COME
IL VENTO: NON SAI DI DOVE VIENE E DOVE VA
Su
spirito e ideologia
Sono
stato chiamato a parlare di "spirito e ideologia".
I miei amici sanno che da uno come me, ormai vecchio prete
in pensione, forse in pensione anche di pensiero, non ci
si può aspettare, su un tema così arduo, che
qualche sussulto, un andare meno per la logica e forse più
per immagini o per parole che trascinano un'emozione.
Ebbene,
vi dirò, l'ideologia la sento come un muro, la cittadella
fortificata, in cui non c'è posto per un pensare
altro, diverso dal nostro, da quello dei "nostri".
E già questa parola "i nostri" è
parola che fa muro.
Vorrei
partire da una lettera che ci è stata mandata nel
febbraio del 2007, una lettera indirizzata ai cristiani,
e quindi a noi, da una cara amica, che qualcuno di voi conosce,
una filosofa, Roberta De Monticelli. La lettera è
un piccolo libro, dal titolo "Sullo spirito e l'ideologia",
sottotitolo: "lettera ai cristiani". Lettera,
a mio avviso, senza risposta, che mette in guardia dall'ideologia,
ne parla come di un male pervasivo e sinuoso e si chiede
come mai non ce se ne renda conto. Scrive a noi. A noi che
dovremmo sapere più di lei, dice, che cosa è
spirito, dato che è un nome di Dio, scrive con la
speranza di essere liberata da un dubbio che la fede, quando
approda in una istituzione. diventi ideologia, sistema chiuso.
"Mi aggiro" dice "per questo paese e non
posso fare a meno di stupire per la bellezza delle sue innumerevoli
chiese, per l'incanto dei suoi monasteri, per la povera,
affamata fatica dei suoi cercatori di spirito, per lo splendore
delle loro antiche biblioteche, per la luce di alcune loro
parole, delle vostre, amici. E penso che di molti mali è
stato chiesto perdono, che di alcuni forse non c'è
ancora chiara coscienza
Ma di questo? Come tacere di
questo, che è così pervasivo e sinuoso, così
inafferrabile e cangiante: l'ideologia?" (p.29).
Lettera
a mio avviso senza risposta, come senza risposta era rimasta
la lettera di un'altra donna Simone Weil, filosofa francese,
morta nel 1943 in un sanatorio, a 34 anni, con l'anima consumata
dalle tragedie della storia, antireligiosa da giovane e
poi approdata a una fede intensa, ma impedita dalla sua
stessa coscienza di attraversare la soglia dell'istituzione
ecclesiastica. Con queste parole apriva la lettera, "lettera
a un religioso", è il titolo del piccolo libro:
"Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento
mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che
vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i
mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento
con una specie di certezza che questa fede è la mia
o, più precisamente, lo sarebbe senza la distanza
che la mia imperfezione pone tra essa e me".
Capite
si sente affascinata dallo Spirito che è vento, che
filtra dalle pagine del vangelo, ma respinta dalla immobilità
di una istituzione che pretende di dare il nome di Dio a
parole umane, a codificazioni umane, pretende di imbrigliare
Dio al suo interno.
"L'ideologia" scrive Roberta De Monticelli "è
la degenerazione ottusa dell'ideale, quando gli si levano
gli occhi per vedere l'individualità e si spegne
l'attenzione infinita, necessaria a cogliere l'unicità
di ciascuna vita - o meno gravemente - la singolarità
di ciascuna situazione umana. In questo senso è l'adesione
cieca a una qualche visione del mondo, se mi passate il
paradosso" (p.29).
Mi
ha colpito molto questa immagine dell' ideale impazzito,
cui sono stati cavati gli occhi, in altre parole i nostri
principi, i nostri pensieri, che diventano un assoluto,
cui tutto deve piegarsi, anche la realtà. Di conseguenza
la realtà dell'individuo, la sua storia, così
diversa da tutte le storie, è come non esistessero.
