articoli di d. Angelo


 

ARTURO PAOLI E LA BENEDIZIONE DEI CENTO ANNI

Arturo Paoli il 30 novembre compirà cento anni. Già sono iniziati i festeggiamenti. Un coro di amici si leva da ogni dove a esprimere a Dio la gratitudine per averlo incrociato, per averlo avuto compagno di sentieri. Mi porto il ricordo di un piccolo libro, di commenti ad alcuni brani dei vangeli, che me lo hanno fatto scoprire quando ero giovane prete. Ha visitato, nella mia storia di prete, come fa un amico, prima la parrocchia di S. Giovanni in Lecco, poi quella di S. Giovanni in Laterano in Milano. Molti di noi ne tengono cara e sacra la memoria nel cuore.

Due anni fa uscì un suo libro intervista a cura di di Silvia Pettiti, Arturo Paoli "Ne valeva la pena", edizioni S. Paolo. Mi chiamarono a parlarne in una sera di pioggia sferzante presso la libreria delle Paoline, in via Albani. Ho pensato di farvi partecipi dei pensieri di quella sera e delle emozioni che avevo provato leggendo l'intervista di Silvia, un modo, anche questo, per raccontare di lui alle mie amiche e ai miei amici. Un modo per abbracciarlo da lontano, per dirgli che è stato, ed è, per noi una benedizione.

Dopo la lettura del libro di Silvia su Arturo, vi confesso che io faccio fatica, molto fatica a raccogliere pensieri. Fatica non per vuoto, per assenza. Ma per affollamento. Durante la lettura la tentazione fu di fermarmi di tanto in tanto e di sostare in silenzio, come quando fai un viaggio. Ad assaporare, a godere di visioni. Ma poi i giorni del viaggio sono pochi e bisogna vedere altro. E riparti. A scorrere le pagine.

Non vi posso consegnare una presentazione organica, completa, articolata di questo libro. Chi mi conosce sa che questa capacità non mi appartiene. Vado per sussulti e trasalimenti. Forse per immagini. Immagini che mi hanno colpito.

E inizio dicendo che nel viaggio, nel viaggio del libro, ci accompagna una donna. E non è poca cosa. Ci accompagna il femminile. E così siamo salvi. Salvi dal pericolo di un parlare da geometrie che nascono dall'alto: le donne si chinano sulla terra e pensano. Pensano a partire dalla terra. Anche Arturo è affascinato dal femminile della vita. Da cui nasce un pensare, dico un pensare - perché succede ancora oggi di sentir dire che gli uomini pensano e le donne sentono - un pensare delle donne, che però viene dalla vita. Dalla vita su cui ci si è chinati. Nasce dal basso.

C'è dunque questo accompagnamento nel libro, quasi fisicamente visibile le parole di Arturo in corsivo, quelle di Silvia nel carattere normale, ma non certo nella normalità di un pensare spento.

Forse non è una biografia nel senso che comunemente diamo a questo termine. Almeno in due sensi non è una normale biografia. Primo, perché succede, più spesso di quanto si pensi, che chi scrive biografie attribuisca ai personaggi di cui scrive i propri pensieri. Qui non può succedere perché il testimone di cui si narra è presente, è in dialogo diretto, e subito ti stopperebbe se tu deragliassi. Ma per un secondo motivo non puoi contenere questo libro nell'immaginario delle normali - o, se volete, poco normali -biografie: perché normalmente si racconta il personaggio alzandolo in zone aeree. Mostri di perfezione che, anziché affascinarti, ti mettono in fuga. Qui non succede né Arturo né Silvia sopporterebbero. Qui ti fai compagno di viaggio.

Il viaggio lungo viaggio - "ne valeva la pena"! - inizia con gli occhi di un ragazzo di otto anni, 14 dicembre1922, che in piazza S. Michele a Lucca è spettatore di una aggressione fascista: il tuono di uno sparo e due uomini distesi a terra immobili. Negli occhi del ragazzo le chiazze di quel sangue. E la madre a insegnargli che "noi dobbiamo impegnarci perché nel mondo ci sia più amore, perché le persone imparino a volersi bene". Insegnamento di una donna a un ragazzo. E non sarà uno degli ultimi decisivi insegnamenti di Arturo vicino alla soglia dei cento anni, l'invito estremo ad "amorizzare" la terra?

