SONO FORSE IO IL GUARDIANO
DI MIO FRATELLO?
Vorrei
iniziare - perdonatemi se rubo del tempo, ma è
come un debito di amicizia, cui non mi riesce di sottrarmi
- dicendo qualcosa che mi riguarda, confessando cioè
che cosa passa nel mio animo ora che mi accingo a parlare,
ora che il mio sguardo si posa su questo luogo e su di
voi. Ve lo devo svelare. Provo emozione. Una grande emozione
per questo luogo, dove le pietre parlano del Dio vivente,
ma parlano anche di uno, padre David Maria Turoldo, che
le ha amate, le ha fatte parlare, le ha cantate.
"Archi,
capitelli, colonne" cantava Padre David
"voi non siete che forme dello spirito,
la sintesi; egli si è fatto in noi
di carne, noi ci siamo fatti in voi
di pietra, per essere tutti insieme l'Unità.
E come ogni mattone ha bevuto una goccia
del suo sangue, cosi ognuno canti ora
la nota della sua misurata libertà.
Perché voi siete tutti insieme l'Armonia.
E quando forse gli uomini non parleranno
più di lui, continuate a parlare voi, o pietre".
Ricordo
come fosse oggi, e sono passati più di trent'anni,
il tavolo, il grande tavolo, nell' abbazia e noi intorno
al grande tavolo e le grandi mani di David e la Bibbia,
il grande Libro. Senza quel Libro, senza quella Parola,
sarebbe stata inspiegabile, senza cifra, ogni pagina della
sua vita. David liberò la Parola, il Libro da ogni
sequestro ecclesiastico. La fece vibrare nella vita. Sulla
piazza. E proprio perché entrava nella vita, la
sua non era una parola neutra: il vangelo non è
né pallido né evanescente. Ha forma, ha
colore.
Sento
la distanza, ecco il secondo sentimento, la immensa distanza
dalla sua voce di profeta, la mia è fragile, in
tutti i sensi. Sento inadeguatezza, pensando a chi mi
ha preceduto in queste meditatio dello spirito e chi mi
seguirà, come mi sentissi fuori misura. Ma anche
salvato, questo mi conforta, dalla loro riflessione e
dalla vostra intelligenza dello Spirito.
Entro
nel racconto di Caino e Abele racimolando pensieri. Provvisori,
in attesa di altri pensieri in aggiunta, i vostri.
E'
un testo drammatico, ma drammatica è la vita. Il
testo fa parte dei racconti delle origini. E' come se
si toccasse qualcosa di profondo del terrestre e quindi
di ciascuno di noi, qualcosa che è l'in principio
di ogni vivente. E lo fa con una domanda: "Sono forse
il guardiano di mio fratello proprio io?".
Ma
la domanda nel dialogo tra Dio e Caino è preceduta
da un'altra domanda. È risposta a un'altra domanda,
quella di Dio: "Dov'è Abele, tuo fratello?".
Una domanda che doveva essere di voce possente, una forza
da tuono, per passione! Perdonate l'esegesi fantasiosa.
Perché di tuono? Perché doveva, per essere
udita, superare in quell'ora il grido della voce dei sangui
che saliva dalla terra. "Dei sangui" è
scritto, al plurale: "la voce dei sangui di tuo fratello
è giunta fino a me". La voce aveva compiuto,
in un baleno di minuto, il tragitto più lungo che
esista, dalla terra al cielo, e ancora gridava. A Dio.
Ripeto, in ebraico "la voce dei sangui" e dunque
quel sangue, quello di Abele, era plurale, sposato ai
gridi di sangue, che sarebbero saliti nella storia, dalla
terra. E non solo dalla terra, anche dai cieli e dai mari,
anche dal nostro mare, che ha cancellato il suo nome di
mediatore fra le terre, mare mediterraneo. Mare da cui
viene ancora grida per sangue, per soffocamento di sangue.
E
Dio alla difesa dei sangui, a chiedere conto dei sangui.
Quel giorno Caino sopra la voce dei sangui udì,
a domanda, la voce di Dio: "Dov'è Abele tuo
fratello?". Udì la domanda. Mi chiedo, e vorrei
sperarlo, se la voce di Dio oggi riesce a superare in
forza i gridi dei sangui e a chiederci ragione: "Dov'è
Abele, tuo fratello? Dimmi dov'è!".