Un assoluto cui chinarsi, davanti al quale non è
concepibile il dissenso, anzi va fatto tacere, perché
"noi abbiamo la verità", noi "vediamo".
Voi ricordate che già capitava ai tempi di Gesù,
capitava il "noi vediamo". che fa diventare ciechi.
Lo ricordava Gesù a quel gruppo di dirigenti giudei
che avevano fatto un interrogatorio da Sacra Inquisizione
al cieco nato, uno che non stava nei loro canoni. "Siamo
forse ciechi anche noi?" obiettano a Gesù. E
Gesù: "Se foste ciechi non avreste alcun peccato,
ma siccome dite: noi vediamo, il vostro peccato rimane"
(Gv 9,41). L'unico peccato, pensate, non perdonato, l'unico
di cui non ci confessiamo mai: la pretesa di avere noi la
verità e di imporla, magari con le leggi, agli altri.
L'ideologia
uccide. Non è forse vero che, in nome di una religione
ridotta a ideologia, a sistema chiuso, hanno fatto tacere,
uccidendolo, Gesù? In nome della religione ridotta
a ideologia abbiamo scritto pagine terrificanti di storia.
C'è da stare in guardia!
E
Roberta De Monticelli fa notare come lo spirito e l' ideologia,
che ne é lo stravolgimento "possano addirittura
inspiegabilmente succedersi nel cuore di una stessa persona".
E cita Bernardo da Chiaravalle che ha pagine tenerissime
di commento al Cantico dei Cantici, e nello stesso tempo
ha pagine terrificanti quando, in un trattato rivolto ai
cavalieri del tempio, una nuova milizia nata a Gerusalemme,
li dice, pensate, portatori di un disegno divino, questo:
"nello stesso luogo in cui Dio attraverso il suo Figlio
scacciò i principi delle tenebre, così ora
possa con la schiera dei suoi prodi sterminare i loro accoliti,
la progenie dei senza fede, realizzando ancora nel presente
la redenzione del suo popolo" (cit. in Roberta De Monticelli,
p.53). La redenzione con lo sterminio dei senza fede! A
questo conduce l'ideologia.
La
durezza del muro, la durezza della religione, chiusa al
di là del muro, nella pretesa arrogante della verità.
Mi è capitato di pensare che a ingentilire la durezza
e l'immobilità del muro, durezza e immobilità
che mi inquietano, e inquietano forse anche voi, a ingentilirlo
potrebbe essere solo una porta, o una fessura, dentro una
immobilità presuntuosa.
Pensando
al muro della presunzione, perdonate, mi ritornava alla
mente una barzelletta che parla di muro, molti di voi forse
la conoscono perché spesso a raccontarla è
un vescovo, il vescovo Luigi Bettazzi. Siamo in paradiso,
S. Pietro è guardiano alla porta. Arrivano dei buddisti.
Dice: "non preoccupatevi, c'è posto anche per
voi, poi vi porto a vedere". Arrivano dei protestanti,
stesse parole, arrivano musulmani, ebrei, induisti, ecc.
stessa accoglienza. E così via. Si forma un gruppo,
e allora dice loro: "venite, che vi faccio vedere",
e passano in rassegna il paradiso. Ma ecco che arrivano
a un muro, alto incombente, e san Pietro dice loro: "
Adesso giù la voce! Passate in silenzio, perché
di là ci sono i cattolici e pensano di essere solo
loro in paradiso".
Il
muro della ideologia. Che diventa presunzione della salvezza,
diventa scudo dell'identità. Che ci fa petulanti
su Dio, sui luoghi di Dio, nella presunzione di avere noi
l' esclusiva del luogo di Dio.
Ecco
allora un compito che oggi ci tocca, è questo: di
difendere Dio, difenderlo da certi religiosi petulanti.
"Difendere Dio" è il titolo di un libricino
che vi raccomando, che è la trascrizione di una conversazione
condotta da un'altra donna, una mia amica, conduttrice su
"radio tre" della trasmissione "Uomini e
profeti", Gabriella Caramore. L'interlocutore principale
è Moni Ovadia.
