L'AMORE
FEDELE GENERA NELLO SPIRITO
Atti
3,1-16
S. Francesca Romana, 22 febbraio 2013
Il
mio intervento questa sera non ha la presunzione - e voi
mi perdonerete - di chiamarsi lectio nel senso alto della
parola, ha forse invece il desiderio di essere una sosta,
una sosta con voi, davanti al racconto degli Atti degli
Apostoli che ci è stato proposto, dentro un cammino
luminoso che voi avete compiuto in questi primi giorni
di quaresima.
Che
cosa mi colpiva nel racconto degli Atti.
Mi colpiva la vivacità, la vivacità del
racconto nelle sue mille sfaccettature. Per esempio la
vivacità dei verbi. Di movimento. Penso che la
fede sia un fatto di movimento, sia, perdonate, un fatto
di gambe, di sequela, dove ti portano i piedi. E non solo
un fatto di testa. Non solo di definizioni che circoscrivono.
Penso che la fede, stando a questo testo e alle Scritture
Sacre sia uno sporgersi. Ed ecco nel racconto i movimenti,
su cui sosterete o avete già sostato.
La vivacità dei piedi. Dentro un racconto di guarigione
di un paralitico che sembra dire l'assenza del movimento,
la paralisi che ferma le gambe: subito sottolineata dal
racconto. A fronte del salire dei due, Pietro e Giovanni
- "salivano al tempio per la preghiera verso le tre
del pomeriggio" e ci salivano senza problemi, con
le loro gambe, piedi in cammino, gambe in forza per salire
- sottolineata è la rigidità dell'uomo storpio,
che non va da sé, lui senza autonomia di piedi:
"qui veniva portato un uomo storpio". "Portato".
Dipendeva da quelli che lo portavano. E poi "lo ponevano
ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella".
"Lo ponevano", mi colpiva il verbo, quasi fosse
una cosa da deporre, senza energia. Lì poi doveva
stare tutto il santo giorno, in dipendenza dagli altri
che lo venissero a riprendere e in dipendenza, per sopravvivere,
da quello che poteva raccattare in elemosina.
Impedito di gambe, ma impedito anche - e immagino che
gli costasse - impedito anche dell'ingresso nel tempio.
Non stava forse scritta nel libro del Levitico una esclusione
per chiunque portasse una deformità, ciechi, zoppi,
uno sfregiato, un deforme? (cfr. Lv 21,18). L'immobilità
e l'esclusione. Una situazione che spesso racconta di
noi.
Alla fine del racconto - lo abbiamo ascoltato - riesplode
quasi spumeggiante il movimento. A ritmi incalzanti. E'
scritto: "Di colpo i suoi piedi e le caviglie si
rinvigorirono e balzato in piedi camminava ed entrò
con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio".
Sembra di vederlo, era accaduto l'inimmaginabile, i piedi
lo reggevano e a prova di una energia che non aveva mai
sperimentato. Lui nato storpio da grembo di madre, eccolo
camminare con gli altri e non portato dagli altri. E non
solo camminava, ma anche saltava, proprio dentro lo spazio
del sacro, quello che da sempre gli era stato precluso.
Dall'immobilità al movimento. Inizio e fine.
Che cosa aveva cambiato la situazione? Che cosa sta in
mezzo? Perdonate se mi esprimo così, in mezzo sta
un gioco di sguardi. Vi dicevo che la fede ha a che fare
con i piedi e le gambe, è nel segno delle sequela.
Ma a dare spinta di energia a piedi e gambe stanno gli
occhi, quegli occhi cui Luca sembra dare luminosa importanza
con sfumature particolari dei verbi. Scrive: "Questi
vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel
tempio domandò loro l'elemosina. Pietro fissò
lo sguardo su di lui insieme a Giovanni, gli disse: "Guarda
verso di noi", l'uomo si volse verso di loro aspettandosi
di ricevere qualcosa da loro". "Vedendo
fissò
lo sguardo..guarda verso di noi
si volse..".
C'è un vedere, quello dello storpio all'inizio,
un vedere nell'orizzonte di una normalità immobile,
un rito immobile quotidiano: sei fuori dalla porte, vedi,
chiedi, ricevi. Per decine e decine di anni così.
E c'è lo sguardo di Pietro. Di Pietro è
scritto: "Fissò lo sguardo su di lui".
Fissò! Dunque non uno sguardo che vede e cancella,
come quello del sacerdote e del levita della parabola,
vedono quel poveraccio e cancellano, non come tanti nostri
sguardi, vediamo cancelliamo. Pietro e Giovanni andavano
al tempio, li aspettava la liturgia del pomeriggio, li
portava un desiderio, forse quello del salmo: "Gli
occhi miei sollevo ai monti", ma lo sguardo ai monti
non aveva cancellato lo sguardo a quello storpio. Quando
succede, quando succede che il servizio a Dio offusca,
toglie spinta al servizio al povero non è fede.
