Pensieri
lungo i binari di un tram
Sto attendendo, lungo i binari, l’11. È sera fonda. L’aria
della città ormai ha il colore indistinto, immobile, del
buio. Si allunga l’attesa. Per noi uomini e donne, oggi
consumati dalla fretta, i tram sono sempre in impenitente
ritardo.
Gli
occhi a inseguire, quasi fuori delle orbite, rotaie che
si perdono lontano. Nel nulla. Sete di una piccola luce
lontana che abbia la parvenza di un fanale di tram che buchi
la notte. E sia avvistamento. Altre luci si accendono e
spengono. Accendono e spengono l’il-lusione. Non sono luci
in rotaia, inseguono altre direzioni. A dilatare le pupille
degli occhi è questa mia attesa.
Attendo
un tram. E nella lunga attesa mi sorprendo a debordare.
Ti confesso, non so darti ragione di questo improvviso debordare
religioso dei pensieri. Come se fosse arrivata un’onda estrema,
a spingere al largo l’immagine dell’attesa, a sospingerla
a un senso ulteriore. Forse è questo attenuarsi di voci,
di rumori, di immagini, di insegne a sospingere oltre. A
sospingere dentro.
L’anima
mia beve
silenzio.
Pulsa la luce leggera
come lampada fioca
alla punta estrema
del cuore.
Mi
sorprendo a pensare che, uomini e donne, siamo tutti nella
vita lungo rotaie, inghiottite dal buio. In attesa di un
baluginare lontano, gli occhi sgranati a fendere il buio,
in attesa. In attesa di un amore, di un ritorno. In attesa,
oggi te ne parlo, del ritorno del Signore.
Si
è accesa lontana una luce. Sarà lui? Anche il Battista,
che ne sentiva parlare, dalla notte del carcere mandò a
chiedere: “Sei tu il Messia o dobbiamo attenderne un altro?”.
E io sono qui nella notte ad attendere. Che ritorni.
Ti
dirò che da un lato porto dolore che se ne sia andato. Mi
sorprendo spesso a sognare il suo volto: l’aprirsi dolce
del suo viso al-l’abbraccio dei bimbi, l’infiammarsi del
viso ai tavoli rovesciati per mercato di tempio, l’intenerirsi
del viso alle mani di donna che andavano profumando il suo
corpo, il piangere trattenuto per madre vestita di lutto
sotto la croce. Porto dolore che se ne sia andato.
Ma
porto anche gratitudine e fierezza. Non è rimasto a spiare
la nostra libertà. Lui, giudice severo di coloro che si
sentono autorizzati a spiare la libertà dei figli di Dio,
giudice severo di tutti coloro che si sono fatti guardiani
e gendarmi dei fratelli e delle sorelle, delle comunità.
Tradendo l’immagine.
Se
n’è andato - un giorno raccontò la parabola - lasciando
al servo la sua casa. Affidata all’intelligenza e alla custodia.
Fino al ritorno. Come uno che ci crede. Una terra affidata,
una casa affidata, sorelle e fratelli affidati. Tutto affidato.
Ritornerà.
Ora più non so se, questa sera, a parlarmi dell’attesa del
suo ritorno sia il baluginare lontano del fanale di un tram
che tarda a venire. O se a suggerirmelo sia questo tempo
di avvento alle porte, tempo che abbiamo tradito, evocandolo
come attesa di una nascita che è già stata e non come attesa
della venuta del Figlio dell’uomo alla fine dei giorni.
“Nell’attesa della tua venuta” andiamo ripetendo ogni domenica,
quando ci diamo appuntamento per la cena del Signore. E
penso ai giorni lontani in cui si costruivano chiese rivolte
ad oriente, perché da oriente sarebbe ritornato il Signore.
Oggi che le chiese prendono prevalentemente l’orientamento
del piano regolatore, oggi che le chiese non sono più orientate,
dovremmo essere noi rivolti, con gli occhi e la vita, a
oriente. In attesa del suo ritorno.
Mi
chiedo dell’attesa e dell’assenza di attesa. Forse non attendiamo
perché non ci sfiora innamoramento. Siamo occupati da altro.
Mi dico: non puoi attendere se non uno che ti ha occupato
il cuore. Per una sorta di innamoramento. Se ti ha sfiorato
innamoramento, allora sai che cos’è trattenere il fiato
in ascolto del fruscio dei passi, sai che cos’è lo spiare
dalla finestra, sai che cos’è il trasalire e il battere
del cuore. Il desiderio del volto. Non c’è attesa del ritorno
se non c’è innamoramento. Se c’è, ti capiterà di mormorargli
nel segreto: “Ho ascoltato quaggiù, nei miei giorni, la
tua voce. Ora mostrami il tuo volto. Il tuo volto, Signore,
io cerco. Non nascondermi il tuo volto. Ora, lungo le rotaie
che si perdono nel nulla, lungo le rotaie della vita o dalla
soglia della casa che mi hai affidato, ti attendo. Vedano
i miei occhi stanchi spuntare per me la tua luce”.
