OSARE
LA SPERANZA
alla
presentazione del libro "Osare la speranza"
di Suor Rita Giarretta e Sergio Tanzarella
presso la Fondazione Lazzati
24 settembre 2012
Mi
ero fatto un proposito e forse lo sto violando. Era questo:
parlerò poco, quando arrivano compagni di viaggio,
stalli ad ascoltare. Perchè Suor Rita e Sergio
non sono scrittori di libri, o forse anche, ma soprattutto
scrittori di vita, scrivono lettere, le lettere vengono
dalla vita.
E
permettete che affastellando i pochi, tra i molti pensieri
che mi vennero leggendo questa loro lettera, lasciate
che la chiami così, io inizi dal titolo. Che mi
ha fatto sussultare: "Osare la speranza". Ho
ritrovato nel testo parecchie volte il verbo osare. Lettere
per la speranza. Io la speranza la sento tradita: quelli
che hanno anni pesanti, come i miei, la speranza la sentirono
avvampare nei giorni dopo la resistenza, nei giorni dopo
il Concilio.
Ora
le vele sono afflosciate, mi è capitato di scrivere,
e subito dopo mi sono sentito presuntuoso:
Come
barca in rada
vele afflosciate
annuso il vento
E urlo, a compagni a riva,
soci di sconfinamenti,
il sogno dell'azzardo.
Presuntuoso!
Il sogno dell'azzardo viene dal Sud, non viene dai documenti.
Confrontavo il titolo "osare la speranza" con
un altro titolo deprimente che ho trovato sul quotidiano
dei cattolici, e poi riciclato in altri documenti, il
titolo era "organizzare la speranza". Qui sta
il nodo tra una chiesa del sud e una chiesa del nord,
tra una chiesa maggiore e una chiesa minore: una organizza,
l'altra osa.
E
al cuore mi vengono le ultime parole di una preghiera
di un vescovo francese, vescovo di Saint Denis, morto
nel 1996, Mons. Guy Deroubaix: "una chiesa"
diceva "di cui la gente non dica "vedete come
sono ben organizzati", ma "guardate come si
amano".
Qui,
o anche qui, la differenza tra questo libro, tra questa
lettera che Suor Rita ci manda e i documenti ecclesiastici.
La
lettera nasce dalla strada o se volete dalla casa e non
dai palazzi, per questo i documenti nati dai palazzi sono
senza vento. Questo libro potrebbe essere letto a partire
dall'immagine del vento, il vento dello spirito di cui
Gesù diceva: non sai di dove viene e dove va. Guarda
dove arrivano donne e uomini condotti dal vento! I documenti
dall'alto sono prescrittivi, dicono dove devi rimanere,
dicono la rigida appartenenza, dicono i confini, il vento
fa sconfinare.
Forse
leggendo vi meraviglierete che queste parole, che sono
di passione e di coraggio, vengano da una suora, da alcune
suore, che non hanno fatto della loro congregazione un
monumento immobile. Come succede a congregazioni che,
nate per dare istruzione alle ragazze più povere,
finiscono dopo qualche secolo a creare scuole per i più
ricchi. Qui invece le suore si interrogano sul carisma
di chi le ha fondate e lo reinterpretano nella storia.
Una storia, quella che qui viene raccontata, che non è
finita. Avvincente coinvolgente, ma per grazia, non finita.
Un atteggiamento dello spirito che sembra ispirarsi a
quell'invito di un grande teologo protestante, questo:
"La bibbia e il giornale, in una mano la Bibbia,
nell'altra il giornale", parole di Karl Barth, che
prima di essere professore accademico era stato pastore
di un villaggio di minatori.
Un'altra
conferma alle convinzioni che da anni mi stanno accompagnando:
questa lettera che è racconto pieno di un "osare"
viene da una donna, cioè dal sud del mondo femminile.