È liturgia vuota. Pietro fissò lo sguardo,
lo fermò sullo storpio e si fermò.
Pensate, lo sguardo che fissa, siamo ben lontani dal nostro
sguardo, dallo sguardo di chi l'elemosina la fa scivolare
nella mano dell'altro senza guardarlo, come se volessimo
toglierci un disturbo, un imbarazzo. Se è così
non succede niente, niente più che un elemosina.
Che lascia l'immobilità, lascia l'altro immobile.
Pietro fissa. E mi sono chiesto, perdonate l'impertinenza,
mi sono chiesto da chi lo avesse imparato. Imparato a
passare e a fissare. E, perdonate se oso rispondere che
a passare e fermarsi, fermarsi con lo sguardo, a non andare
oltre senza sostare glielo aveva insegnato Gesù.
Lo aveva insegnato a loro che spesso passavano senza veramente
vedere, senza vedere per esempio Zaccheo, l'uomo che si
era creato un luogo di avvistamento sull'albero e Gesù
alzò lo sguardo, o l'uomo cieco, loro se ne andavano
imperterriti discutendo di peccato e non peccato e lui
lo fissò. Gesù uno che passava e fissava
e si fermava, così tutto il vangelo. Ma quello
che Pietro forse non aveva più potuto cancellare
dalla memoria era lo sguardo di Gesù su di lui,
sì, proprio su di lui: rimase con lo sguardo su
di lui la notte in cui all'intenerirsi delle prime luci
in cielo - ed era sta notte di rinnegamento, del suo rinnegamento
- gli era passato accanto dopo che il gallo aveva cantato.
"E' scritto: "
un gallo cantò. Allora
il Signore si volse e fissò lo sguardo su Pietro"
(Lc 22,60- 61). Quello sguardo l'aveva segnato, per sempre,
era di misericordia. Aveva imparato. Chissà se,
come Pietro, anche noi abbiamo imparato a passare, a fermarci,
a guardare con sentimenti di compassione. Voi mi capite,
la chiesa della compassione, non quella che ti incenerisce
col giudizio.
Ed ecco l'invito, questa volta rivolto allo storpio, a
guardare: "Guarda verso di noi" E l'invito deve
essere risuonato strano alle orecchie dello storpio. Eppure
Pietro diceva proprio così: "Guarda verso
di noi". Ma lui già li guardava! Sì,
ma era come se Pietro e Giovanni gli chiedessero di fissarli
, di fermare gli occhi su di loro, come se gli volessero
dire di andare al di là dell'immagine di possibili
portatori di denaro che si era fatta di loro, come se
l'invitassero a comunicare con qualcosa di loro che andava
oltre quella immagine, o se volete, più in profondo:
"Guarda verso di noi!". Li guardò e dalle
loro parole cominciava a capire chi erano, e cosa avevano
e che cosa non avevano, su che cosa contavano e su che
cosa non contavano. Sentiva bene. Pietro gli diceva: "Non
possiedo né oro né argento, ma quello che
ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno,
cammina!". Non possedevano denaro, possedevano un
nome. Ma che forza avesse quel nome lo vide quando, alla
presa della mano di Pietro che lo sollevava, sentì
sciogliersi quel suo corpo contorto. Il denaro quel corpo
non lo avrebbe di certo sciolto, quel nome l'aveva sciolto,
sollevato. Corpo e spirito insieme. Lo capì per
quell'energia di risurrezione, che gli era passata dentro
e lo faceva camminare come restituito a dignità.
"Nel nome di Gesù, il Nazareno cammina".
E lo sentì dire e ripetere e ancora ripetere da
Pietro, quasi fosse cosa da battere a memoria, davanti
a una folla ammirata, sentì quel collegamento che
lui aveva sentito nel suo corpo, il collegamento tra quel
nome e il vigore che gli era stato restituito come uomo.
Pietro dirottava lo sguardo, lo faceva puntare su un altro.
Diceva: "Proprio per la fede risposta in lui il nome
di Gesù ha dato vigore a quest'uomo che voi vedete
e conoscete; la fede in lui ha dato a quest'uomo la perfetta
guarigione alla presenza di tutti". E l'invito era
a distogliere da loro lo sguardo: "Perché
continuate a fissarci?" diceva Pietro. E' un altro
da fissare.
Ebbene mi prendono molti pensieri e nascono domande e
preghiere.
