EXTRA
PAUPERES NULLA SALUS
1.
Oggi molti di noi faticano a riconoscersi nell'affermazione
"extra ecclesiam nulla salus", un'affermazione che viene
già messa in crisi nel vangelo, là dove Gesù contesta quanti
presumono di avere la salvezza per aver fatto miracoli o
profetato nel suo nome, per appartenenze religiose. E invece
dichiara di essere stato soccorso da colui, che, pur non
conoscendolo, ha soccorso un fratello.
Da
dove dunque la salvezza? Se esco dalle astrattezze, devo
riconoscere che la spinta alla conversione non mi è venuta
dai documenti, ma dall'incontro con persone. In primis con
creature che dal territorio della loro povertà mi riportavano
al vangelo sine glossa, scrostandolo dalle incrostazioni
con le quali lungo i secoli lo abbiamo addomesticato, fino
al punto che si stenta a volte a riconoscervi il volto del
Gesù della storia. Loro, i poveri, mi hanno raccontato il
volto di Gesù, restituendogli la sua luminosità delle origini,
la sorprendente novità del vangelo. Mi hanno insegnato che
la salvezza non sta nel salvare la vita, ma nel perderla.
Penso
come, per molti di noi, sia stata grazia di autentica conversione
a Gesù e al suo vangelo la teologia della liberazione, penso
alla forza che veniva dai teologi che avevano scelto un'altra
cattedra, quella dei poveri del mondo, e soprattutto alla
testimonianza di coloro che nei territori segnati dalle
ingiustizie si sono fatti poveri con i poveri. Il sangue
che ha dato forza alle nostre vene esaurite è venuto di
lì, l'aria finalmente pulita l'abbiamo respirata incontrando
loro. Ancora in questi giorni, ascoltando in una celebrazione
uno di questi testimoni, osservando il suo volto smagrito,
la tonaca che non aveva quasi corpo da contenere, un corpo
che sembrava volare, perdendomi nei suoi occhi accesi e
veri, ho misurato tutta l'artificiosità e la distanza di
tante nostre istituzioni e, insieme, la bellezza e l'autenticità
della chiesa dei poveri, la benedizione che ce ne viene
ogni volta che l'incrociamo.
2.
Prete minore, che significa? Il significato più immediato,
ma forse il meno profondo, nasce dalla mia collocazione
ecclesiale. "Minore" dice la non appartenenza ai gradi alti
della gerarchia ecclesiastica. Quando parli, sei voce piccola,
non hai titoli, se non quello del vangelo e della gente
con cui cammini. La stessa tua fedeltà al vangelo e alla
gente è fedeltà che senti "minore". Ci vorrebbe ben altro
per sentirsi fedele al vangelo e al popolo di Dio.
La
qualifica "minore" prende subito un'accezione dunque più
profonda, interiore. Un sentirsi "minore" dentro, sentirsi
"meno" dentro, "piccolo" dentro.
3.
Quale origine? Il vangelo, Francesco d'Assisi, esperienze
di vita? Penso che nell'anelito a essere prete minore entri
in gioco una sorta di affascinamento da più orizzonti. Il
vangelo, innanzitutto, con quella parola dimenticata: "Non
così dovrà essere tra di voi"; "I capi della nazioni, voi
lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su
di esse il potere. Non così dovrà essere tra di voi, ma
colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro
servo e colui che vorrà essere il primo, si farà vostro
schiavo, appunto come il Figlio dell'uomo che non è venuto
per essere servito ma per servire" (Mt 20,25-28). Schiavo,
l'ultimo di tutti. L'ultimo non ama i troni e i palazzi.
I troni e i palazzi li abitano i dominatori del mondo.
C'è
tutto un apparato ecclesiastico che fa a pugni con questa
dimensione della minorità, dell'essere "ultimo". Se ci è
rimasto il timore di dissacrare le parole evangeliche svuotandole
del loro sapore, possiamo forse con sincerità chiederci
se la chiesa oggi viva nel mondo cercando veramente l'ultimo
posto. Ma non per esibire la santità di chi, grande come
è, dall'alto della sua presunta perfezione, si degna di
dirsi minore, ma con la consapevolezza interiore, l'intima
persuasione, di essere in realtà "poco", di essere briciola,
di essere vuoto. Uguale e non diversa dalla moltitudine
dei piccoli della terra.