E
mi fa tuffo, tuffo nel cuore, la parola "fratello",
legata, per legatura inestricabile, al nome "Abele",
anche se il nome è un soffio. Voi sapete che Abele
in lingua antica, in ebraico ha radice di soffio. Pensate
per sette volte la parola "fratello" nel piccolo
nostro brano, sette volte, come dire un uragano di "fratello",
una misura colma, che di più non si può,
una misura di fraternità che di più non
si può, sposata ad ogni Abel, a ogni soffio di
vita di uomo, a ogni creatura per il solo fatto di essere
un soffio, la parola "fratello" sposata ad ogni
umano essere vivente, sposalizio indissolubile, per consacrazione
da un Dio.
Si
era creata, pensate, sulla terra una situazione nuova,
permettete che mi esprima così, un inedito nella
storia, avveniva per la prima volta. Prima di allora un
uomo, Caino, aveva conosciuto solo la condizione di figlio,
un titolo da spartire con nessuno, figlio unico, mai conosciuto
un fratello. Il fratello che può essere vissuto
come una risorsa o forse anche come un antagonista, uno
che chiede di spartire, uno che chiede terreno, chiede
spazio, chiede un posto nella casa e alla tavola, mentre
prima il terreno era tutto suo, la tavola tutta sua, il
posto era solo il suo.
E'
scritto che il Signore guardò ad Abele e alla sua
offerta, ma a Caino e alla sua offerta non guardò.
Difficile da interpretare. Quasi impossibile e defatigante
attraversare il mare delle mille interpretazioni. Forse
potremmo pensare, e dovremmo allora trarre le conseguenze,
che Dio deve avere uno sguardo particolare per un uomo
se è un soffio, se è un povero debole soffio,
avere un occhio di riguardo per il più debole,
quello che rischia in vita. Come fanno padri e madri per
il figlio debole, come non fa la nostra società.
Ma lo fa la chiesa? Avere un debole, un occhio di riguardo
come lo ha Dio, per l'orfano, la vedova, lo straniero,
quelli che non esistono come diritto, come uomini, tanto
meno come fratelli. Glielo abbiamo scippato il nome, esistono
come nomi generici: gli immigrati, i precari, i poveri,
i diversi, ma non come uomini, non come fratelli. E Dio
dalla loro parte, perché gli altri, vedete, si
difendono da sé, hanno chi li difenda, questi no.
Dio dalla loro parte. Per pareggiare.
"Guardò
ad Abele". A volte anche si pensa, a fraintendimento,
che Dio ci guardi quando le cose vanno bene e non quando
le cose ci vanno male. Forse potremmo anche pensare che
a quel soffio di uomo che era Abele le cose andavano bene,
mentre non andavano bene a Caino. E nasceva tumulto in
lui, tumulto che si gonfiava fino allo straripamento,
fino alla volontà di sparizione del volto dell'altro,
fino a pensare che le cose sarebbero andate bene eliminando
lo spazio dell'altro, eliminando la concorrenza, sacrificando,
per difesa di interesse, l'altro, per voglia di non spartire,
per la difesa del capitale. Succede quando il tuo interesse,
il tuo successo, il tuo potere vale più di un uomo.
L'altro per idolatria di capitale ucciso, oggi forse in
modo meno rozzo, più raffinato. Che non appaia
il sangue. Magari licenziando. Con strategia che non urli
il sangue. Ma urlo rimane, urlo mai soffocato, per Dio.
"Stiano a casa loro! Che ci tocchi spartire con loro
la nostra terra?" Lo pensava Caino.
E
Dio alza, sopra il grido dei sangui, la domanda e già
sarebbe grazia sentirla nell'aria. "La divinità"
ha scritto Erri De Luca "a Caino non ha chiesto un
alibi, dov'eri, ma se sa dove si trova Abele. È
una domanda senza scampo e vale per sempre e per chiunque.
Chi non sa la risposta, replicherà da socio di
Caino: Sono io il custode di mio fratello?".
Sì,
ne sei il custode, ti è affidato e tu sei affidato
a lui. L'avventura più bella della vita, quella
che fa bella una vita: essere affidati gli uni agli altri.
La
domanda viene a noi: "Sappiamo dov'è Abele?"
Ma,
lasciatemi dire, la domanda non è una domanda geografica.
E' una domanda che chiede conto, non di un luogo, ma di
una condizione. In che condizione, lo sai in che condizione
è quel soffio di uomo? Lui è un nome vuoto
se non lo collochi nella realtà della sua situazione,
se non lo vedi in situazione. Quante volte il prossimo
è un nome, facciamo discorsi generici. Facile essere
guardiani di nomi vuoti, di cui riempiamo dichiarazioni
e documenti. Mentre la situazione, il "dov'è
dell'altro" grida, è voce di sangue. Quante
volte lo dimentichiamo! Mettiti nei suoi panni. È
come se dimenticassimo che l'altro ha pensieri, ha cuore,
ha sentimenti, ha un corpo, ha bisogno di sperare, di
mangiare, di godere, di amare, di vivere come noi. Ha
la tua dignità. Amalo. È come te.