Perché Arturo ha voluto partire da questo racconto? Chi legge il libro scopre, come uno dei fili conduttori della sua vita, non dico l'unico ma certo uno dei più luminosi, sia il fascino della libertà, una libertà pagata a volte a caro prezzo, da Arturo, che l'ha onorata e pagata da uomo che ha i piedi nella storia. Così dentro la storia che raccontare la sua vita per Silvia Pettiti diventa raccontare pagine e pagine di storia, del nostro paese, della chiesa, della terra, Silvia ci fa rivivere eventi che forse per smemoratezza avevamo cancellato, o che forse ancora ignoravamo. Arturo lo trovi dentro, come se vi fosse impigliato per fedeltà, per passione, lo trovi dentro i drammi e le speranze che ci hanno abitati in questi decenni.

Lo troverai giovane prete partecipe della resistenza, a rischiare la vita per i perseguitati, onorato dagli ebrei con il riconoscimento di "giusto fra le nazioni". Lo senti dire, parlando del virus del fascismo che tutti voleva contagiare: "grazie a Dio eravamo attrezzati abbastanza per riconoscerlo e respingerlo fermamente. Vivevamo la storia del nostro tempo come storia di libertà secondo l'insegnamento di Hegel e la libertà che cercavamo era il senso della nostra via" (p. 20). Il senso della nostra vita!

Lo troverai con questo anelito profondo a onorare la libertà nei giorni della chiesa preconciliare, una chiesa tentata dai modelli trionfalistici e autoritari, chiesa arroccata in difesa, in esibizione di se stessa, chiesa delle adunate, che ama cristiani di ubbidienza cieca. Confessa Arturo: "C'erano alcuni democristiani eletti in questo parlamento che dicevano tranquillamente: 'è facile stare in parlamento, basta votare sì quando il deputato comunista vota no e votare no quando vota sì'".

Proprio per la sua distanza da questi modelli e per la distanza che prendeva da questi modelli il gruppo dell'Azione Cattolica con cui sognava, la sua esperienza romana conoscerà il dramma dell'esclusione, esiliato come coloro che cercano il messaggio liberante del vangelo, coloro che il loro unico appoggio lo mettono, non nelle strategie umane, ma nella parola del loro Signore.

Nei suoi ricordi Arturo va a una donna, scalza e invecchiata precocemente, di Sardegna, che, salita sul treno sfilò dai bagagli un giornale e si mise a leggerlo; quando scese, uno dei suoi compagni di viaggio, commentò la cosa come l'arrivo anche in Sardegna di un tempo in cui non ci si sarebbe più potuto aspettare un comportamento morale e anche Dio sarebbe stato cacciato presto da quella terra. Arturo ne scrive in un articolo e commenta: "Quante volte in discussioni simili ho ricordato che Mounier osservava che ci soni al mondo degli uomini "sordi" alla persona, incapaci perciò di intuire e di gustare a fondo tutte le più piccole novità che annunziano il sorgere della persona. Questi non sanno apprezzare negli altri che una obbedienza acritica e gregaria e non vedono, nel ridestarsi della coscienza, nel voler rendersi conto dei propri potere e della propria autonomia, che una forma di ribellione. Il fascismo - uno che comanda e gli altri che sanno solo seguire e ubbidire - prima di essere un'espressione in politica, è un costume morale, è un atteggiamento spirituale, anzi, direi una deformazione dello spirito. Eppure da che nella storia opera il lievito cristiano, la storia non ha altro senso che liberare progressivamente l'uomo. Quando facciamo questo, quelli che hanno fatto del cristianesimo la ragione di vita, vi trovano una conferma inequivocabile di aver scelto la verità… La contadina sarda, che legge il giornale e, a poco a poco, si fa presente alla vita del mondo e partecipa più coscientemente alla faticosa marcia dell'umanità, è una espressione, modesta se volete, che il fermento cristiano è operante nel mondo presente"( p.58).

