Lasciatemi
sognare angeli e fessure
Non mi riesce di staccarli dalla mente. E penso succeda
a tanti di noi. Anche se i loro nomi sono scomparsi dai
giornali e i volti si vanno lentamente dissolvendo. Mi perdevo
nei loro occhi, quando ancora sgusciavano dalle pagine dei
quotidiani. Era come li abitasse la luce. Imperversano ora,
su quotidiani e riviste, facce truccate. E sarà fiera. Per
giorni e giorni. Ora il posto è per la fiera.
Ma
altri - ed hanno la mia stima - dicono che c’è un posto
segreto, dove tu parli ogni giorno, dici parole che non
saranno mai scritte. Le dici a te o alla persona che ami.
Anche se non sente? O le dici a Dio. Che sente. È un posto
dove i due ragazzi di Gravina ancora hanno dimora. In noi.
La fiera non li ha espulsi. È un luogo sicuro.
Non
mi riesce di staccare dalla mente quell’ingresso dall’alto,
buca che si fa buia ad ogni sussulto di discesa e buio ultimo,
quello senza risposta, in cui dimorarono uno accanto all’altro,
guardandosi negli occhi, Francesco e Salvatore. Mi pesano
sul cuore, fino a sfondarlo, quelle ore, fatte d’ombra,
dell’uno e dell’altro. Forse più ore, un tempo più lungo,
per uno dei due, per Francesco. A un fiato da un fratellino
morto. Come può, mi sono chiesto, un ragazzino reggere alla
morte accanto? E la domanda mi spaccava il cuore. L’interrogazione
scuoteva la fede: perché all’ingresso della cisterna di
Gravina non si udì il grido di Gesù, il Signore che amo,
il grido che invece udirono altri a una tomba, poco fuori
Betania: “Vieni fuori”?. Quel giorno lo sentirono gridare
a gran voce, era voce di urlo, urlo di dolore e di protesta:
“Lazzaro, vieni fuori!”. Non voce invece, non grido tra
le pareti morte di una casa morta a Gravina.
E
quali pensieri avranno navigato nella loro mente e nel loro
cuore, in quella veglia impotente di ore o di giorni? Possiamo
- mi chiedo - sperare che ci sia un angelo anche per la
morte? O gli angeli sono solo nel giardino della risurrezione?
Ci sono soltanto al risveglio della luce o anche quando
si infittisce e fa peso la tenebra dell’agonia? Sì, oso
pensare che ci sia un angelo delle tenebre più buie. Mi
induce a pensarlo Luca, l’evangelista, che fa menzione di
un angelo nell’ora in cui al Getsemani, nel giardino dell’agonia,
di buio si infittirono pure i rami lucenti degli ulivi e
a tremare fu il cuore del figlio di Dio. E Luca annota:
“Ora gli apparve un angelo dal cielo che lo confortò”.
Non sta scritto. Ma lasciatemi sognare che ci sia un angelo
dell’agonia. E che sia il segno della compassione di Dio
nell’ora più buia, quella estrema. Un’ora che attende, invoca,
una tenerezza, la tenerezza da cui si sentì sfiorare, secondo
un racconto rabbinico, Mosè, quando con il cuore gonfio
vide avvicinarsi la morte e non era per lui ancora terra
promessa. Il racconto rabbinico da un lato indugia sullo
sconvolgimento di Mosè di fronte alla morte, dall’altro
sulla tenerezza con cui Dio lo accoglie nel suo morire.
Questo
il midrash dei rabbini: «Ascoltiamo come morì
Mosè. Avendo finalmente accettato di morire, Mosè implora
Dio di non consegnarlo alle mani dell’angelo sterminatore,
che gli fa paura. E Dio glielo promette. L’angelo sterminatore
si avvia verso Mosè a tre riprese, ma può solo guardarlo
da lontano (come la terra promessa). L’ultima ora è giunta.
Mosè la impiega per benedire le tribù di Israele. Incomincia,
benedicendole una alla volta. Ma siccome il tempo incalzava,
le benedice tutte insieme.
Poi, circondato dal prete Eleazar e dal figlio Pincas e
seguito dal discepolo Giosué, incomincia a scalare il monte
Nebo, lentamente. Entra nella nube che lo attende. Mosè
avanza di un passo e si volta a vedere il popolo che lo
segue con lo sguardo. Avanza di un altro passo e si volta
di nuovo per vedere gli uomini, le donne, i bambini rimasti
laggiù. Alcune lacrime scendono dai suoi occhi: non vede
più nessuno.
Arrivato
sulla sommità della montagna, si ferma. “Hai ancora un minuto.”
Dio lo previene per non privarlo del suo diritto alla morte.