Difendere
dunque Dio da che cosa? Anche da quel terribile pericolo
che è l'uso banalizzato del suo nome: "per esempio"
dice Moni Ovadia "difenderlo dall' uso nefasto di tappezzare
i muri delle nostre metropoli con slogan perentori e intimidatori,
del genere 'Dio c'è, Dio ti ama' ecc." E Gabriella
Caramore ricorda che lo slogan 'io credo', fu usato anche
in manifesti elettorali, a voler sottolineare una supremazia
del candidato, che si dichiara "credente", rispetto
agli altri.
Leggendo
pensavo come diversa e vera difesa di Dio sarebbe un'altra
scritta, quella intravista da Don Gino Rigoldi in Sardegna
su una maglietta, avrebbe voluto riproporla su innumerevoli
magliette. La scritta era questa: "Dio esiste, non
sei tu, rilassati".
"Non
sei tu", difendere cioè la trascendenza di Dio,
con la consapevolezza che, quando ci avviciniamo al roveto
ardente del suo mistero, ci tocca togliere i sandali, perché
il luogo verso cui andiamo è terra santa (cfr Es
3,5).
Ma
forse dovremmo, lasciatemi dire, togliere non solo i sandali,
ma anche un'infinità di pensieri nostri e di tradizioni
nostre, che non hanno niente a che fare con Dio e il suo
Libro, con Gesù e il suo vangelo.
Sempre
in quella trasmissione con Gabriella Caramore, Moni Ovadia
raccontava un aneddoto ebraico: "Gli ebrei decidono
di non essere più ebrei, perché ne sono stanchi.
Così dicono al Padre Eterno: "Non vogliamo più
essere ebrei, vogliamo essere un popolo qualsiasi, siamo
stufi, ne abbiamo passate troppe". Il Padre Eterno,
con molta comprensione, risponde: "va bene, va bene
come dite voi; però almeno restituitemi quello che
vi ho dato". Così partono verso il cielo milioni
di vagoni con tonnellate di libri, di fogli, di discorsi,
di carte, finché esce la mano dell'Eterno a bloccare
il carico e la sua voce ironica spiega: "Eh no, ragazzi!
Un momento. Io di libri uno ve ne ho dato. Tutto il resto
tenetevelo voi".
Avere
dunque l'umiltà dello spirito che ci fa convinti
che "quando si parla di Dio, non è quasi mai
veramente di Dio che si parla".
Un
modo dunque aperto di pensare Dio e il suo mistero. Deborda
il mistero, fuori dai bordi. E dunque noi siano relativi.
Pensarci, sentirci, relativi. Sentirci poco. L'assolutezza
ci fa chiusi nel pensiero, nella predicazione, ci fa arroganti.
Sentirci assoluti ci chiude. Il relativismo apre, ci toglie
l'arroganza delle definizioni che fanno la morte di Dio.
De-finire è far finire Dio, è decretare la
sua morte.
Questa
consapevolezza ci fa usare più spesso una piccola
parola che non troviamo mai o quasi mai nei documenti, nelle
dichiarazioni ecclesiastiche, la paroletta "forse",
non l'aut aut, ma l' et et, è questo, ma anche altro.
Gesù usava le parabole, raccontava. Noi non usiamo
parabole, non raccontiamo, proclamiamo principi. Lui usava
parabole perché le parabole hanno nel loro incipit
un relativo: "Il regno di Dio" dice Gesù
"è come
". Non dice "è",
non dà la definizione, la definizione chiude. Diceva:
"E' come, assomiglia, ma è anche altro".
Altro dai nostri pensieri. E allora, quello che senti di
dire, dillo sottovoce. Con rispetto della Parola, l'unica
assoluta, quella del tuo Dio. E con rispetto dell'intelligenza,
anche questa è spirito, di chi ti ascolta.