E sulla nave dell'esule, la nave con cui accompagnava gli emigranti, ecco il nascere, in Arturo, di un obbedienza più adulta alla chiesa: "La mia lunga crisi di obbedienza è infine sfociata in una obbedienza più adulta: mi ha guidato l'obbedienza di Gesù che ubbidisce al sabato disubbidendo alla pratica del sabato …Il tormentoso cammino che mi ha portato a questa obbedienza non mi ha portato a tacere le critiche verso la Chiesa per le sue incoerenze. Ne ha però spostato l'obiettivo, non pretendendo di cambiare la chiesa, ma aiutare la formazione di gruppi che vivano profondamente la sintesi tra l'obbedienza alla chiesa e l'obbedienza ai poveri, alla storia, al Regno di Dio" (p.71).

Il cammino portò poi Arturo nel deserto accanto a forme di vita cristiana liberate da mille orpelli, leggere e luminose della radicalità del vangelo, sarà l'inizio della sua esperienza della povertà con i Piccoli fratelli di Charles De Foucauld.

La liberazione per Arturo non è solo quella degli altri, tale la intendono non pochi uomini di chiesa che si sentono così altamente liberi da riservarne il cammino della liberazione agli altri, mettono infatti in discussione gli altri, mai se stessi. Per Arturo c'è una libertà interiore da conquistare. O forse meglio a cui aprirsi. A partire da quei suoi mesi di noviziato nel deserto che per lui furono un cammino, Arturo uomo dei cammini. Scriverà di fratel Milad, suo maestro nel deserto: "Il solo vederlo, ascoltare la sua lettura del vangelo, mi faceva scoprire quanto io fossi complicato, barocco, uomo 'vestito di splendide vesti' anche se ridotto al silenzio". "Era morto un Arturo" dirà "e ne era nato un altro... Era morta la fede libresca, era nata la fede libertà" ( p. 83).

Uomo della tenda Arturo. Ora la tenda sarà nell'America Latina. Lo troverai a fianco degli impoveriti della terra, i depredati della libertà , oppressi dai nuovi risorgenti faraoni. I suoi piedi nella storia.

Ho usato l'immagine della tenda per dire lo stupore che ti prende per un'anima come la sua, per un cuore come il suo. Rileggendo questo suo incontenibile andare, la memoria mi andava a una poesia che scrissi molti e molti anni fa, forse quaranta:

E forse più che una casa,
spenta immagine della mia fissità,
ho sognato per te una tenda
caldo rifugio per una notte.
Ma subito è il miracolo dell'alba
e tu instancabile la vai arrotolando
alla ricerca di nuovi orizzonti.
Sempre oltre
per ininterrotti sentieri
che solo amore inventerà.
Andare di terra in terra
di amore in amore
perdutamente.
E all'ultimo orizzonte
scoprire
che Dio non era
nelle stanche parole
nel gelo dei monumenti.
Era nel brivido
del tuo inquieto cammino.

Era come se per Arturo la fedeltà a se stesso fosse quasi una vocazione a mettere la tenda altrove.

Potremmo leggere le pagine che raccontano lo spostarsi della tenda di Arturo da una terra all'altra come il suo bisogno insopprimibile di condividere sogni di libertà che non dovevano restare muti sulla carta, ma dovevano prendere voce nella carne ferita dei popoli, una condivisione non da lontano, a distanza da ferita. Ma da vicino, ad annullamento di distanza e dunque a minaccia di ferita. A minaccia di morte, a rischio di morte, per Arturo.

E che non fosse la carità ridotta a elemosina! Spesso nel suo raccontare parla con tristezza di questa logica da cui la chiesa non riesce ad uscire: incapace di uscire da un orizzonte di elemosina per entrare in un orizzonte di giustizia.

Ma, lasciatemi dire, la tenda della vita di Arturo dice certo mobilità, ma dice un andare recando un evangelo che assicura "ci sono", "ci sono per voi". La tenda dunque dice anche incontro, radunarsi parlarsi. Comunicare. Scambiarsi pensieri alti e cose piccole. Dice intimità. Ricordando l'amicizia nella tenda, mi venne spontaneo anni fa scrivere:

E dimora
all'infinito migrare
una tenda:
ombre segrete,
parole dissepolte,
luce
che trema
sui volti.