Sappiamo
dove abita? "Ogni uomo" scrive Enzo Bianchi
"deve sempre sapere dove si trova l'altro, deve sapere
dove egli si colloca rispetto all'altro, se in un rapporto
di vicinanza oppure di estraneità. Chiedere: "Dov'è
tuo fratello?", equivale a chiedere: "Tu hai
il volto rivolto verso di lui, per sapere dove sta? Tu
guardi l'altro?"
Può
patire una distanza, credetemi, anche la parola fratello.
Diventata nome vuoto, uomo o donna sconosciuti. Vi devo,
per onestà interiore, fare una confessione, questa:
che quando parlo di fraternità e, in genere, di
carità, se sfuggo all'inganno delle mille facili
spiritualizzazioni e teorizzazioni del termine, ho come
la sensazione che mi rimanga incollata alla pelle una
sorta di ipocrisia. Che ho avvertito, spero di non scandalizzarvi,
qualche anno fa per esempio, nei giorni in cui si celebrava
l'uscita dell'enciclica "Caritas in veritate".
In quei giorni, in una di quelle sere, me ne venivo di
sotto i portici di via Verdi a Milano verso via Montenapoleone
dove ora abito. Mi venne quella sera di pensare e di scrivere:
Ho
visto uomini
vestiti di porpora e bisso
firmare lenti,
senza rigo di pianto
occhi distanti
con stilo d'oro
da stanze ingessate,
la verità dell'urlo
della terra,
vesti strappate
scritture di pianto,
caritas sine veritate.
Ho
visto cuochi
senza rossori
celebrare estasiati
meraviglie di piatti
l'ingordigia dei grandi.
Poi ho sentito
volti truccati
declamare intenzioni
sempre intenzioni
solo intenzioni,
salvi solo
i loro interessi,
sabbia negli occhi
scavati a fame
dei poveri della terra,
caritas sine veritate.
Ho
visto un uomo
ero io
venire per strade
di quartieri alti
incrociare la notte
dei denudati della terra,
resti arresi
di umanità depredata
in sacco a pelo
rifugio notturno
fuori dei palazzi
a esibizione di moda.
Ho visto un uomo
ero io
passare
entrare in una casa
e dormire in un letto,
caritas sine veritate.
E rossore sul volto.
A volte mi rimane l' impressione che certe parole dell'evangelo
le abbiamo come esiliate, o scolorite, slavate, tra queste
la parola "fraternità". Quando lo avverto,
ho un attimo di sospensione. Come la domenica quando mi
rivolgo all'assemblea e dico "fratelli e sorelle
carissimi". E che cosa sai di loro? Sai dove sono?
"Sono
forse il guardiano di mio fratello proprio io?".
Pensate, è come se Caino l'avesse cancellato dagli
occhi! Non se ne dovevano occupare gli occhi. Dunque è
anche una questione di occhi. Essere guardiani o se volete
custodi significa, in primis forse, non permettere che
quel soffio d'uomo sia cancellato dai tuoi occhi.
Timothy
Radcliffe, che per anni fu a capo dell'Ordine dei Domenicani,
lo scorso anno, in un suo commento a come vanno le cose
oggi, ha scritto: "Tutte le società rendono
visibili certe persone e ne fanno scomparire altre. Nella
nostra società sono ben visibili i politici e le
star del cinema, i cantanti e i calciatori, che si presentano
continuamente in pubblico, sui cartelli pubblicitari e
sugli schermi televisivi. Ma rendiamo invisibili i poveri.
Essi non compaiono nelle liste elettorali. Non hanno volto
né voce. Nemmeno gli immigrati illegali possono
permettersi visibilità: se non hanno i documenti
a posto, devono cercare di non dare nell'occhio. Devono
apprendere l'arte di mimetizzarsi. Quando il papa andò
a visitare la Repubblica Dominicana, il governo fece costruire
un muro lungo il tragitto, dall'aeroporto al centro città,
per impedirgli di vedere le baracche dove vivevano i poveri.
La gente adesso lo chiama "il muro della vergogna".
E noi, abbiamo il coraggio di guardare i nostri poveri
e di lasciarci commuovere da loro? Quali muri della vergogna
costruiamo nella nostra società per nascondere
i poveri?".
Guardate
che questo fatto è una parabola, parabola inquietante
di come vanno le cose. Come possiamo dirci guardiani o
custodi, se non distruggiamo i muri, cioè le distanze,
se visitiamo da lontano, non a millimetro di occhi e di
viso e di voce? Se visitiamo dai palchi?