Se siamo senz'aria è anche per questo, per questa
esclusione, per questa impronta falsamente maschile che
ripropone il pensare come un'esclusiva dei maschi, un
pensare dall'alto, negando dignità a un pensare
delle donne, un pensare femminile che nasce dal piegarsi
sulla realtà. Apriamoci a queste letture dal sud
del femminile. Di Gesù Alda Merini diceva: "Guardava
le donne come si guarda a dei fiumi che accompagnano la
vela sbatacchiata da tutte le parti e le sentiva amiche
essendo donna nel cuore".
E allora vi posso dire un sogno. Che la smettiamo di pensare
la chiesa in termini di gerarchia o di maschile -la gerarchia
è forse donna in qualche ambito? - e che non ci
intestardiamo a dare nome di encicliche solo a quelle
che vengono da una parte cosiddetta alta della chiesa,
ma da tutta la chiesa, una chiesa dove ci si scriva lettere
che devono circolare come mi sembra dire la parola enciclica,
"in circolo". Come circolavano lettere nei primi
tempi del cristianesimo. Facciamo circolare almeno queste
lettere. Perché forse è lontano, è
decisamente ancora lontano, il giorno in cui un papa si
affaccerà su San Pietro e dirà: "Ecco
oggi ci parla una donna" oppure "E' uscita una
nuova enciclica, viene da Caserta, da Casa Rut, è
a firma di donne".
Rincorro
ma per accenni alcune immagini del libro:
Ecco,
si parte dalla strada. Tenete nella mente questa immagine:
la strada. Suor Rita la chiama "luogo santo, dove
abita Gesù". Vorrei aggiungere "la strada,
un sacramento". Ne parla suor Rita quando parla dei
giorni in cui si era conclusa l'esperienza di una loro
presenza nel carcere femminile. Dice:
"Nel
frattempo, girando per le strade della Provincia per conoscere
il contesto casertano e incontrare le associazioni che
ne facevano parte, vedevo tante ragazze straniere, in
particolare di colore, lungo i margini delle strade. Per
me, donna e consacrata, sentivo che era forte la provocazione
che mi veniva da quelle donne che 'lavoravano' sula strada.
Non
mi bastavano le solite risposte: "Da che mondo è
mondo la prostituzione c'è sempre stata
;
è il mestiere più antico del mondo
".
Come donna e consacrata volevo conoscere, volevo capire,
sentivo il bisogno di incontrare quei volti.
Erano
in molti a dirmi che era pericoloso avvicinarle. Ma dentro
di me sentivo che era necessario un gesto coraggioso,
un gesto che aprisse la strada all'incontro con queste
donne. E così seguendo il cuore e non la paura,
l'8 marzo del 1997 , festa della donna, insieme ad altre
mie amiche volontarie sono andata sulla strada a portare
a queste donne, che sentivo mie sorelle, un fiore e e
un messaggio di amicizia" (pag 39-40).
La
strada dunque, luogo del grido, dove abita Gesù.
E
vorrei aggiungere un'altra immagine o forse due, quelle
custodite nel nome dato alla dimora: "Casa Rut",
una immagine che contraddice alla radice altre immagini
di equivoca solidarietà.
"Casa
Rut": casa non istituto, non una istituzione. Casa,
che cosa dice casa? Non uno sopra e l'altro sotto, non
un dispensare dall'alto una elemosina. Dice essere alla
pari tra chi ospita e chi è ospitato, scambiarsi
affetto, pensieri, inventare insieme progetti. Dice la
voglia di una casa anche per te, per il tuo futuro. Casa
dice anche voglia di una chiesa-casa, dove delle donne
come in Casa Rut siano" maestre di libertà
e di autonomia", come annota Sergio. Casa dove vuoi
che l'altro fiorisca, nei suoi colori e non nei tuoi.
E dove l'altra, la immigrata, fa fiorire te. Leggete le
pagine dove suor Rita racconta che cosa quelle donne dal
nome straniero le hanno insegnato: diventare e ed essere
madre, la forza della parola, il silenzio, la positività,
la fierezza dell'essere donna.