4.
Il nome "minore", che noi riserviamo nella sua bellezza
più alta a Gesù di Nazaret, lui il "minore", evoca in noi
l'affascinamento di molti altri volti: in primis di Francesco
d'Assisi. A volte mi chiedo perché il fascino di Francesco
d'Assisi rimanga inalterato nel tempo, e perché non avvenga
altrettanto per altri volti di santi, canonizzati nella
nostra stagione ecclesiale. Non sarà anche, mi chiedo, perché
in essi è meno riconoscibile, questa "minorità" evangelica,
che richiama immediatamente il volto di Gesù di Nazaret,
che "ha spogliato se stesso assumendo la condizione di servo"?
(F1 2,7).
Una
minorità che fa dire: passa il vangelo. Con questo uomo,
con questa donna, passa il vangelo. Posso sbagliarmi, ma
a volte penso che se tanti, forse troppi, "spettacoli" ecclesiastici
più non ci turbano, è perché evitiamo la memoria di Gesù:
sono spettacoli dove onorata è la grandezza mondana, onorato
è il titolo di "maggiore". Dove vanno gli onori della chiesa?
Ce lo domandiamo? E dunque ancora per una fedeltà evangelica
ci urge l'invito a essere minori.
5.
Essere minori è caratteristica di tutti i cristiani. Se
essere cristiani significa stare dietro a questo Maestro,
Gesù di Nazaret, e non ad altri, stare dietro al "minore".
Se
poi mi si chiede se ci furono esperienze che mi aprirono
gli occhi su questa parola essenziale del vangelo, potrei
dire: tante. Una tra tutte quella di una bambina che un
giorno mi chiese: "E ora chi mi parlerà sottovoce di Dio?".
Il sottovoce di chi si sente minore, a fronte della declamazione
potente di chi si sente maggiore.
6.
Che significa per la chiesa essere minore? Mi sembra significhi
sentirsi "relativa" e non un assoluto. Non importante, relativa.
Relativa a un Altro. Importante è un Altro che la chiesa
è chiamata a indicare, un Altro di cui vorrebbe affascinare
il cuore delle donne e degli uomini del suo tempo. Per la
chiesa vuol dire sentirsi nella cerchia dei discepoli, non
un gradino più su. E non farsi chiamare maestra, fedele
al monito, purtroppo dimenticato, di Gesù, che diceva: "Ma
voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro
Maestro e voi siete tutti fratelli" (Mt 23,8).
Ancora
significa prendere l'ultimo posto e servire, lavare i piedi,
i piedi gonfi di stanchezza di una moltitudine di fratelli
e sorelle. Non i piedi già lavati e profumati di coloro
che sono chiamati alla lavanda dei piedi del giovedì santo,
ma quelli sporchi di sabbia di coloro che camminano ogni
giorno con noi.
7.
Chiesa povera, chiesa dei poveri? Chiesa povera è una chiesa
che confida solo nel suo Signore. Anzi, proprio la sua povertà
è segno luminoso che essa confida in Dio e non nell'oro,
non nella protezione dei potenti. Altrimenti è strabismo:
è dire, a parole, che la propria fiducia è in Dio e, nella
prassi, circondarsi di sicurezze mandane.
Sto
esagerando, ma oggi il sostantivo "povertà" riferito alla
chiesa , l'aggettivo "povera" detto della chiesa sembrano
usciti dal vocabolario ecclesiastico, quasi non se ne parla.
I tempi, in cui al Concilio alcuni Padri si riunirono per
proporre a se stessi e alla chiesa una dimensione evangelica
autentica di povertà, sembrano lontani anni luce, molto
lontani. Sembrano i tempi di un'utopia cancellata. Dove
l'immagine della chiesa povera, visibilmente povera, se
non in poche minoranze? In territori di margine, se non
di esilio?
