Adora
ogni cammino e sosta ad ogni torrente
Non ricordo il pulsare delle stelle fuori dall'aeroporto
di Linate, quando all'inizio di settembre - era ancora notte
- ci demmo appuntamento per un viaggio, agli occhi di qualcuno
un po' strano, agli occhi di altri troppo avventuroso. Partivamo
per l'Uzbekistan. Non ricordo il pulsare delle stelle.
Ricordo
invece, come fosse oggi, il pulsare delle stelle, fuori
dell'aeroporto di Tashkent, la notte del ritorno. Ricordo
che prima di mettere piede dentro le luci, quasi a porre
uno stacco dall'atmosfera convulsa che di lì a poco
avrei respirato nell'aeroporto, frenai la corsa della valigia
e mi girai all'indietro a contemplare, in un grembo di cielo
di un buio assoluto, il parlottare segreto delle stelle.
Ancora una volta mi ricordai di Abramo, chiamato da una
voce a una numerazione impossibile: a contare le stelle!
A qualcuno mai riuscì la conta delle stelle? Contava,
lui, uomo del cammino, in una notte lontana. E, a mezzo
della conta, penso, di tanto in tanto prendeva fiato e si
ridiceva la promessa: "Ancor più numerosi i
miei discendenti!" si diceva.
Tra
i suoi discendenti, nel grembo delle stelle, noi che partivamo,
ma anche quel popolo che stavamo per lasciare, il popolo
uzbeko, nella stragrande maggioranza fatto di musulmani.
Anche loro legati per discendenza al padre della fede, Abramo.
Un padre nomade. E nomadi i figli, uomini e donne del viaggio.
Ti
dirò che, di ritorno, per una strana concatenazione
di fatti, mi avvenne di riflettere sulla dimensione del
viaggio, essenza della fede, che ci costituisce radicalmente
nomadi. E se non siamo nomadi, non siamo credenti, ma uomini
e donne degli idoli. Una dimensione che mi è stata
richiamata anche da un libro affascinante di un monaco amico,
Sabino Chialà, del monastero di Bose, il libro ha
un titolo: "Parole in cammino" (Qiqaion, Comunità
di Bose) e, insieme, dall'ultima rivista di un altro gruppo
di amici, gli amici di "Ore Undici". L'ultimo
numero della loro rivista portava un titolo: "In cammino".
Chi
cammina sperimenta una sorta di spaesamento. Non solo fisico.
Ma anche mentale, spirituale. Chi viaggia sperimenta, mi
si perdoni la brutta parola, una sorta di "provincializzazione"
dello spirito. Chiusi in noi stessi diventiamo a volte,
consapevolmente o no, provinciali. Fino ad illuderci che
il mondo, la fede, la civiltà, la cultura, la bellezza
finiscano nello spazio ristretto che noi abitiamo.
Lasciateli
tronfi a ripetere
con assoluta
impassibile certezza
da case senza finestre
senza cuore di nomadi
che la loro
è l'unica civiltà del mondo.
Tu indugia
e adora ogni cammino.
Sosta ad ogni torrente
e tocca il nuovo
dell'acqua. E canta
il Dio delle infinite sorgenti.
In
terra uzbeka, a Khiva, a Bukhara, a Samarcanda abbiamo vissuto
una sorta di spaesamento e di seduzione: ci siamo incantati
alla bellezza mozzafiato di mausolei, di moschee, di minareti,
di madrasse, le meravigliose scuole coraniche. Sorridono
le moschee, sorridono i cieli né sai dove inizi e
dove abbia fine il sorriso. Si incantano i giorni. Si incantano
le notti, quando nel cielo blu scuro sfumano in sagome colorate
cupole di moschee e minareti.
Maioliche
sorridono a Dio
in cieli
stupefatti d'azzurro.
E a minareti e madrasse
stupiti s'incantano
e fioriscono i cieli.
Sorride Dio
all'ingegno,
alla bellezza dei figli
fatti ad immagine
della nuda invenzione.
Ti
prende la sensazione che civiltà millenarie qui,
sulla "via della seta", si siano date convegno,
fermentandosi, direbbe il cardinale Martini, l'un l'altra
e generando bellezza. E non può non stupirti che
il miracolo dell'arte sia fiorito nella povertà nuda
del deserto.
Attraversiamo
sabbie e sabbie, grigie e calde, su una pista sconnessa
che buca di sete l'oltre che è oltre.
