LETTERA
A UN NEONATO
Forse non è solo emozione dovuta alla vecchiaia incipiente.
Come sai, ai vecchi pungono spesso le lacrime all'estremo
degli occhi.
O forse sì, è anche vero che da tempo basta
una lettera a emozionarmi. O è la fortuna di avere,
per grazia, un postino che mi recapita, per lo più,
lettere d'emozione.
La lettera di cui parlo, lettera che mi punge con le lacrime
all'angolo degli occhi, non è indirizzata a me. Ma
a un bambino. Lettera a un neonato.
Confesso che, di questi tempi, mi soffermo spesso, io che
non ho bambini miei, a guardarli con estrema tenerezza,
quasi con un anelito di protezione, anche se so che a proteggere
il loro volto è solo lo sguardo di Dio. Mi capita
di posare su di loro, sul loro capo, la mano, anche se so
che a difenderli e a rasserenarli è solo la mano
di Dio.
Ti
dirò che anch'io, a volte, in questi giorni ho l'impressione
di ridiventare bambino, di essere quasi risucchiato nei
giorni dell'infanzia. Mi succede quando dal cielo, dal quadrato
del cielo risparmiato tra casa e casa, piove sordo il rumore
greve di invisibili lontani aerei. E' vero, forse da sempre
passano insistenti su questo cielo. Forse è solo
il disgusto per la guerra che me li fa sentire così
onnipresenti e pesanti, e il rumore mi dura dentro dopo
minuti ed ore. Soffro una strana sensazione, la sensazione
di un ricongiungimento tra il rumore sordo degli aerei che
solcavano minacciosi i cieli di guerra della mia fanciullezza
e il rumore stranamente simile di quelli che solcano i cieli
impauriti della mia tarda età.
Ora so che i cieli non piovono più benedizioni, o
non dappertutto e sotto i cieli, cosa strana, chissà
perché, vedo solo volti indifesi di donne e bambini.
Quando i cieli - mi chiedo - diventano luogo della minaccia,
della paura, che cosa ci rimane da dire a un cucciolo d'uomo
che si affaccia indifeso e curioso alla terra? Che cosa
ci rimane?
Ecco la lettera. Lettera a un neonato. Scritta nel giorno
del suo battesimo da un padre e da una madre, a quattro
mani, quando il cielo ancora odora di guerra
"Figlio mio osserva i comandamenti di tuo padre,
non disprezzare l'insegnamento di tua madre. Fissali sempre
nel tuo cuore, appendili al collo. Quando cammini ti guideranno,
quando riposi veglieranno su di te, quando ti desti ti parleranno"
(Prov. 5, 20-22)
...Compito della nostra generazione non sarà ancora
"cercare grandi cose", ma salvare la nostra anima
dal caos.
Noi vogliamo preservare a voi giovani, alle nuove generazioni,
l'anima con la cui forza voi dovete progettare, costruire
e plasmare una vita nuova e migliore.
Oggi sarai battezzato affinché tu divenga cristiano
e si possa un giorno dire di te "il sentiero del giusto
è come la luce, che si fa sempre più chiara
fino a giorno pieno" (Prov. 4, 18)" D.Bonhoeffer.
Il tuo è un nome importante, ricco di significati.
Ti proteggano i nonni Pietro e Angelo, ti custodiscano e
ti siano guida Papa Giovanni XXIII (Angelo Roncalli) e San
Pietro, insegnandoti l'uno pazienza, bontà, umiltà,
desiderio di santità; l'altro amicizia sincera, amore,
umanità, spontaneità, fedeltà.
Lettera per il battesimo di un figlio. Lettera che mi ha
emozionato. Per un attimo mi ha fatto anche sognare che
padri e madri in giorni come questi sentissero il bisogno
di prendere a sé vicino i figli e di parlare a loro
con il cuore.
Perché lasciare che ai bambini, ai figli, venga rubata
l'anima e che siano precipitati nel caos? La si ruba quando
lo "spettacolo" che invade, conquista, abbruttisce,
è quello della distruzione.
Che ne sarà del cuore, dell'anima dei nostri bambini,
se i loro occhi curiosi, ancora capaci di stupore, saranno
abitati e sedotti - amaramente sedotti - da immagini e immagini
di strumenti di guerra esaltati per la loro seducente capacità
di distruggere nel raggio di mezzo chilometro, per la loro
abilità nello sganciare tonnellate di bombe?
Siamo tutti avvelenati. Ed è un'antrace che non crea
allarmi, ma devasta i cuori.
Quale terra e quale umanità ci sarà dato di
intravedere lungo le strade dell'ostilità, della
vendetta, dell'odio, della violenza?
E
allora chiama vicino tuo figlio e racconta. Racconta altre
storie, storie di costruzione che gli abitino gli occhi
e non storie di distruzione.
E anche se le televisioni, in balia dei dominatori del mondo,
fanno censura, parla della bellezza di costruire una casa,
della pietra messa a fatica, ad arte, sopra un'altra pietra,
parla al tuo figlio della bellezza di curare teneramente
i corpi feriti, parla della bellezza di restituire i colori
e le misure alle terre depredate dagli egoismi e dissacrate
dai fanatismi.
Non lasciare, ti prego, non lasciare che abitino troppo
a lungo gli occhi di un figlio le immagini delle esibizioni,
volti senza anima e senza pietà, false grandezze,
disumanità.
Parlino dal loro silenzio di luce altri volti, quelli della
lettera, Papa Giovanni e l'apostolo Pietro. Parli la loro
sapienza, così diversa da quella mondana e insegnino
"pazienza, bontà, umiltà, desiderio di
santità, amicizia sincera, amore, umanità,
spontaneità e fedeltà".
