezza a osservare come sia rimasta nell'immaginario
una brutta immagine, quasi una caricatura, di Dio.
Ricordo
che anni fa ero una sera a cena con amici. A cena c'era
anche una loro amica non credente. Che raccontava di sua
madre. Anche lei non credente, allora novantenne, ancora
lucida di mente. Che però, di tanto in tanto, era presa
da paure e ossessioni, diceva di sognare il demonio che
la strappava verso l'inferno. Pensate, è da brivido, non
tanto da brivido l'immagine di un demonio che ti strattona
verso l'inferno, ma da brivido pensare che cosa le fosse
rimasto della nostra fede, cui pure non aderiva, nel subconscio,
che cosa le avevamo dopo tutto trasmesso della fede: non
l'immagine di un Dio del perdono, ma l'immagine di un demonio
che ti tiene nelle sue mani. Non eravamo forse chiamati
a trasmettere una buona notizia? E questa che buona notizia
sarebbe? Non dovevamo forse trasmettere la notizia buona,
questa: che Gesù discese agli inferi, cioè nel punto più
desolante della vicenda umana, perché, chiunque avesse per
disgrazia avuto l'avventura di giungervi, là trovasse il
Risorto che lo trascinava fuori?
Ci
sarebbe da pensare. Quale volto di Dio trasmettiamo, come
persone e come chiesa? Quale Dio? Se la memoria non è in
difetto, misericordia nelle Scritture sacre ha a che fare
con le viscere, "viscere di misericordia", e dunque con
la sede dei sentimenti: le viscere e il cuore, considerati
il luogo delle passioni, del desiderio, dell'amore. Ha a
che fare con "sentirsi stringere il cuore". Non scrive forse
Paolo ai cristiani di Filippi: "Mi è testimone Dio che vi
desidero intensamente con le viscere di Cristo Gesù"? Con
le viscere! Qualcosa di viscerale, con la tenerezza di Gesù.
Misericordia dunque come sentirsi "toccare" è il contrario
della impassibilità, dell'impassibilità falsamente attribuita
a Dio. Dio per eccellenza misericordioso.
Per
eccellenza "toccato" nelle viscere dalla sofferenza, dal
male degli umani. È scritto in Zaccaria 2,12: "Chi tocca
voi, tocca la pupilla dei miei occhi". Un Dio "toccato".
Misericordia come compassione, compassione nel senso originario
della parola, del "patire con", del "soffrire insieme",
del lasciarci toccare dall'ingiustizia, dal male, dal peccato
che feriscono la donna, l'uomo, questa nostra umanità, questa
terra. Dio si lascia toccare, non tiene le distanze. L'abbiamo
visto nella vicenda umana di Gesù di Nazaret, lui che, con
la sua vita, ci ha narrato Dio. Noi usiamo la parola "passione"
per dire i patimenti di Gesù. Ma i padri della Chiesa si
chiedevano: "Qual è questa passione che per noi ha sofferto?".
Origene rispondeva: "È la passione dell'amore". Ebbene,
commentando questo passo di Origene, Enzo Bianchi, il priore
della comunità monastica di Bose, scrive: "Il nostro Dio
è un Dio che ha del pathos dentro di sé, un Dio che soffre
per amore. Quando all'interno della Bibbia si parla di lui,
è un Dio che soffre, è un Dio che piange, è un Dio che sente
il nostro lamento e si mette accanto a noi. C'è un passo
molto bello del profeta Zaccaria in cui Dio dice: Chi ferisce
voi, Israeliti, ferisce la pupilla del mio occhio".
Noi
pupilla del suo occhio, noi passione del cuore di Dio. Il
perdono dunque nasce dalla misericordia di Dio, dalle sue
viscere , potrei forse dire scandalizzando qualcuno, che
per Dio è un fatto di subbuglio di viscere. Di cuore. Possono
capirlo coloro che amano, coloro che conoscono il subbuglio.