Su
sabbie pallide,
greggi e greggi di arbusti,
velati di grigio,
succhiano l'ultima goccia
al deserto,
mentre asini e capre
brucano lenti
a passo d'eterno
il pieno del nulla.
Un
deserto che ti sorprende con il suo tempo diverso. Forse
anche gli automezzi qui hanno un tempo diverso. Siamo fermi
nel viaggio, e più di una volta, a spiare con occhi
d'ansia gli autisti che mettono mano alle cinghie di un
motore bruciato dal tempo e dal deserto. E rivivi i versi
di Bertold Brecht:
Siedo
sul ciglio della strada.
Il guidatore cambia la ruota.
Non mi piace da dove vengo.
Non mi piace dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?
Ma
forse anche il deserto, questo brucare di stenti, questo
suo improvviso accendersi al verde ogni volta che le sabbie
succhiano un nulla d'acqua, mi dà l'immagine, commovente,
di questo popolo che, preso da fierezza, sta strappando,
alle sabbie di un passato di schiavitù, un'ora di
grazia. E l'ora di grazia dei piccoli, l'ora di grazia del
riscatto, passa forse anche attraverso le tele colorate,
i ricami fantasiosi, i tappeti istoriati, che ti agitano
ogni dove. Ti dirò che, al primo impatto, patii tutto
ciò come una sorta di arrembaggio, di invasione.
Poi mi avvenne di guardare da un altro orizzonte, come se
i piccoli volessero svelare a noi occidentali la fantasia
e l'ingegno di un popolo. E io, che nel cuore mi ero andato
lamentando che nei chiostri delle scuole coraniche ricami
e tappeti e tele disturbassero l'armonia perfetta delle
forme, alla fine cominciai a pensare che quella era la dura
necessità di un popolo e che a vendere, dopo tutto,
erano i poveri, i piccoli. E forse era per il pane di quel
giorno.
Più
non so, ti confesso,
se oggi il profeta
di Nazaret
agiterebbe qui la sua frusta
infuocata
dello zelo, a rovesciare
bancarelle e mercati
che succhiano
bellezza e mistero
a moschee e madrasse.
Più non so.
Questo mercato dei piccoli
narra il sogno segreto
di un pane quotidiano,
il pane
della fame
di un giorno.
Come
a dire che c'è mercato e mercato. E vanno superate
le distanze.
Finché
tu abiti, rintanato, il tuo mondo, finché ti neghi
il rischio del viaggio, sei socio solo di presunzioni e
pregiudizi. Datti un cuore nomade, cammina, avvicina, osserva
senza parlare, tocca con il tuo sguardo la pelle dell'altro.
"Ci
guardano come fossimo bestie. Voi questa sera, no."
Così ci dissero - e gli occhi erano lago di tristezze
infinite - i quarantasette rom, che abbiamo ospitati una
notte, giorni fa, nella nostra parrocchia. Mi capitò
quella notte di emozionarmi a contemplare il viso scavato
e stanco di Virginio, di Massimiliano, di Maria Grazia,
soli, lotta impari, a lottare contro il montare di un brutale
imbarbarimento. E noi a chiederci dove si è rifugiata
l'immagine di una vera umanità. Noi a chiederci se
non dovrebbe essere la fede, che ci fa costituzionalmente
nomadi, a difendere ancora l'ultimo squarcio di umanità
in tempi di abbrutimento. E come non gioire invece ad ogni
segnale che guarda al futuro. Alcuni giorni dopo quella
notte, i quarantasette romeni furono ospiti alla capanna
della comunità ebraica, allestita in piazza Cordusio.
E a fare gli onori di casa il rabbino Shamuel Rodal. "Noi
ebrei" disse "quando ci incontriamo diciamo shalom,
che vuol dire pace e che deriva da un'altra parola: completezza.
Voi ci completate e noi completiamo voi." Essere nomadi,
in cammino verso la completezza che ti attende nel paese
dell'altro.
Il
viaggio vero dunque è dentro. Metti in viaggio l'anima.
Come è scritto nei versi stupendi di Jalal Al-Din
Rumi, mistico musulmano:
Anche
se tu non hai piedi, scegli di viaggiare in te stesso,
come miniera di rubini sii aperto all'influsso dei raggi
del sole.
O uomo! Viaggia da te stesso in te stesso,
ché da simile viaggio la terra diventa purissimo
oro.
don
Angelo
|