L'urlo
chiude, il sottovoce apre. Non si tratta di indottrinare
ma di affascinare. Pensate la bellezza: affascinare gli
altri di Gesù e del suo vangelo. E affascinare non
significa certo richiudere Gesù in una tomba di codici
e definizioni, ma aprire cammini dietro di lui. E chissà
dove porteranno. Mi bussano alla mente le parole di un poeta
e scrittore francese che altre volte mi è capitato
di citare e che non finisce mai di provocarmi. Scrive Christian
Bobin: " Ho trovato Dio nelle pozzanghere d'acqua,
nel profumo del caprifoglio, nella purezza di certi libri
e persino in certi atei. Non l'ho quasi mai trovato presso
coloro il cui mestiere consiste nel parlarne". Ma ce
ne accorgiamo che molti se ne vanno per questo? Trovano
parole e non trovano Dio, trovano durezze e non il vento
dello spirito.
E'
raro incrociare uomini di chiesa, che, anziché fare
lamento delle idee incerte, a volte confuse, ricordino a
tutti le parole di Paolo, vere per tutti, anche per loro,
Paolo diceva, e usava il "noi", ci si metteva
dentro, diceva: "Ora vediamo come in uno specchi in
maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia"
(1 Cor, 13, 12) In maniera confusa: e questo è già
un parlare in modo aperto.
Qualcuno,
scandalizzando, parla di un' etica del dubbio. Ma, scrive
Gustavo Zagrebelsky, "Al di là delle apparenze,
il dubbio non è affatto il contrario della verità.
Ne è la riaffermazione, è un omaggio alla
verità, ma una verità che ha sempre e di nuovo
da essere esaminata e ri-scoperta".
E
allora vi dirò che, sarò un bastian contrario,
ma mi è cara questa dimensione umbratile della vita
e vorrei pregare Dio che me ne lasciasse una qualche misura,
anche nell'al di là.
Ricordo che in un vespero, in faccia ai monti, stupito dal
lento intenerirsi del cielo, mi venne di pregare:
"E
se sarà un giorno
luce piena nel tuo regno,
non negare, o Dio,
a questi poveri occhi
il crepitare segreto delle ombre.
Abito città
dove il sole è sempre
già alto".
Può
sembrare un pensiero bizzarro, ma forse non lo è
del tutto se il Cardinale Martini, nella prefazione al suo
libro-intervista "Conversazioni notturne a Gerusalemme,
riferendosi al fatto che quelle conversazioni tennero le
ore della notte, dice: "di notte le idee nascono più
facilmente che nella razionalità del giorno".
Capite, notte come grembo. E allora ci meravigliamo che
una chiesa, appiattita sulla razionalità del giorno,
sia sterile? Notte come grembo. Grembo dice nascita, dice
vita, e non ripetizione.
Vedete
la verità sta dietro, occorre togliere veli, "rivelazione".
Ebbene l'altro con la sua percezione della verità
mi aiuta a togliere qualche velo, e così, di svelamento
in svelamento, ci si avvicina. Forse dovremmo dire che la
verità, se è fedele all'immagine del vento,
non è monolitica, è plurale. Ce lo ricorda
un'altra donna, Barbara Spinelli, con un suo libro uscito
da poco, che ha un titolo suggestivo: "Una parola ha
detto Dio, due ne ho udite. Lo splendore delle verità"
(Laterza, pp. 90). Barbara Spinelli si richiama esplicitamente
a un versetto della Scrittura. Enzo Bianchi recensendo il
libro, scrive che "il bisogno dell'altro, del confronto
con il diverso non solo arricchisce umanamente, ma permette
di verificare e rinsaldare le proprie convinzioni e di farle
entrare in una dialettica vitale con quelle degli altri,
così da tradurre in norme condivise i principi fondamentali
di una vita umana e sociale degna di tal nome". "Un
testo pensato e che fa pensare, quello della Spinelli"
scrive Enzo Bianchi "un testo che può infastidire
chi ama rifugiarsi in una verità monolitica, affermata
una volta per tutte, ma un testo che in modo significativo
entra in sintonia con quanto affermato da uno dei più
limpidi testimoni cristiani in terra di dialogo, il vescovo
Pierre Claverie: "Credo in Dio, ma non pretendo di
possedere quel Dio. Non si possiede Dio. Non si possiede
la verità e io ho bisogno della verità degli
altri".
