articoli di d. Angelo


 
ANCORA LA MIA PICCOLA VOCE PER LE DONNE

A coloro che mi conoscono potrà sembrare strano che io, da cattivo ripetente, oggi riprenda un mio articolo scritto nell'estate dell'anno 2007.

Mi sono detto: devo scrivere, devo alzare la voce per le donne. Quasi un obbligo, obbligo di stima e di amore. Lo sento come un obbligo anche perché donne che stimo si chiedono il perché del silenzio assordante non solo del mondo femminile, ma anche di quello maschile, per la dignità violata. Una assenza di indignazione corale. Quasi una resa. Al sultano e alla mentalità di cui lui è il disgustoso emblema. Con rare eccezioni al silenzio. Una, su tutte, vorrei ricordare per debito di amicizia: la voce ostinata, per grazia ostinata, di Gad Lerner per il corpo delle donne.

Devo anche confessare che da questa accusa di silenzio in parte mi sentii, in un primo momento, ferito, perché la mia piccola voce mi sembrava di averla levata, ancora anni fa. Ma oggi mi dico: non basta, non basta averla levata una volta.

Perché ritorno ad alzare la voce, riproponendo pensieri maturati anni fa? A spingermi è, certo, l'attualità di un involgarimento che attinge i vertici, ma è anche una questione di chiesa, una insurrezione anche nei confronti di immagini di chiesa. A spingermi è anche quanto è avvenuto in questi giorni in Francia, nazione di confine. Un "Comité de la jupe", un "Comitato della gonna", ha convocato per una marcia non solo donne ma anche uomini, e non solo laici ma anche vescovi e religiosi e preti. Per una marcia che gridasse il disagio dell'offesa alla dignità delle donne, nella consapevolezza però che il problema del posto della donna nella chiesa è emblematico di molti altri problemi attuali: la mancanza di rappresentanza dei laici, la discriminazione verso certi gruppi, l'impossibilità di far sentire la propria voce.

E dunque a spingermi ad alzare la voce. lo confesso, è stata anche la battuta infelice che diede origine alla nascita del Comité de la Jupe, promosso da due donne laiche cattoliche Anne Soupa e Christine Pedotti. Nel novembre dello scorso anno infatti il Card. André Vingt-trois, arcivescovo di Parigi, interrogato sul posto delle donne nella chiesa, rispose in questi termini: "L' importante non è avere una gonna, importante è avere qualcosa nella testa".

La battuta infelice purtroppo fa il paio con quella, altrettanto infelice e disgustosa, che fece anni fa il cardinale Giacomo Biffi, a cui volli - forse qualcuno ricorda - anche allora con sdegno replicare. Anche quella sua battuta andava a svelare quale mentalità ancora serpeggi in certi uomini di chiesa. Anche quella volgare.

Così si espresse allora il Cardinale. "In fondo chi si sposa rinuncia a due miliardi e mezzo di donne meno una. Io invece a due miliardi e mezzo di donne: la differenza è pochissima". Certo il tono era di chi sta scherzando. Ma l'argomento è delicato. E quando il tema è delicato l'umorismo intelligente è cosa rara. Anzi rarissima. Mi sentii ferito come uomo e come cristiano. Che non fa questione di numeri. Per me il volto, uno solo, di una donna vale più di due miliardi e mezzo di altri volti. Irriducibile. Irriducibile alla logica della quantità, la logica che fa dire a qualcuno: "Io di donne potrei averne una infinità, anche senza pagarle".

Dovremmo insorgere. Come in Francia le donne del "Comitato della gonna". Rimane.tra gli interrogativi inquietanti anche questo: perché l'indignazione si fa movimento corale in una nazione a noi così vicina e non in Italia?

Oggi ancora qualcuno si scandalizza dell'abuso dei corpo della donna, quando l'abuso è nelle strade e prechè non scandalizzarsi e insorgere quando l'abuso - e non di un giorno - è nei media, è nel costume, è nella vita politica?

Ripropongo i pensieri di una estate di due anni fa. Come piccola voce, ancora la mia piccola voce per le donne. Voce di indignazione per una dignità ferita.