Mi chiedo, oggi più di ieri, se non è tornata
con urgenza l'ora di riprendere l'arte di raccontare. Raccontare
altro e l'Altro. Raccontare fuori dai cieli chiusi, fuori
dagli interessi di parte. Fuori dalle visioni miopi, fuori
dagli orizzonti dimezzati. I cieli chiusi, gli interessi
di parte, le visioni miopi, gli orizzonti dimezzati non
hanno altro esito che quello funesto di rinfocolare, vicino
o lontano, bagliori di guerra.
Sere
fa, Fulvio Scaparro ci raccontò il mito di Orfeo.
E a noi sembrò di leggervi un'allusione carica di
forza evocativa.
Raccontava l'episodio descritto nel primo libro delle Argonautiche,
l'episodio che vede coinvolti da subito in un alterco gli
argonauti, partiti per la conquista del vello d'oro.
"Sono approdati ad una caletta molto vicina al punto
di partenza, stanno litigando, stanno già per metter
mano alle armi. A quel punto si alza Orfeo, medico, musico
e poeta, che partecipa alla spedizione non per la sua vigoria
fisica, ma per la sua abilità nel dare cadenza ai
rematori. Orfeo sta lì per dare il tempo, perché
dà il tempo e per il fascino che esercita riportando
calma laddove prima ruggiva la tempesta.
Anche questa volta sulla spiaggia gli argonauti appena sbarcati
stanno per uccidersi a vicenda. E qui assistiamo ad un avvenimento
paradossale, contro ogni logica, perché Orfeo non
è che raccomandi la calma, come faremmo noi probabilmente,
ma inizia a cantare la storia del mondo. E racconta come
dall'iniziale indistinzione si è passati alla formazione
del cielo, del mare, della terra, alla comparsa di piante,
animali, esseri umani. Racconta della lotta tra gli elementi
e gli dei, il succedersi incessante di guerra e di pace,
di unioni e di separazioni. Gli eroi lo seguono incantati
e al termine "secondo il rito mescolarono libagioni
in onore di Zeus", un rito che interviene come una
composizione di un conflitto armato.
Quindi il canto ammaliatore di Orfeo ha sviato gli argonauti
dalla contesa e questi, non più accecati dall'ira,
riescono a vedere più lontano dei loro interessi
immediati e questa visione li affascina, al punto da prendere
le distanze dalle ragioni della contesa e da dare nuovo
senso all'impresa comune".
Ci
saranno oggi cantori della storia del mondo? Non dovremmo
tutti noi, in qualche misura, riprenderci l'arte di raccontare
la storia del mondo, l'arte di leggere a noi stessi e alle
generazioni future il Libro, come già un tempo gli
antichi accanto al fuoco delle notti?
Potremmo così opporre come sfida alle immagini esibite,
quella che a noi è stata consegnata come suprema,
quella dell'uomo crocifisso, figlio di Dio.
Non sarà - anche questo mi chiedo - che l'immagine
più incandescente, quella della croce, sia diventata
immagine sgolata, ora senza voce, depredata del paradosso,
resa pretesto per dibattiti circa la collocazione dei crocifissi,
sì o no, sulle pareti dei luoghi pubblici.
Ma la sua collocazione, quella che ci deve stare a cuore,
non è forse nella vita, dei credenti innanzitutto?
C'è da chiederci - bisogna essere onesti - se noi
così facili a indignarci alla proposta di togliere
i crocifissi da qualche luogo pubblico, abbiamo avuto qualche
reazione davanti allo svuotamento del crocifisso, allo svuotamento
del paradosso che lo segnava. Lo segnava e ancora lo segna,
per sempre.
Il paradosso è in quel verbo "salvare"
urlato a Gesù sotto la croce: "salva te stesso,
salva te stesso e anche noi".
Ma, scusa, sei un innocente, sei il giusto. Ma scendi, scendi
e ripagali. Gente così va fulminata.
Ma questa, per lui è la vecchia logica. E' ciò
che si vede da sempre, è ciò che si sente
da sempre, è ciò che si segue da sempre. E'
lo spettacolo di sempre.
Qui
c'è uno spettacolo diverso. E guai, guai ad attentarne
la novità, qui c'è qualcosa di inaudito, non
siamo di fronte al già visto, qui c'è uno
che non fulmina ma perdona, uno che non batte i pugni ma
allarga le braccia, uno che non guarda a sé ma guarda
agli altri, uno che non si difende ma si consegna.
Per questo - voi mi capite - c'è da fare attenzione:
non posso mettere il crocifisso dappertutto. Se la logica
che vi abita è quella vecchia, quella della salvaguardia
di sé, dei propri privilegi, della propria vita a
scapito della vita degli altri, mettere lì la croce
diventa una dissacrazione.
E' questo l'inaudito e guai, guai se fosse intaccato. L'inaudito
è questo: ci sono uomini che ti vogliono togliere,
ti vogliono togliere dalla faccia della terra mettendoti
su una croce e tu dici: "Perdona a loro, non sanno
quello che fanno". E' una logica diversa, la logica
di chi ostinatamente scommette sull'amore.
"Contro la paura" - diceva in questi giorni il
cardinale Martini - "il coraggio della solidarietà".
E aggiungeva: "quando si mette al primo posto nella
scala dei valori il guadagno, il successo, il potere, la
sopraffazione, si perverte la storia".
Se siamo onesti dobbiamo riconoscere che sarebbe ipocrisia
se fossimo preoccupati di salvare i crocifissi e svuotassimo
la croce della parola che vi è scritta. La croce
è cattedra, la vera cattedra del cristiano. E deve
parlare. Dice a tutti che la scommessa per questa terra
è l'amore, è la solidarietà.
Va e racconta. Racconta di giorno e di notte.
don
Angelo
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