Non certo chi non ha mai amato nessuno! Non sa che cosa
sia il subbuglio, né sa che cosa ti porti al perdono: un
eccesso di amore, un amore in eccesso. Lo conosce Dio. Tra
le cose che non finiscono mai di stupirmi quando penso al
perdono di Dio, il suo perdono per me peccatore, sta il
fatto che ancora una volta in Dio è avvenuta come una rivoluzione.
Dio ha sovvertito la precedenza, quella che noi fortemente
rivendichiamo nei confronti dell'altro: prima ti converti,
poi ti perdono.
Secondo
una legge che non sembra in via di estinzione tra noi: tu
mi dai, io ti do. Una legge che Gesù ha sempre sovvertito
in tutta la sua vita, fino alla sua morte, morte di croce.
L'ha sovvertita con il perdono, un perdono estremo. "Perdono"
scrive Enzo Bianchi "donato anche ai suoi carnefici, ai
suoi aguzzini, a quanti lo hanno condannato a morte, a quanti
lo hanno angariato durante la sua esecuzione: "Padre, perdona
loro perché non sanno né quello che dicono né quello che
fanno". Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l'insegnamento
di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ha potuto rivelarci
Dio quale fonte di ogni perdono.
Ascoltate
questo straordinario annuncio dell'Apostolo: "Dio dimostra
il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo
ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione
ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall'ira
per mezzo di lui. Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo
stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio
suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati
mediante la sua vita" (Rm 5,8-10). È una scandalosa simultaneità:
mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi
siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo,
a tal punto che Hannah Arendt, una filosofa ebrea e non
credente, è giunta a scrivere: "A scoprire il ruolo del
perdono nell'ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret"
.
Questo
è lo scandalo della croce di Cristo, e solo nella folle
logica della croce si può comprendere il perdono di Dio
verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi
e gli altri". Potremmo dunque parlare di uno scandalo in
Dio, lo scandalo della croce, lo scandalo del perdono che
ebbe precedenti e non pochi, nella vita di Gesù nello scandalo
dei suoi banchetti, i banchetti con pubblicani e peccatori.
E l'accusa che lo perseguitava: "E' andato a mangiare con
pubblicani e peccatori". Un'accusa che non era campata in
aria. Doveva pur esserci qualcosa! L'accusa la odoravi nell'aria
e faceva notizia. I vangeli ci raccontano che farisei e
dottori della legge lo bollavano come "amico dei pubblicani
e peccatori".
Di
certo avevano sorpreso come lui li guardava. Un giorno per
esempio la folla che gli stava attorno aveva visto cosa
era passato nel suo sguardo quando alzò gli occhi su Zaccheo,
il pubblicano che aveva escogitato come luogo di avvistamento
un albero, dall'alto del quale cercare di capire chi fosse
Gesù. E a conferma della tenerezza dello sguardo con cui
lo guardava, sentirono quelle parole nell'aria: "Oggi devo
fermarmi a casa tua". Secondo loro non lo doveva, proprio
non lo doveva! Ma che religione era mai la sua? C'era da
sdegnarsi. Da sdegnarsi a non finire per quell'aria di festa
che dalla casa di Zaccheo filtrava per le strade, una compagnia
scandalosa. Per loro aveva sbagliato casa. E lui invece
a dire che proprio quella era una casa in cui era entrata
la salvezza.
Lui
a dirlo, senza peli sulla lingua, a coloro che fissavano
case a Dio e distribuivano patenti del regno. Lo sentirono
dire, a memoria per i secoli: "Oggi la salvezza è entrata
in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il
Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare
ciò che era perduto". Una amicizia scandalosa, la sua, e
lo si percepiva d'istinto da come stesse bene con loro,
nei loro banchetti. Amicizia scandalosa. E lui che contro
gli scandali aveva anche duramente tuonato, dallo scandalo
di essere amico di pubblicani e peccatori non si era mai,
proprio curato. Anzi! Ne andava, secondo lui, della buona
notizia del vangelo, che non è quella di un Dio barricato
nella logica del "se tu sei buono con me, io sono buono
con te". Sarebbe stato messaggio di una ovvietà pallida
e raggelante. Con i peccatori lui stava prima che si convertissero.
