IL TEMPO DEL SILENZIO
Lecco,
sala Ticozzi, 20 marzo 2012
Ringrazio
per questo invito, anche se avrei preferito concedermi,
questo pomeriggio, non il tempo delle mie parole, ma il
tempo del silenzio.
Per
questo vorrei - è uno dei tanti desideri cui finisco
poi spesso per contravvenire - vorrei contenere il flusso
delle mie parole. Vi confesso che, da un po' di tempo
a questa parte, mi nego - sarà una mia malattia
- a convegni dove per giorni e giorni una relazione sta
sul collo di un'altra. Sarà perché sono
vecchio e quindi più lento, ma io sento il bisogno
di lasciar depositare la parola nell'humus della terra:
che stia, la parola, in uno spazio di invisibilità,
uno spazio segreto, che troppo affettatamente viene giudicato
luogo dell'assenza o tempo dell' inutile. Tempo del "silenzio
del seme" nella terra, il silenzio dei nove mesi,
mentre oggi tutto è accelerato e a rischio di nascite
mostruose.
Seguendo
la scansione sapiente del libro del Qoelet potremmo dire
che c' è un tempo per parlare, ma c'è anche
un tempo per tacere, un tempo per il silenzio
Dentro,
lasciatemi dire, una stagione, la nostra, di parole e
di rumore. Non so se qualche volta anche voi siate presi
da questo desiderio, che a volte riconosco in me, forse
desiderio un po' folle, di uscire nella notte e ascoltare
il silenzio delle stelle. Veniamo, so che esagero, dal
paese del disgusto. Dal rumore delle parole. Assordante,
impenitente. Un inferno in terra. E più si è
vuoti, più si consumano parole. Più si è
maschere, più ci si esibisce. Finisce che per disgusto
spengo il televisore. Spengo i volti truccati. Spengo
la menzogna.
Le
parole per impazzimento hanno smarrito il loro suono.
Sono usate per dire il contrario del loro suono, non hanno
più la pesantezza del reale, hanno la leggerezza
del nulla. Ascolto, chiudo. E dico: è il nulla.
E poi parlano di nichilismo! Loro che sono giullari del
nulla, giganti del nulla. Vorrei uscire nella notte e
ascoltare il silenzio delle stelle. Per un bisogno di
sincerità, innanzitutto con me stesso.
Anche
la religione si è fatta moltitudine di parole,
consumata in documenti di plastica e nelle chiese qualcuno
comincia a provare disagio per il rumore religioso, per
le grandi adunate che sono esibizione di tutto, unico
assente Dio. Assenza di vento leggero, quello che odorò
Elia dalla caverna sull'Oreb: Dio non era nel tuono, nel
terremoto, nel guizzo del lampo, era in un fruscio di
silenzio, si chinò, passava Dio. Fermati, togliti
i sandali, come Mosè, in vista del roveto che ardeva
e non si consumava. Togliti le tue supponenti definizioni,
la terra è sacra. "Il Padre" dirà
Gesù "vuole adoratori in spirito e verità".
E oggi qui vorrei ricordare - quante volte ne ho parlato
- una piccola strada in salita, non era certo l'Oreb,
presso l'oratorio di S.Giovanni e gli occhi di una bambina
di undici anni, ora è una donna, che mi disse.
"don Angelo, e adesso chi mi parlerà sottovoce
di Dio?".
C'è
un vivere quotidiano rumoroso, sottoposto a un delirio
di appelli, a un continuo risuonare di voci che ci distolgono
dalla concentrazione. Un rumore, vorrei aggiungere, non
solo esteriore. Nel nostro stesso intimo, desideri e impulsi
si affacciano prepotentemente, tumultuosamente. I nostri
stessi progetti ci fanno ansiosi, preoccupati di che cosa
fare, di che cosa dire. "pre-occupati", già
dunque occupati, abitati da ansie, già "occupati".
A
volte mi chiedo che cosa è silenzio. Forse è
trattenere il fiato e respirare una presenza.