"Io
ho bisogno". Lo sentissimo dire da papi, da vescovi,
da preti! Sentissimo dire "Ho bisogno di voi laici,
di voi donne. Ma non per una collaborazione strumentale,
da dipendenti. No. Ho bisogno della vostra verità.
E' una parola che non sento all'interno della chiesa, così
clericale, così maschilista. Non la sento. E quando
la sento mi emoziono. Mi è successo leggendo il libro
del card. Martini cui prima accennavo. Quante volte nell'intervista
il cardinale, sovvertendo il principio gerarchico, dice
di aver imparato. Imparato dai giovani! Nell'intervista
il confratello gesuita gli pone una domanda "Invece
di essere lei a predicare, lascia che sia la gioventù
a illuminarla. Un nuovo principio pastorale?"
Risponde
il Cardinale: "Nella gioventù ho trovato la
più valida conferma di tale principio pastorale,
sempre che di questo si tratti. Nella Chiesa nessuno è
nostro oggetto, un caso o un paziente da curare, tanto meno
i giovani. Perciò non ha senso sedere a tavolino
e riflettere su come conquistarli o su come creare fiducia:
deve essere un dono. Sono soggetti che stanno di fronte
a noi, con cui cerchiamo una collaborazione e uno scambio.
I giovani hanno qualcosa da dirci. Essi sono Chiesa, a prescindere
dal fatto che concordino o meno con il nostro pensiero e
le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo dialogo
alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa, garantisce
dinamismo alla Chiesa: In tal modo l'affannosa ricerca di
risposte ai problemi dell'uomo moderno si svolge al cuore
della Chiesa" (pag. 47).
In
queste parole del Cardinale, più che nelle mie dissertazioni,
senti la fedeltà al vento dello Spirito. Che non
sai di dove viene e dove va: lezione mirabile questa, ma
dimenticata. Noi presumiamo di sapere dove va. E dove non
va. Abbiamo deciso che in certe donne e in certi uomini
non va. Che in certe case non va. Abbiamo anche detto, degli
uomini e delle donne che non credono in Dio, che non possono
essere eticamente corretti, perché, si dice, non
esiste una moralità se non si crede in Dio. Abbiamo
anche proclamato che se non si crede in Dio si arriva ad
ogni forma di perversione. Abbiamo sequestrato lo spirito,
gli abbiamo dettato noi dove stare. E finiamo, come quegli
scribi e farisei, per negare l'evidenza della realtà.
Certo se frequentiamo solo le nostre case e i nostri ambienti
o se entriamo nelle case degli altri non per ascoltare ma
solo per pontificare, non ci accorgeremo che quelle non
sono case vuote, ma case in cui lo Spirito ha preso dimora.
I non credenti non avrebbero una moralità? Ma fatemi
capire, fatemi capire come sia senza una moralità
un Luigi Pintor, un non credente, che diceva: "Non
c'è in un'intera vita cosa più importante
da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti
il collo, possa rialzarsi". Altro che casa vuota! Dio
ha anche altre strade che non sono le nostre. Siamo chiamati
a crederlo quando incrociamo sentieri che non coincidono
con quelli cosiddetti canonici. Siamo noi impermeabili al
vento, noi che non fiutiamo più il vento!
Imprevedibilità
del vento, ma imprevedibilità, secondo Gesù,
anche degli uomini e delle donne dello Spirito. Noi purtroppo
siamo molto programmati. Non è forse vero che coloro
che ci conoscono, potrebbe facilmente immaginare, indovinare
che cosa faremmo e che cosa diremmo, in determinate occasioni?