La tenda dice la relazione. Arturo uomo della relazione, noi stessi contagiati da questa sua capacità di vivere l'ottavo sacramento dell'amicizia, quel suo tessere fili ininterrottamente, l'arte dell'amicizia. Secondo lui "la sua vita avventurosa e polemica sarebbe stata una rovina se non fosse stata contenuta da due argini: il primo l'amicizia , il secondo lo stare sul'ultimo gradino" (p.141).

Sull'ultimo gradino perché, vedete, nella tenda della sua vita Arturo è il viandante che se da un lato dà, dall'altro conosce anche l'arte di ricevere. Riceveva, lo sottolineo. Quante volte nel libro incontriamo le sue riflessioni su quello che ha ricevuto, lungo la vita, dai poveri. I poveri considerati quasi sempre nella chiesa come oggetti di cura e non come soggetti e protagonisti.

Sentitelo: "Chi come me è vissuto per anni confidando solo nella ragione, osserva ora che il lavoro delle mani dà frutti più sani e più saporiti dei prodotti del pensiero. Finché non saremo capaci di assimilare l'esperienza di coloro che affondano le mani nella terra e toccano continuamente la materia, avremo un mondo con questi squilibri" (p.172).

E ancora: " Ho scoperto, e mi ci sono voluti anni, che i poveri nascondono sotto la loro mitezza, il loro curvare la schiena davanti al potere, una energia indomabile: a loro Gesù ha affidato il segreto di sconfiggere la morte. La solidarietà con loro è il segreto per partecipare a questa debolezza che vince il mondo" (p.184).

Nelle terre dell'America Latina Arturo ha conosciuto questa chiesa che rivive più da vicino, nel calore di una tenda, l'immagine delle comunità cristiane delle origini. Dovunque è andato ha costruito esperienze che erano segno di fraternità, non declamata ma vissuta. Il libro porta nomi di luoghi e nomi di persone. Confessa - e sono parole che andrebbero scritte fuori delle porte delle nostre parrocchie, a memoria - : "Penso che l'uomo di oggi abbia bisogno di comunità cristiane che lo facciano esclamare 'guardate come si amano' piuttosto che 'guardate come sono ordinate e come sono bravi'" (p.187).

Nella tenda a pregare, a leggere le Scritture, a operare per la giustizia, per la difesa della libertà e della dignità di ciascuno. Con il fiato leggero e il calore della tenda. Ho usato la parola "leggero", perché la notizia buona del vangelo ha anche la leggerezza di un canto. Ricordo che, quando arrivai qualche anno fa ad un Convegno di "Ore Undici", un'associazione che per Arturo ebbe ed ha il calore di una tenda, mi accompagnarono a salutarlo nella sua camera. Mentre stavamo conversando, si affacciò un amico che gli lanciò a bruciapelo la domanda: "Arturo" gli disse "salto in lungo o salto in alto?". Lui rispose disarmante: "No, la danza".

Ma tutto questo che ho cercato di dirvi e che troverete con parole ben più vive nel libro di Silvia, ha in Arturo un segreto, la sua intimità, con l' Amico. Confessa Arturo nelle ultime pagine del libro: "Infine che dire? La nostra vita è la storia di una relazione con l'Amico, che riesce ad essere presente intensamente ad essa, quantunque invisibile, e a comunicarle il suo progetto" (p.225).

Vorrei concludere con queste immagini bellissime che chiudono il libro: "Il vecchio non è in casa in questo tempo, vive in una piccola barca senza remi e senza motore, che scivola lentamente su un fiume pacifico verso l'estuario. Non aspettatelo sulla riva, perché non tornerà: come può tornare se non ha remi? E' molto contento, sta molto bene, dalla riva lo si vede solo, ma l'Amico è con lui ed è molto esperto di cammini d'acqua … Guardatelo dalla riva; avete tempo, potrete anche dialogare con lui, perchè l'acqua scorre molto lentamente. Se vedete la barca agitarsi, ora sapete perché, ma non temete: l'Amico lo tiene per mano, soavemente o con energia, e non lo lascerà fino all'incontro con l'Infinito" (p.226).

"Ne vale la pena". Certo vale la penna leggere il libro. Ma, ancora di più, valeva la pena incontrare nella vita un amico come Arturo.


 

 
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