E non si sarebbero di certo scandalizzati i suoi oppositori
se si fosse fatto invitare ad una cena di peccatori convertiti!
Suo intimo convincimento dunque era che a convertirli fosse
proprio questo, il fatto che lo sentissero amico comunque.
A
differenza radicale degli uomini religiosi che a gente come
quella non riservavano il benché minimo grumo di calore.
Loro, rappresentanti di una religione dove c'era testa e
ordine, ma niente cuore, niente disordine del cuore, niente
di quel disordine del cuore, di quell'eccesso di amore che
fa la differenza di Dio. Lui si inteneriva alla debolezza,
la guardava con amore, lui che raccoglieva frammenti. Lui
che aveva appreso nella bottega del cielo, dal suo Padre
vasaio, l'arte di ricomporre argilla, lontano da ogni disprezzo
per un minimo scarto. C'era amore nei suoi occhi. Passò
una vita raccattare scarti, quelli che si sentivano tali
o quelli che si portavano addosso, a ferita d'occhi, lo
sguardo spietato dei censori senza cuore né anima. Raccoglieva
scarti, uomini come Zaccheo, donne come Maria di Magdala
o la donna del pozzo di Sicar. Uomini come i suoi discepoli,
che non erano certo stinco di santi né monumenti di perfezione.
Pietro
non lo avrebbe rinnegato tre volte in una notte e gli altri
non sarebbero tutti, dal primo all'ultimo, fuggiti? E lui
a guardarli con tenerezza nella notte dei tradimenti. Lui
a ricordare, proprio quella notte, che a loro non aveva
dato nome di servi, ma nome di amici, lui a dare loro, nella
notte in cui veniva tradito, il pane dell'amicizia. Così
era lui. E così facendo raccontava Dio. E' il Dio che raccontiamo?
Fa scandalo il perdono, diremmo un perdono che viene prima
di un riconoscimento della colpa. Ed è uno scandalo, lasciatemi
dire, che va custodito, perché Gesù, dicevo, non ha fatto
niente, proprio niente, mai niente, per evitare questo scandalo.
Perché? Perché ne va del centro della nostra fede, che è
la gratuità dell'amore di Dio.
Ma
vorrei ancora insistere dicendo che, a mio avviso, questa
tenerezza che precede, la tenerezza che ti abita gli occhi,
la tenerezza di un perdono, rimane la vera sommessa della
pastorale. Era ciò che ai tempi di Gesù, e non solo ai tempi
di Gesù, apriva i cuori. Non fa forse pensare che la terapia
di Gesù per pubblicani e peccatori fosse un pranzo, una
cena, un banchetto? Una terapia sconosciuta alle nostre
ingombranti strategie pastorali che non sanno più che cosa
inventare per la cosiddetta "conquista" - brutto termine!
- dei cosiddetti lontani.
Dico
"cosiddetti", perché il vangelo rivoluziona non solo l'immagine
di Dio, della religione, ma anche dei lontani. Una terapia
per peccatori e lontani o malati, che non è fatta di divieti
e di dichiarazioni, ma consiste nello stare a tavola, terapia
dimenticata: a tavola, dove, a distanza d'occhi, puoi cogliere
lo sguardo di un Dio che non ti incenerisce, uno sguardo
nel quale come da una fessura ti accorgi della fiducia,
della stima per te, della speranza per il tuo futuro, che
abitano lo sguardo del tuo Signore, "venuto nel mondo" scrive
Paolo "per salvare i peccatori, il primo dei quali sono
io".