Sconfina
lo Spirito, dice Gesù, ma sconfinano anche i veri
credenti. Anzi questo, paradossalmente, sembra il loro segno,
non l'inquadramento - forse che lo inquadri o lo catturi
il vento? - ma lo sconfinamento. Mi sono allora detto: se
siamo troppo prevedibili, se tutti intono a noi indovinano
da dove veniamo e dove andiamo con i nostri pensieri, con
le nostre scelte, con i nostri progetti, se tutti sanno,
c'è da mettere più di un dubbio sulla nostra
testimonianza cristiana. Il vento non sai di dove viene
e dove va, così è di chi è condotto
dallo Spirito.
Mi
rimane a volte nel cuore un'immagine, quella delle imbarcazioni
in rada. Niente regata, non soffia il vento, vele afflosciate.
Se siamo fermi, sempre allo stesso punto, sempre attorcigliati
alla stessa riva, non sarà perché non fiutiamo
il vento, da dove spira e dove va, e non gli facciamo spazio
nelle vele, perché si gonfino e possiamo uscire finalmente
al largo?
E
benedetti coloro che ci aiutano ad uscire. E spesso, lasciatemi
dire, sono le donne, loro meno programmate, che ci aiutano
a uscire. Loro, per riprendere l'immagine del Card. Martini,
meno assimilabili alla razionalità fredda del giorno
e più al grembo creativo della notte. E' suggestivo
leggere nei vangeli che anche Gesù fu aiutato da
una donna a sconfinare. Ricordate l'episodio della donna
dei cagnolini: Gesù a una povera creatura, che gli
si inginocchia ai piedi, chiedendo aiuto per sua figlia,
risponde che il pane non lo si getta ai cagnolini. L' ideologia!
Anche lui deve capire. Anche in lui, il Signore, ci fu -
e qui lo vediamo - una crescita graduale in consapevolezza,
anche nella consapevolezza che fosse giunta l'ora in cui
andava superato ogni confine.
Guardò
la donna, ascoltò la donna, che si metteva sì
tra i cagnolini, ma gli parlava anche di un Dio che le briciole
certo non le può negare ai cagnolini. Altrimenti
che Dio sarebbe? Ascoltò l'insegnamento, la sapienza
teologica dei cagnolini. E passò, passò una
volta per tutte, il confine. Le disse: "donna, la tua
fede è grande".
Pensate
alla fatica e al tempo che ci volle alla chiesa per riconoscere
la fede oltre i confini dell'ideologia Ci vollero secoli
per giungere alla affermazioni limpidissime del Concilio
Vaticano secondo, che qualcuno già vorrebbe oggi
dimenticare e cancellare. Ne ricordo una fra le tante contenuta
nel documento "Nostra aetate, n.2", là
dove si afferma che "la chiesa cattolica nulla rigetta
di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa
considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere,
quei precetti e quelle dottrine che non raramente riflettono
un raggio di quella verità che illumina gli uomini".
Vedete
siamo arrivati a credere che in coloro che non sono della
nostra fede c'è un raggio di luce. Gesù -
l'avete sentito - è più in là. Non
parla di un raggio di luce, come facciamo noi. No, parla
di luce grande nella donna cananea, pagana. "Grande"
- notate -: "donna, grande è la tua fede".
Ma,
vedete, per scoprire la grande fede, egli dovette - e dovremmo
farlo anche noi, condizione preliminare! - dovette buttare
alle spalle ogni pregiudizio, ogni incasellamento degli
umani, ogni principio astratto e avvicinarsi, togliere la
distanza, guardare la donna e ascoltarla. Stare in ascolto
della sapienza dei cagnolini.
Ditemi
voi come avrebbe potuto Gesù riconoscere la grande
fede di quella donna pagana se non l'avesse ascoltata. Bussò
il vento e mise in fuga l'ideologia. Così succeda
anche a noi!
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