Sento l'amarezza per una società che si riempie la bocca di proclami sulla raggiunta parità delle donne e, davanti al grido, all'urlo degli abusi, altro sembra non sappia fare se non invocare misure repressive, senza mai o quasi mai aggredire il male alle radici. Strano indecoroso fariseismo di una società che non insorge contro una mentalità, ampiamente, supinamente sposata, che è il vero bacino di coltura dei fenomeni che stanno sotto i nostri occhi.

Educare al volto dell'altro, ai sentimenti, alla tenerezza, al rispetto sempre e comunque, in un mondo che celebra il primato dell'io arrogante e prevaricatore, sembra ormai arte improponibile, da cancellare dai codici, strumenti vecchi, fuori uso, arrugginiti dal tempo.
Oggi si fa scempio - e nemmeno ci si rende conto, tanto si è ubriachi della propria immagine - dei sentimenti, incuranti delle ferite, quasi il volto fosse terra di nessuno. Da invadere e calpestare.

E l'esempio, cattivo esempio, viene dall'alto. Parole che dissacrano mistero e dignità delle donne, parole volgari che feriscono a volte femminilità e dignità anche delle persone più care, parole in assenza di pudore, pronunciate con fare accattivante. E nessuno che insorga, nessuno che gridi indignazione per una dignità ferita, per una femminilità che chiede di essere sfiorata onorando, accarezzando. Con mani quasi sorprese da mistero. Anche qui invece è in voga, e tristemente, l'invasione, l'occupazione, lo sfruttamento. Di corpi e di anime.

Da "prete minore" quale sono, soffro lo scarto tra le parole e la realtà, tra le proclamazioni di principio, che costano meno di un briciolo di voce, e la realtà, così desolatamente triste e lontana. Questa società, a mio avviso, ha un debito nei confronti della donna. Ha molto da farsi perdonare. Ancora.

Questa chiesa, anche, ha un debito nei confronti della donna, ha molto da farsi perdonare. Purtroppo. Ancora.

Vedo. E soffro la distanza. La distanza tra la Parola, quella di Dio e la condizione della donna nella chiesa. Tra le parole, le molte parole della chiesa sulla donna, e la sua reale condizione all'interno della chiesa. Vedo. E soffro la distanza.

Le donne amiche. Di tanto in tanto le accarezzo con lo sguardo. Le sento defraudate, come se nella chiesa non fossero stimate né amate per quello che sono. Al di là delle proclamazioni. E soffro del ritardo. Ritardo di stima, di affetto, di riconoscimento. Il recupero, ognuno lo vede, è lento. E a volte ambiguo. Vedo. E soffro l'ambiguità.

È diventato luogo comune dire che le donne hanno spazio nella comunità ecclesiale, che delle donne oggi sono piene le chiese. Ci si dovrebbe però chiedere se la presenza sia prevista sì, ma prevista per lo più per una funzione di servizio e di conservazione.

Di tanto in tanto le guardo e la mente mi corre alla casa di Betania, alla lezione dimenticata di quella casa, dove il Rabbi di Nazaret non sopporta che una delle sorelle, Marta, sia confinata e impoverita in un ruolo di servizio, nel ruolo di donna affaccendata: "tu" sembra dirle "sei molto di più: tu, come tua sorella, puoi stare con me in una relazione diversa, in una relazione di scambio interiore, e non primariamente in una relazione di scambio di servizi. Tu sei molto di più, tu puoi condividere con me pensieri, orizzonti, e sogni". Vi immaginate che cosa succederebbe nella chiesa se papi, vescovi e preti chiamassero le donne a condividere pensieri, orizzonti e sogni?

Vedo e soffro. Soffro la distanza, in una chiesa dove il pensare e il decidere è riservato ai maschi e, contrariamente alla lezione del Maestro, le donne sono chiamate ad eseguire. Si pensa e si decide nelle stanze alte. Là non c'è spazio, nemmeno nell'immaginario, per un sedere alla pari, donne e uomini mescolati. Mescola sacra sarebbe, perché evangelica.
Da dove nascono i pronunciamenti, i documenti, gli orientamenti, i piani pastorali? Da dove vengono se non da un mondo maschile? E respirando fin dal loro incipit a un polmone solo, quello maschile, come potrebbero non denunciare fiato corto e asfittico?
Permane in non pochi ambiti il pregiudizio, duro a morire, che la mente sia privilegio dei maschi: gli uomini la mente, le donne il cuore. Quanto lontani ancora dall'intuire che ci sia un pensare, non intriso di fredda razionalità, causa, questa, e non ultima, dell'aridità dei molti documenti ecclesiastici.

