LE
CAMPANE, LA NEBBIA E LA GOCCIA D'ACQUA
Bose,
novembre 2008
Non
ti saprei dire se la ragione vera fosse il cielo per lo
più grigio o il tempo per giorni piovoso. O se la
ragione vera fosse la vecchiaia che dilata le memorie. Sta
il fatto che quest'anno, ancor più intensamente di
altri anni, il mio ritiro nel monastero di Bose fu accompagnato
da un fitto riaccendersi di ricordi. Succede ogni volta
che ne varco la soglia, una soglia a filtro di vento. Ma
quest'anno ancor più. Quasi una convocazione di memorie.
Era un tempo velato che ti porta a dimorare nella casa delle
memorie. Se ti fosse toccato in sorte un camino, saresti
stato a raccontare. Al fuoco e agli amici.
A Bose ancora si esce il mattino presto per la preghiera.
Un tempo, ricordo, erano ancora più mattutine la
chiamata e la sveglia. "Al mattino, Signore, ti cerco"
udrai tra poco cantare. Punti verso la chiesa, lungo un
viottolo a spirali. Balugina, l'asfalto bagnato, per via
delle lampade, poste qua e là, a veglia e sicurezza
lungo il percorso. E la mente ritorna ai primi anni del
monastero quando le nebbie erano muraglia, il sentiero solo
sterrato, non luci a segnalare la via, con il tocco del
piede andavi a sincerarti di non essere fuori strada.
Quest'anno
nei giorni di sosta nel monastero ce ne fu uno di nebbia,
ma leggera, trasognata, non era muraglia. Dava sfumature
di leggerezza e velature alle cose. Mi metteva in moto i
pensieri.
A
noi tocca in sorte
andare
con passo lento e leggero
in un abbraccio
di nebbie avvolgenti
e trattenere sospeso
il respiro.
Al di là del biancore puoi
per grazia sfiorare
l'albero del cipresso
che beve il cielo,
la fontana oggi muta,
il masso di pietra
o forse un viso.
Forse anche il tuo, Signore.
E come andare con passo arrogante
fendendo la nebbia
senza sospetto
quasi fosse la terra muta
e senza viventi,
e non terra sacra?
E la voce a dire:
come un giorno a Mosè
oltre il deserto:
"togliti i calzari".
In
questa stagione che ci è toccata in sorte, troppo
spesso e non senza indignazione, ci succede di assistere
al proliferare di un costume diverso, il costume di coloro
che nemmeno si sognano di rallentare il passo, tanto meno
di togliersi i calzari. Per loro la nebbia non esiste, se
ne vanno come non ci fosse, navigano nell'evidenza, loro
sanno tutto e con chiarezza, incrociano senza trasalimenti.
Convinti di vedere, dall'alto delle loro sicurezze pontificano
su tutto e su tutti, entrano nella vita altrui, invadendo,
come chi fende le nebbie senza esitazioni di sorta, senza
sospetto di ferire l'anima e il volto. A tal punto accecati
e sicuri di sé da diventare perfino brutali e volgari.
Tant'è
che ci rattrista e ci indigna oggi questa crescita esponenziale
di brutalità e volgarità, a tutti i livelli,
anche in ambiti in cui si va proclamando il nome di Dio
e tu non ti aspetteresti proprio lì questo degrado
di stile. Non te lo aspetteresti, se non altro perché
Lui, il Signore era diverso. Anzi un giorno gli venne da
dire, senza esitazioni, che la terra sarebbe stata possesso
dei miti. Ebbene se un popolo è arrivato al punto
di chiamare forza la brutalità e la volgarità,
siamo in stagione di evidente declino. Declino di umanità
e di vera fede.
In
controtendenza invece c'è gente che bussa al silenzio
dei monasteri. Chi sta sulla soglia ne avverte la sete,
un disagio che spesso prende forma di sfiducia in se stessi.
Ne parlavo nei giorni scorsi con un'amica monaca, che nel
monastero sta sulla soglia ad accogliere. Luogo di avvistamento
la soglia: vieni fatto partecipe di uno spaccato, spesso
sconosciuto, di questa umanità.
Le
monache e i monaci, forse lo sai, mettono in cammino. Verso
un monastero invisibile agli occhi, verso quella parte più
segreta di noi stessi, che a volte ci turba, tanto da lasciarci
senza speranze.
Le
monache e i monaci ti invitano a non disperare di te stesso.
"Se scavi dentro" ti dicono "scoprirai una
terra più profonda forse dimenticata, un terreno
umido e fertile, spazio per gestazioni e per germogli. Séntiti
accolto nel più profondo. Così come sei. Per
come sei. Con il tuo nome. Ascolta una presenza che ti muove
dentro, come un bambino muove tenero un grembo. Poi forse
le darai un nome, la chiamerai "misericordia che si
china", la chiamerai Dio. Ascolta la presenza, ascolta,
ti dà un nome".
Negligente
in scienze sacre
ancora non so darti, o Dio,
un nome.
O forse sì:
"Tu sei colui che dà il nome".
Anche a un piccolo
minuscolo
bruco della terra.
Ascoltare
la presenza che dà un nome. Forse un monastero può
favorire la grazia dell'ascolto. Dell'ascolto di una terra
nascosta, di una voce segreta che ti abita. O forse mi occorrono
ogni giorno campane, e non una sola. Al punto in cui siamo
arrivati, una campana, una sola non basta.
Non
basta a smuovermi dalle mie smemoratezze, dal culto dell'effimero
che ci avvolge, dallo stordimento del vuoto. Una, tante
campane, che chiamino "dentro". E non tanto -
tu mi capisci - dentro mura più o meno sacre, quasi
fosse disavventura, disgrazia vivere nel mondo. Disavventura
è vivere fuori di se stessi, disgrazia delle disgrazie
è aver abdicato all'intelligenza, cedendo ai luoghi
comuni, alle sollecitazioni interessate, disgrazia delle
disgrazie questa disabitudine a pensare. Tanto c'è
un altro che pensa per noi! Ritorniamo dentro, ritorniamo
a pensare. Dietro la voce di campane.
Campane
piccole sorelle
di un monastero.
Prima una, quasi a rilento
assonnata,
poi subito altre in coro
accorse a perdifiato
con rintocchi inesausti.
Sorelle sgolate
in amore e in veglia
a sfidare
mie smemoratezze,
a snidare
l'esitazione del mondo.
Ora che il suono si placa
e arreso mi chino
l'ultima campana
rimpicciolisce
rabbrividendo.
E fa spazio
al mistero.
Quando,
dopo aver fatto spazio in te alla Parola, farai ritorno,
dal monastero segreto che ti abita, quello dell'anima, alla
vita quotidiana, non ti succederà di vivere senza
sospetto come se niente pulsasse al di là dell'apparente,
come se la nebbia del mondo non fosse abitata. Non avrai
occhi gelidi, gli occhi dell'inquisizione. Avrai occhi miti,
gli occhi della compassione, gli occhi del tuo Signore.
Nulla sarà più piccolo per te, nulla disabitato.
Nemmeno una goccia. Nemmeno la più piccola delle
gocce.
E
forse
più vivo del mio canto
è l'umile picchiettio della goccia
che all'angolo remoto
della chiesa
nella vasca di pietra
batte la sua piccola voce
in un brivido d'acqua.
Brusio
degli umili della terra
che dalla soglia
ancora non osano
lo sguardo al cielo.
don Angelo
|