Diceva in una sua intervista anni fa Ermanno Olmi: "Non
si può amare un bosco, se lo si vede solo come
una fabbrica di ossigeno. L'amore nasce da un rapporto
diretto e c'è un solo modo per conoscere la foresta:
inginocchiarsi e guardarla da vicino".
Forse
potremmo continuare all'infinito: c'è solo un modo
per conoscere Dio, per conoscere una donna, un ragazzo,
una città, un fratello, un uomo per il semplice
fatto di essere un uomo
: "inginocchiarsi e
guardarli da vicino".
Guardare
da vicino e diventare guardiani! O, se volete, ricordarci
di essere guardiani dell'altro. Per vocazione guardiani.
Perché per legatura di nozze, al nostro nome oltre
che il nome di fratello, legato è anche il nome
di guardiano. Quasi una professione. Qual è la
tua professione? Sono guardiano. Di volti e di popoli.
Vorrei
terminare con due brevi riferimenti biblici al termine
"guardiano", "custode", questo nome,
questa professione che ci nobilita.
Tanto
nobile la professione che pure Dio se la è attribuita
e dunque nella speranza e nell'attesa che anche noi, evocando
il suo modo di essere guardiano, anche noi ce ne lasciassimo
sedurre, ci lasciassimo contagiare dalla bellezza.
Un
primo accenno lo raccolgo dal salmo 121, dove il termine
"schomer", guardiano, custode sembra martellante,
sette volte, come se il proposito fosse che ci rimanesse
stampigliato inestricabile nella mente. Leggo il canto
delle salite:
Alzo
gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l'aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore:
egli ha fatto cielo e terra.
Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d'Israele.
Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.
Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.
Colgo
nel salmo un particolare: "Non si addormenterà,
non prenderà sonno il custode di Israele",
e dunque chiamati a non lasciarci addormentare nella custodia
dell'altro. Combattendo, resistendo contro l'effetto oppiaceo
di troppe immagini di personaggi del nostro tempo, di
troppi poteri, di troppi mezzi di comunicazione che hanno
un effetto anestetizzante, tolgono vigilanza, sulla devastazione
di un popolo. Come è possibile che alziamo la voce
dopo un ventennio di devastazione di un popolo? Non abbiamo
forse sonnecchiato, dov'era la vigilanza, la custodia?
E
accenno a un altro particolare della custodia di Dio,
guardiano del suo gregge attingendolo dal rotolo del profeta
Ezechia, là dove Dio, parlando di sé, dice:
"Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo
e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio.
Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò
all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita
e curerò quella malata, avrò cura della
grassa e della forte; le pascerò con giustizia"
(Ez 34, 15-16).
Mi
affascina, e mi chiama, questa immagine del Dio pastore
che misura il passo su chi fa più fatica, sulla
pecora malata, stanca, incinta. Mi chiama, come voce di
sangui, dentro una stagione dove, chi più che meno,
subiamo il contagio di un delirio di onnipotenza, di travalicamento
dell'altro, dell'altro che ha il passo incerto, debole,
lento. Dove impera la politica dello scarto: chi non sta
al passo va nello scarto, lo scarto accettato come una
necessità, per logica illogica del capitale, del
mercato. Una condizione cui non si può sfuggire,
dicono.
Vi
confesso che di tanto in tanto mi ritrovo a invocare per
me la passione del Dio custode e pastore, a invocare per
me i suoi occhi e le sue mani. Vorrei avere occhi e mani,
io che, a volte, oltrepasso ciò che sconta fragilità
e debolezza. Vorrei avere i suoi occhi, le sue mani. Quelli
di Gesù, il pastore bello, il custode bello, occhi
e mani che accarezzavano, si incantavano, restituivano
valore alla piccolezza, alla debolezza, alla fragilità.
Delle persone e delle cose.
Non
dovrei fare memoria di chi sconta fragilità e debolezza
io che credo in un Dio che raccatta pezzi, i miei pezzi?
Come mi è capitato di scrivere:
Perdo
pezzi
e tu li raccogli
alle spalle, Signore,
tu Dio dell'orfano e della vedova,
tu Dio dei frammenti,
tu hai compassione
del non intero,
dei pezzi di pane avanzati,
tu che non vuoi
che si perda nessuno.
Perdo pezzi di voce e di occhi,
di memoria e di cuore.
Dietro
alle spalle tu ti chini
e raccogli
Ho
racimolato pensieri. Ora c'è un oltre, il vostro
oltre, l'oltre dei vostri pensieri.
Angelo
Casati
(Abbazia
di S. Egidio - Fontanella, 20 ottobre 2011)