Forse
la tenerezza non ci abita più gli occhi anche perché abbiamo
dimenticato che trai peccatori noi siamo i primi. Ogni volta
che vado a celebrare non dovrei forse stupirmi di Gesù che
siede a mensa con me. Che sono il primo dei peccatori. Rimane
lo stupore. Oserei dire che ancora prima che nelle parole
il perdono, il perdono e la tenerezza, abitavano gli occhi
di Gesù. Era uno stile. Che era già messaggio. Noi come
chiesa siamo più a curarci delle parole, delle molte parole,
ma poco ci curiamo dello stile con cui entriamo nella vita
delle sorelle e degli uomini del nostro tempo, lo stile
di accoglienza per chi si è smarrito. Occhi freddi e immobili,
occhi giudicanti, occhi di ghiaccio non hanno mai messo
in cammino nessuno. Occhi in cui traspare un brivido di
tenerezza, di simpatia, di fiducia mettono in cammino. Il
perdono di Dio è un perdono che mette in cammino.
Non
si blocca al passato, anzi ci libera dal passato perché
non continui a incupirci gli occhi, perché non continui
a pesarci come una sorta di maledizione sulle spalle. Dio,
con il suo perdono, ti vuole libero, ti fa libero di camminare
nell''oggi. Non è forse vero che Gesù diceva: "Ti sono perdonati
i peccati. Alzati e cammina"? E non ci parla forse d questo,
di un germogliare inatteso della grazia, l'inizio dl ministero
di Francesco, il vescovo di Roma? Con la sua insistenza
sulla misericordia, con il suo invito a far sì che nelle
chiese gli uomini e le donne di oggi trovino l'accoglienza
della misericordia? Con il suo invito a non aver paura della
tenerezza? La parola "tenerezza", che sembrava cancellata
da discorsi e da documenti di papi e di vescovi, si è improvvisamente
riaccesa nella chiesa per le parole di Papa Francesco.
Per
ben sei volte nel suo discorso di inizio pontificato, con
un invito ben due volte a non averne paura. Diceva: "Non
dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!"
E non è forse commovente il fatto che alla folla radunata
per il suo primo "Angelus" un papa abbia detto che lui la
misericordia l'ha imparata non solo dal libro di un suo
cardinale, ma dalle parole di un umile donna di Buenos Aires.
Prima ricordò che la misericordia, secondo il card. Kaspers,
è il meglio che possiamo sentire: "Cambia il mondo. Un po'
di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto".
Ma poi subito aggiunse: "Ricordo, appena Vescovo, nell'anno
1992, è arrivata a Buenos Aires la Madonna di Fatima e si
è fatta una grande Messa per gli ammalati. Io sono andato
a confessare, a quella Messa. E quasi alla fine della Messa
mi sono alzato, perché dovevo amministrare una cresima.
E' venuta da me una donna anziana, umile, molto umile, ultraottantenne.
Io l'ho guardata e le ho detto: "Nonna - perché da noi si
dice così agli anziani - nonna, lei vuole confessarsi?".
"Sì, mi ha detto. "Ma se lei non ha peccato …". E lei mi
ha detto: "Tutti abbiamo peccati …". "Ma forse il Signore
non li perdona …". "Il Signore perdona tutto", mi ha detto,
sicura. "Ma come lo sa, lei, signora? ". "Se il Signore
non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe". Io ho sentito
una voglia di domandarle: "Mi dica, signora, lei ha studiato
alla Gregoriana? ", perché quella è la sapienza che dà lo
Spirito Santo: la sapienza interiore verso la misericordia
di Dio".
Siamo
in molti oggi a chiederci come mai questo "miracolo", che
uomini e donne del nostro tempo, nel giro di poche ore,
siano rimasti colpiti, oserei dire affascinati, dalla predicazione
del perdono, così insistente nelle parole di papa Francesco.
Non sarà che a rendere credibile il messaggio sia proprio
la tenerezza che abita lo sguardo di un papa, di una chiesa,
il nostro sguardo?
|