Costruirò
nel sogno
una casa ad oriente
e la porta socchiusa
a spiare
il silenzio dei passi
alla luce del tuo volto.
Oggi
sentiamo parlare di religione, si vuol difendere la religione.
Ma gli occhi sono freddi, di ghiaccio, come di chi dice:
Signore, ma non attende. Si danno definizioni, si proclamano
regole, ma non c’è aria di innamoramento. Come se fosse
penetrato l’inverno nelle chiese. Si urla, ma non è voce
di innamorati. Né di Gesù né del vangelo. Militanti, ma
non innamorati.
Succedeva
anche a tempi di Gesù. Era la festa, dice Giovanni, della
dedicazione del tempio: la festa la si celebrava nel mese
di dicembre. Ma - che strano! - Giovanni precisa “era d’inverno”.
Che la precisazione alluda a qualcosa? Che Giovanni voglia
dirci che l’inverno era penetrato nel tempio? Era come se
fosse inverno nel tempio. Qualcuno forse ricorda che nel
“Cantico dei Cantici” è scritto che, quando arriva l’amore,
l’inverno se ne va. È scritto:
“Ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia,
se n’è andata,
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nelle nostre campagne.
Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti spandono fragranza” (Ct 2, 11-13).
Quei lontani frequentatori del tempio si illudevano che
fede fosse avere qualche pensiero su Dio. E loro avevano
quelli giusti! Gli occhi erano di ghiaccio.
In una sua omelia su Maria di Magdala don Germano Pattaro
rifletteva sul fondamento della fede. Argomento serio in
tempi di gravi fraintendimenti. Diceva: “Il fondamento della
fede più ancora che sapere qualcosa su Cristo (fosse pure
che è risorto) è avere il cuore occupato da lui. Se non
si ha il cuore occupato da lui, ma si hanno pensieri su
di lui, non serve a niente (…). Noi invece abbiamo la mente
occupata dai pensieri su Dio - magari sappiamo tutte le
cose che si devono fare, sappiamo il catechismo a memoria,
un po’ più un po’ meno - ma non abbiamo il cuore occupato
da lui”.
Se
il cuore è occupato lo attendiamo. Lo attendiamo resistendo
alla bruttezza e alla mediocrità, lottando contro l’ingiustizia
e la menzogna, contro la dissacrazione del volto. Anche
in assenza di risultati. “Verrà” ti dice il cuore. E quando
verrà, sarà chiaro dove stava la bellezza della vita. Se
nell’egoismo o nell’amore. Verrà. E sarà naufragio per la
menzogna. La grande Menzogna. Splenderà la verità di coloro
che sulla terra anelarono a fare le opere belle, le opere
che faceva lui, opere che miravano a restituire la dignità,
la libertà, la vita piena ad ogni persona. Lottando contro
ogni forma di asservimento, interiore e esteriore. Brillerà
la tenerezza, dopo stagioni di dominio e di arroganze. “Verrà”
dice il cuore. E punti gli occhi con desiderio.
Verrà
e sarà la fine dell’inverno che fa smunte le erbe dei nostri
cenacoli chiusi, case della presunzione, vuoto di tenerezza.
E
venendo da cenacoli chiusi
in prati d’erbe
smunte
senza refoli di vento
l’avventura dei tuoi passi
su erbe bagnate
colorate d’ignoto
da un oltre che segna
il tuo passaggio di silenzio.
Andavi per pareti di vento.
E io a inseguire
per acuto di nostalgia
il tuo
profumo di vento.
Verrà.
E avrà occhi che accarezzano sabbie e stanchezze. Avrà -
io ne avrò bisogno - gli occhi intensi della misericordia.
Né potrei attendere altro. Un giudice spietato, non lo attendi
nella notte. Lo temi. Non sarebbe buona notizia, evangelo.
E chi di noi potrebbe resistergli? Io so per certo che lui
non muta. Avrà ancora gli occhi che accarezzavano sabbie
e stanchezze. Avrà per me - nuda grazia! - gli occhi della
misericordia.
E
possa
alfine riposare anch’io
così come sono,
ladrone di sinistra
alle braccia della tua croce,
estremo rifugio
dimora
a un condannato a morte.
E ancora concedimi
per grazia
di riposare stanco
alla porta socchiusa
del regno.
In
un’ora o in un’altra
- io lo sento -
tu uscirai.
A
scuotermi uno sferragliare, sempre più vicino, di tram.
La luce del fanale, ora a pochi passi, a vista anche di
un cieco come me. Viene meno un’attesa, ma arde nel cuore
sete di altra luce, la tua, che buchi la notte di altre
rotaie. Non so quando. Ma tu verrai.
don
Angelo
le
poesie dell’articolo sono tratte da
ANGELO CASATI, Nel silenzio delle cose
Edizioni Qiqaion, Bose 2007
|