Trattenere
il fiato per fare spazio. In un certo senso svuotarsi
o meglio fare posto. Ricordo una sera di anni fa, ero
a Napoli in un incontro alla Facoltà teologica
e, dopo la relazione, la domanda di un non credente sul
silenzio in cui parla Dio. Lui a chiedermi, domanda intrigante,
come sfuggire all'inganno di ascoltare ancora una volta
se stessi, illudendosi di aver ascoltato Dio. Ecco fare
silenzio significa anche svuotarsi delle pretese e dei
pregiudizi, fuori da ogni arroganza dello spirito.
Perdonate
la confidenza: a volte mi succede di pensarlo, quando
in certe ore del giorno trovo chiuso il grande portone
della casa parrocchiale in via Montenapoleone dove ora
abito e mi si apre un portoncino, così basso -
strano, in una via come quella! - così basso che
per entrarci ti devi piegare, ti chiede di abbassarti.
Quasi a dirmi che tu entri in una casa, in una situazione
o nel cammino dell'altro, a questa unica condizione: piegarti.
Se no? Se no, rimani fuori, sei fuori. Da un vero ascolto.
Se sei pieno di te, del rumore di te, non entri, in un
vero ascolto, non sai, non puoi ascoltare.
Il
tempo del silenzio è forse dunque il tempo in cui
come vi dicevo trattenere il fiato e stare sulla soglia.
Di se stessi. Dell'altro, delle cose, di Dio, nell'assenza
di parole. E sfiorare il mistero che avvolge ogni cosa.
Lontani da ogni ombra di invasione. Di prepotenza. Di
dominio. In estasi, cioè uscendo. Nella più
intensa delle comunicazioni.
Noi
abbiamo nel nostro mondo occidentale privilegiato, fino
ad assolutizzarla, la comunicazione verbale. Cancellando
o negando importanza a comunicazioni che vivono di silenzi
e e sono tra le più intense. Io penso che solo
chi è rozzo di spirito non sa né percepire
né apprezzare o giudicare vuoto il tempo vuoto,
il lungo tempo in cui gli innamorati si perdono, senza
dire una parola, l'uno negli occhi dell'altro. Il tempo
del silenzio degli innamorati. C'è da incantarsi.
Ebbene
penso che il silenzio stupito sia la condizione perche
riaccada il miracolo della creazione, il miracolo che
fece vibrare leggera l'aria del mattino del mondo quando
le cose uscirono dal grembo del silenzio e presero colore
e forma, il colore e la forma della vita. Senza il silenzio
le cose ricadono nel nulla: vi passi accanto con il passo
distratto, come se gli occhi fossero altrove, passi e
non vedi o fai finta di vedere, respingi le cose ancora
nel nulla, non le fai esistere.
Alcune
sere fa, invitato a Lavagna a parlare di "innamorarsi"
mi è capitato di condividere con chi mi ascoltava
queste riflessioni: posso sbagliarmi, ma ho come l'impressione
che noi raramente, molto raramente, misuriamo quale perdita
nella vita sia l'andarcene indifferenti e senza sussulti.
Senza emozioni per il filo d'erba, per un lembo risicato
di cielo che ancora si affaccia tra un tetto e un altro
della città, per il gorgheggiare stupito di un
uccello, per una canzone di Lucio Dalla o per la musica
di Mozart o per le parole di una donna poeta, per il sussulto
di un torrente, per due innamorati che si stringono l'un
l'altro, o per l'arco che fanno le rughe sul volto degli
anziani o per il fremito di piccole luci in uno specchio
di lago.
Diceva
in una sua intervista anni fa Ermanno Olmi: "Non
si può amare un bosco, se lo si vede solo come
una fabbrica di ossigeno. L'amore nasce da un rapporto
diretto e c'è un solo modo per conoscere la foresta:
inginocchiarsi e guardarla da vicino".
Forse
potremmo continuare all'infinito: c'è solo un modo
per conoscere Dio, per conoscere una donna, un ragazzo,
una città, un prato
: "inginocchiarsi
e guardarli da vicino". Guardare gli altri a millimetro
di occhi, di viso e di voce, e non da lontano, guardare
da innamorati in silenzio.