Suonano
lontane le parole con cui il Concilio interpellava la chiesa,
e non solo i singoli credenti, nella costituzione Lumen
gentium: "Come Gesù ha compiuto la redenzione attraverso
la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata
a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti
della salvezza". Prendere la stessa via! Del Gesù povero
e perseguitato.
Non
si vuole qui accreditare per la chiesa fenomeni di pauperismo,
ma non si vuole neppure accedere all'opinione che la povertà
sia un fatto marginale, una questione tutt'al più di stile,
e quindi non essenziale. Poco ci si ferma a pensare che,
a volte, lo stile fa tutt'uno con il messaggio: uno stile
potente, ricco, supergarantito, è tradimento dell'immagine
del Dio che si spoglia. Questa sì notizia buona, notizia
che racconta la discesa di un Dio che ama e annulla la distanza,
di un Dio che dice beati i poveri in spirito. Uno stile
potente, ricco, supergarantito è tradimento della notizia
buona del vangelo per la quale i poveri ora passano avanti,
perché i criteri di Dio sono diversi. Una chiesa che siede
con i potenti, che cerca protezioni, che insegue riconoscimenti
e glorie terrene, che notizia potrebbe rappresentare per
il mondo? Non farebbe che riprodurre ossessivamente stili
di pensiero e di vita ampiamente abusati, i vecchi criteri
dei dominatori del mondo, modi di sentire che tutti purtroppo
conosciamo e sui quali, per giusto doveroso pudore, dovremmo
tacere il nome di Dio.
Passata
l'immagine di una chiesa trionfante sulla terra, instrumentum
regni, basterebbe che ci chiedessimo quali sono le immagini
che si accendono nell'immaginario collettivo al pronunciarsi
della parola "chiesa". Immediatamente vengono a occupare
la ribalta le figure del Papa, dei Cardinali, dei Vescovi,
le immagini prepotenti delle assemblee prestigiose e colorate,
delle celebrazioni spettacolari. Quando mai la parola "chiesa"
evoca la chiesa "minore"? Quella che vive nel silenzio delle
parrocchie, quella che cammina ogni giorno con la gente,
condividendo gioie e tristezze, fatiche e speranze, chiesa
dell'ascolto prima che della parola, chiesa che, come il
suo pastore, prova compassione, che non ha nulla a che fare
con coloro che caricano di pesi insopportabili i poveri
e gli oppressi, chiesa che ne rivendica la dignità, perché
ogni essere vivente porta in sé l'immagine di Dio, chiesa
che non ha la fretta dei documenti, ma conosce l'arte di
rallentare il passo, perché porta nel suo cuore la fatica
dell'ultima pecora, quella gravida e quella ferita. Solo
una chiesa minore potrà essere con i minori, la chiesa maggiore
potrà solo dettare pronunciamenti dall'alto.
8.
A volte ci chiediamo, con un po' di tristezza, che cosa
sia rimasto di quel brivido di profezia, di quell'anelito
prorompente a un ritorno al vangelo, che ci fece vibrare
intensamente nella stagione del Concilio. Ci chiediamo se
i nostri non siano diventati i giorni di uno spietato spento
realismo. Non vogliamo negare che in quegli anni in parte
forse ci abbia anche sedotti una certa dose di ingenuità,
ma ora sembriamo navigare tra parole spente e mondane. Anche
la chiesa sedotta dalla sicurezza. Cancellando così la lezione
dei poveri, detti beati perché loro la sicurezza la mettono
in Dio.
Ricordo
che un giovane prete, mio amico, in questi giorni in cui
si fa un gran parlare di sicurezza, mi confidava di aver
posto alla sua gente, una domenica, questa domanda: "ma
secondo voi, la parola sicurezza è una parola evangelica?".
I poveri ci insegnano altro. Ma noi i poveri purtroppo li
abbiamo ricondotti all'immagine di persone da assistere,
lontani dall'immagine di "minori" da cui apprendere, da
ascoltare, perché ad essi, se ancora diamo credito alle
parole di Gesù, sono stati rivelati i segreti del regno
(cfr. Mt 11,25-28). E dunque sai dove scavare per trovare
i segreti del regno. Nei minori. A qualsiasi terra appartengano.
don Angelo
(in
“Esodo” n. 3 del luglio-settembre 2008)
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