Quanto lontani ancora dall'intuire che c'è un pensare che conduce a sconfinamenti. Non sarà anche questo il pensare femminile? Ancora una volta lontani - quanto!- dalla lezione evangelica della donna dei cagnolini, che indusse Gesù, il Maestro, lui, l'unico Maestro, a "sconfinare", il giorno in cui a lei, donna pagana, donna dell'oltre confine, oppose un rifiuto: "non è bene" le disse "gettare il pane ai cani". "È vero" gli replicò la donna "ma anche i cagnolini si cibano delle briciole del pane che cadono dalla tavola dei loro padroni!." Il Maestro imparò dalla donna. E quel giorno sconfinò. Sconfinò nel territorio dei cagnolini.

E già aveva sconfinato, secondo un altro vangelo, per via di una donna, sua madre, alle nozze in Cana di Galilea. Aveva sconfinato sulla sua ora. Alla madre che lo aveva invitato a fare qualcosa, lui aveva risposto: "Donna non è ancora giunta la mia ora". La madre lo fece sconfinare sull'ora, in un giorno di nozze. E fu vino buono fino alla fine. E fu ora di ebbrezza. Ebbrezza comune.

A volte mi viene fatto di chiedermi se all'origine di tante immobilità ecclesiastiche, all'origine di una chiesa restia a sconfinare, non ci sia anche questa ritrosia a lasciarsi condurre dalle donne, così come il Rabbì di Nazaret si lasciò condurre dalla donna dei cagnolini e da sua madre. Vedo e soffro la distanza. La distanza dal vangelo.

Soffro a volte la sensazione, che nei fatti, al di là delle parole, nei loro confronti, nei confronti delle donne, permanga un pregiudizio, quel pregiudizio circa il puro e l'impuro, che Gesù scardinò quando rivendicò la purezza di ogni realtà vivente, attribuendo al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.

Soffro la sensazione che nella chiesa, al di là delle parole, la donna sia in qualche misura ancora sospettata, come la si ritenesse portatrice di qualcosa di imprevisto, di oscuro, come se la sua femminilità fosse abitata da una forza pericolosa. Non sarà anche per questo che le donne vengono per lo più celebrate dalla chiesa per la loro maternità, la donna madre, che non per la loro femminilità, la donna in quanto donna? In quanto donna, secondo il racconto della Genesi, e non in quanto madre, lei con l'uomo, immagine del Dio creatore! O non dipenderà anche da questo la fatica di concepire una sessualità che non sia legata a filo stretto con la procreazione, quasi che questa sia alla fine, lo si dica o no, la purificazione dell'inquietante femminile? Ancora una volta lontani dal Maestro che si ritrovò più volte a celebrare mani di donne che l'avevano unto e profumato e a criticare, senza giri di parole, l'accoglienza misurata e senza tenerezza degli uomini religiosi.

Nella casa, ancora a Betania, in giorni che già odoravano la Passione, ancora una donna colse, sola fra tutti, una verità più profonda di quel Rabbì, colse il segreto del suo cuore turbato. E lo unse di tenerezza. E la casa si riempì di profumo.

Dare spazio al femminile nella chiesa, a tutti i livelli, avrebbe come risultato, non ultimo nell'importanza, un dilagare di profumo nelle nostre comunità ecclesiali, che così spesso e così pesantemente, corrono il rischio dell'appiattimento nella figura burocratica della istituzione, comunità senza calore, senza profumo. Un profumo che non abita le verità gelide né le distanze, abita mani che toccano e ungono: "La verità è ciò che arde. La verità non è tanto nelle parole, ma negli occhi, nelle mani, nel silenzio. La verità sono occhi e mani che ardono in silenzio" (Christian Bobin).

Ce lo ricordano le donne. Lo ricordano alla società e alla chiesa. E chi ha spazio faccia spazio.

don Angelo

P. S. Chi volesse scoprire lo sconfinare coraggioso delle donne del "Comitato della gonna" in terra di Francia potrà leggere con sussulti di speranza il discorso con cui Anne Soupa concluse la marcia di ottobre, reperibile cliccando www.finesettimana.org, cercando: Rassegna stampa, 12 ottobre, "discorso al termine della marcia dei Cattolici cittadini/Cattoliche cittadine".


 
 
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