Se vedessimo la terra, l'umanità, la nostra casa,
ogni creatura che incrociamo nella vita con occhi che
accarezzano nel silenzio e non invece con aneliti predatori,
quante cose cambierebbero. Allora le parole nascerebbero
lievi e non di pietra:
"Le
parole che pronunciamo" scriveva anni fa un teologo
psicoterapeuta, che amo, Eugen Drewerman "dovrebbero
essere come il vento che soffia tra le foglie della vigna,
leggero, fecondante, tenero. I nostri occhi dovrebbero
essere caldi, luminosi come il sole nel cielo, come il
sole che allontana ogni paura e scioglie il terreno per
le piante che vogliono crescere alla luce e dà
ai frutti, che stanno maturando, il coraggio di svilupparsi
e dona loro la dolcezza quando giungono alla pienezza
della maturazione. Le nostre mani e il nostro agire dovrebbero
essere delicati come una pioggia mattutina e come la rugiada
sulle foglie".
Il
frutto dell'incantamento, il frutto del silenzio.
Perdonate
se termino queste mie riflessioni, che più che
riflessioni sono sussulti, con le parole di due poeti.
Parole
innanzitutto di un amico, Padre David Maria Turoldo, me
lo richiama al cuore questa sala, in cui tante volte abbiamo
ascoltato la sua voce appassionata. La città di
Lecco lo ricorderà, a vent'anni dalla sua morte,
con molte iniziative nei prossimi mesi e in autunno. La
prima poesia è una preghiera:
Mentre
il silenzio fasciava la terra
e la notte era a metà del suo corso,
tu sei disceso, o Verbo di Dio,
in solitudine e piu' alto silenzio.
La
creazione ti grida in silenzio,
la profezia da sempre ti annuncia,
ma il mistero ha ora una voce,
al tuo vagito il silenzio è più fondo.
E
pure noi facciamo silenzio,
più che parole il silenzio lo canti,
il cuore ascolti quest'unico verbo
che ora parla con voce di uomo.
A
te, Gesù, meraviglia del mondo,
Dio che vivi nel cuore dell'uomo,
Dio nascosto in carne mortale,
a te l'amore che canta in silenzio.
L'altra
poesia di David è un sogno, eccolo:
Sogno
fontane di acque
fiumi a cascate d'acque
e praterie sconfinate ove
la luce danzi col suo
abito da sposa
e
un angelo che suoni il flauto
nel silenzio di una dolcissima
aurora
ma
non è che un pallido sogno
altra è l'Aurora
che attendo
pure
in timore e tremore.
(da
Canti ultimi, p.121)
Ma
il tema del silenzio mi ha portato al cuore un'altra figura,
quella di una donna che amo, una poetessa che amo, che
passava mesi e mesi della sua vita tra questi monti, nel
piccolo paese di Pasturo, Antonia Pozzi. La prossima domenica,
25 marzo, le sarà aperto in quel paese un percorso.
Due anni fa ebbi il dono di poter salire le scale di quella
casa sino al loggiato e di entrare in quelle sue amate
stanze. Era come se il silenzio parlasse sottovoce. E
mi venne di scriverne:
Più
salivi i gradini
della casa antica
più facevi stupiti
i tuoi passi.
E gli occhi erano
come a una soglia.
Dal colonnato che si era fatto
leggero, come fosse di vetro,
batteva luce a una porta,
la tua, Antonia.
La chiave ora apriva
ma a lenti tocchi
per magre fessure
di pudore.
E fu casa di memorie.
Abitate.
Ora gli occhi trattenuti
da pudore osavano.
Sfioravano accarezzando
foto e ricordi
che per passione dì occhi
accendevi alle pareti,
manoscritti acquarelli disegni.
Qui a cercarti
non tra i morti ma tra i viventi,
come toccati da brividi
di voci e di luci,
dal soffio di Dio
che ti abitava,
lui che ti coprì di neve
nell'ora
che vegliava alla Porta.
Angelo
Casati