Un pensiero va nell'orizzonte che ci interroga su vera
o falsa salvezza. E colgo nel racconto quasi un invito
a non ridurre a un'elemosina il nostro sogno, a non dare
affidamento a chi ci promettesse una salvezza fatta di
vantaggi terreni economici che ci mantengono però
schiavi, schiavi di chi ci porta in giro e ci deposita
dove vuole, schiavi di chi ci lascia attorcigliati su
noi stessi o in balia degli altri. La fede in Gesù
, fede vera, è quella che ci rende liberi dalla
schiavitù dei nostri egoismi. Fede vera è
quella nel nome di Gesù, un nome che ci fa saltare
di gioia, che ci rende liberi, liberi e resistenti ai
faraoni, di ogni estrazione
La fede in Gesù
è libertà dai gioghi.
Ma, ancora, Il cambiamento, ci ha ricordato Pietro, non
viene dal nostro nome, ma da quello di Gesù, dalla
sua energia di risurrezione che come linfa di vita scorre
nelle vene di questa nostra umanità. Dovremmo come
chiesa ritrarci, non ci fa bene una sovraesposizione come
chiesa, ci lascia vuoti e inerti: non fissate noi, fissate
un altro, dovremmo additare lui e invece spesso, troppo
spesso, in esibizione siamo noi. L'importante non è
che si parli della chiesa - pensate quanto se ne parla
in questi giorni - ma che si parli di lui, non è
nel nostro nome che ci si salva, o che solleva qualcuno
dalla sua immobilità come uomo. Mi chiedo: ma noi
per i primi fissiamo lo sguardo su Gesù, sul suo
vangelo?
E ancora su che cosa contare oggi, oggi che si parla molto
di strategie. Un invito che mi sembra di cogliere nel
nostro brano è ad esaminarci seriamente, sinceramente,
su che cosa confidiamo: "Non ho né ora né
argento, ti dico nel nome di Gesù..". Saremmo
in inganno come chiesa e come credenti in Gesù
se pensassimo che abbiamo bisogno di questo e di quest'altro,
di questi beni e di questi altri, di questi mezzi e di
questi altri, di queste difese e di queste altre, di questi
appoggi e di questi altri. Come faccio a dire che conto
sulla forza del nome di Gesù se mi copro di cose,se
sono in cerca di appoggi terreni, se voglio essere chiesa
imponente. Chiunque potrebbe dirci : "Ma dove è
mai il vostro Dio se il vostro modo di procedere è
quello dell'ambizione, se le vostre strategie sono quelle
corrotte di tutti. E poi dite di contare su Dio? Ma voi
contate su ben altro! Dietro le vostre macchinazioni c'è
ben altro. Ben altro di Dio". Non facciamo bestemmiare
il nome di Dio.
Dei cristiani troviamo scritto nel Concilio: ""Camminano
al seguito del Cristo povero, umile e carico della croce"
(LG 41). Voi mi capite, solo le mie mani vuote, vuote
di ricchezza e di potere possono dire che la mia forza
è il Signore, che la ia forza e il mio segreto
è la concretezza dell'amore che lui mi ha lasciato
come su comandamento.
Il gesuita e biblista Silvano Fausti, nella sua rubrica
sul mensile "Popoli" in cui sta "rileggendo"
la figura di Pietro a partire dalla Parola di Dio, scrive:
"Se Pietro avesse avuto danaro, avrebbe fatto l'elemosina,
cosa buona. Se ne avesse avuto tanto, avrebbe fatto un
istituto per zoppi, cosa ancora migliore. Ma l'unico mezzo
per risuscitare l'uomo dalla sua morte religiosa e civile,
è la povertà: Dio e mammona, danaro e nome
di Gesù sono incompatibili. Ciò che possediamo
ci possiede: ci rende paralitici e contorti come lo storpio.
La brama di possedere è idolatria (Ef 5,5), l'amore
del denaro radice di ogni male (1Tm 6,10). Ciò
che ostacola la missione della Chiesa non è la
mancanza di beni. Una sola cosa sempre le manca, come
a Davide per vincere Golia, simbolo del male: liberarsi
dall'armatura dei privilegi che ha, per fraternizzare
con tutti".
Che cosa dunque ci rimane se non fissare lo sguardo su
Gesù povero umile carico della Croce, come lo aveva
fissato Pietro dopo il canto del gallo? E portarne il
contagio nei nostri occhi e nella nostra vita? Conta la
vita. Mi colpisce molto quanto è scritto al capitolo
quinto degli Atti degli Apostoli, dove è detto
che "sempre più in quei giorni venivano aggiunti
credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne,
tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze,
ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando
Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno
di loro" (At 5,14-15).
Pensate, allora bastava un'ombra.