Casa
e fu aggiunto di "Rut", come segno di un luogo
dove non succede che stai un po' e poi ti scaricano e
chi ti ha visto ti ha visto! Ricordate Rut, la moabita
che dice alla suocera che non vorrebbe sradicarla dalla
sua terra per portarla nella propria, dice: "Non
insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza
di te, perché dove andrai tu, andrò anch'io,
e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà
il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove
morirai tu, morirò anch'io e lì sarò
sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora,
se altra cosa, che non sia la morte, mi separerà
da te".
"Dove
andrai tu, andrò anch'io, e dove ti fermerai, mi
fermerò".
La
strada, la casa, e lasciate che per un attimo io ritorni
sulle lettere, il coraggio delle lettere scritte da Casa
Rut. Perché i problemi vanno oltre la casa, investono
la terra.
Le
lettere che scorriamo nel libro, dicono che nella casa
si è sentinelle vigili su ciò che accade,
testimoniano una passione. Sono lettere di denuncia e
di appello alla responsabilità, lettere che dicono
un "no" scomodo, come quello detto dal sindaco
di Pollena, Angelo Vassallo, dei "no" - si scrive
nella lettera - che possono raggiungere anche il prezzo-dono
della vita, dei "no" che si possono dire solamente
se c'è passione e amore per la propria terra e
per la propria gente, passione e amore che sembrano non
essere più presenti in chi oggi è chiamato
a rappresentarci a livello istituzionale. A tutti noi
egli (Angelo Vassallo) lascia una traccia da solcare,
dove osare insieme il coraggio di gettare semi di legalità,
di giustizia e di cura dell'ambiente anche nel nostro
territorio, perché è di tutti la bellezza
e l'aria pulita; gli alberi e il mare". Lettere che
sottolineano l'attenzione alla storia, il giornale, in
difesa dalle mattanze per cosche, e sono "campagne
di impegno civile in difesa e a favore dell'acqua pubblica,
con la partecipazione a manifestazioni per la pace, per
i diritti dei migranti, per la difesa di un territorio
contro lo scempio creato dalle cave e dall'apertura di
discariche senza nessun requisito di sicurezza per i cittadini".
Lettere
firmate a volte da un vescovo, il vescovo Raffaele Nogaro,
che incoraggia a stare sulla strada, che firma le encicliche
delle donne, che la sera in incognito va a trovarle e
svuota la tasca dalle caramelle. Un vescovo in incognito
nelle case, senza accompagnamenti e bardature. Che come
ha insegnato il Concilio non dice "la chiesa e il
mondo" ma "la chiesa nel mondo". Un mio
sogno che Sergio volle benevolmente porre all'inizio del
libro, un sogno che mi era ritornato anni fa visitando
in Turchia la grotta di Pietro:
Grotta
di Pietro,
Chiesa dei sandali
senza bastone
né due tuniche.
Nuda fede,
la tua, Pietro,
ombra che guarisce.
Noi,
Chiesa delle due tuniche,
lucentezza senza guarigione.
E
lasciate che finisca qui, con la figura del vescovo in
incognito, che mi ha riportato alla memoria un altro vescovo,
che sognava una chiesa libera, una chiesa che ascolta,
e parla solo dopo aver ascoltato. Voi avete capito chi
è.
Aveva
scritto quell'anno una lettera di Natale, iniziava come
se fosse al telefono "Pronto, sono Carlo Maria il
tuo vescovo, vengo da te
". Un mio amico, Silvio
Barbieri, che nella sua casa aveva lungo gli anni ospitato
ragazzi e giovani affidati dal tribunale, scrisse al Vescovo
Martini. Gli disse: "Conosco una donna che ha avuto
una vita desolata, un figlio che era stato da noi, poi
finito in carcere e ora agli arresti domiciliari. Pensi
che gioia se sollevando la cornetta del telefono, sentisse
dall'altra parte una voce: "Pronto sono il tuo vescovo,
voglio venire da te", chiuse mettendo l'indirizzo.
Mandò al Vescovo la lettera per Natale. L'undici
di febbraio il Vescovo Martini entrò in incognito
in quella casa popolare, salì i gradini, bussò
alla porta.
Anche
lui mosso da una voce. Dalla voce di chi vive sulle strade.
Anche noi mossi questa sera da questa voce.