Mosè si stende sul suo giaciglio. “Chiudi gli occhi”, gli
dice Dio. E Mosè chiude gli occhi. “Incrocia le braccia
sul petto”, gli dice Dio. E Mosè incrocia le braccia sul
petto. E Dio lo bacia sulla bocca, in silenzio. E l’anima
di Mosè si rifugia nell’alito di Dio. Che lo porta nell’eternità.
Il
popolo d’Israele, ai piedi della montagna brumosa, pianse.
E tutta la creazione pianse.
Lassù
gli angeli e i serafini lo accolsero nella gioia che risuonò
in tutte le sfere celesti».
Lasciatemi
pensare che Dio o un suo angelo abbia chiuso, teneramente
chiuso, gli occhi dei due ragazzini nella prigione del buio,
che abbia composto loro a croce le braccia e li abbia baciati
sulla bocca in silenzio e che la loro anima si sia rifugiata
nell’alito di Dio, che li abbia portati nell’eternità. Per
un attimo l’ho pensato. Tuttora continuo a pensarlo. Come
avvenne per Mosè.
Ma
questo non impedì che il popolo d’Israele, ai piedi della
montagna brumosa, piangesse. Questo non impedì che Gesù
alla tomba dell’amico scoppiasse in pianto. Questo non impedisce
a noi di fremere come Gesù di indignazione per le aggressioni
continue alla vita.
La
promessa che Dio un giorno vendicherà i suoi figli dell’aggressione
della morte non può che sollevare a speranza i cuori devastati.
Ma credere nella risurrezione e rimandarla al futuro non
basta. Come sognarla se oggi non ne vediamo brividi di luce
su questa terra? Fessure.
Occorrono segni, cioè fessure da cui oggi qui sulla terra
intravedere Dio e la sua gloria. Pozze di fuoco in cui fin
d’ora balugini il sussulto del futuro. Gesù sulla terra
aprì segni, aprì con la sua vita fessure. Da cui sorprendere
la gloria futura.
“Se
credi” diceva a Marta, l’amica di Betania che voleva fermarlo
dall’azzardo di togliere la pietra del sepolcro. “Se credi”
le diceva Gesù “vedrai la gloria di Dio.” Si aprirà per
te, Marta, nella tua vita, una fessura e dalla fessura vedrai
in che cosa veramente consista la gloria di Dio. E fu segno,
e fu fessura quel giorno e Marta vide la gloria di Dio riposare
in quell’amico, il Figlio di Dio che singhiozzava. Strana
fessura, strana gloria, strano Dio, un Dio che piange. Strano
agli occhi di quanti fanno della distanza e della imperturbabilità
il segno della gloria. Strana fessura, strano segno, strano
Dio. Vide la gloria riposare in quel Rabbì di Nazaret che
metteva a repentaglio la sua vita per un amico, per di più
già morto. Strana fessura, strano segno, strano Dio. Strano
agli occhi di quanti fanno di se stessi e della loro difesa
la loro gloria.
Ma
non era forse iniziato così, nel vangelo di Giovanni, il
racconto dei segni, delle fessure da cui sorprendere Dio?
Prima fessura, primo segno, quello del banchetto a Cana
di Galilea, banchetto di nozze. E che il vino ci sia e sia
buono fino alla fine! “Manifestò” è scritto “la sua gloria.”
Anche là, da una fessura, i discepoli videro la gloria di
Dio. La videro riposare su un Dio che pensa al vino, pensa
all’ebbrezza di una festa. Strano segno, strana gloria,
strano Dio. Strano agli occhi degli “spiritualisti” che
proprio non apprezzano che un Dio si sprechi per il vino.
Ma lui imperterrito a fare segni, che siano fessure sul
volto di Dio. Segni di risurrezione nell’oggi. Un Dio che
salva una festa con il vino è un segno di risurrezione.
Un Dio che mette a repentaglio la vita per un debito di
amicizia è un segno di risurrezione nell’oggi. Un Dio che
siede accanto e piange è un segno di risurrezione oggi,
un Dio che grida: “vieni fuori” è oggi un segno di risurrezione.
Fino all’ultimo segno, l’ultima fessura sulla terra, il
giorno in cui videro la gloria, ultima fessura, appesa a
un legno, legno di croce, il legno, dove finalmente posò
il capo. Lui che aveva detto: “Il Figlio dell’uomo non ha
dove posare il capo”. Strano segno, strana fessura, strana
gloria. Strana agli occhi di coloro che la gloria la mettono
nello spremere gli altri. Emozionante segno su Dio. Emozionanti
i suoi segni della risurrezione oggi.
E
noi? Noi prolunghiamo la sua gloria quando fremiamo e ci
indigniamo davanti alle aggressioni, alle infinite aggressioni,
quando piangiamo e singhiozziamo come Gesù, quando vinciamo,
ovunque sia, l’aria di morte. E non rimandando all’aldilà.
Perché questa è la fede che viene chiesta a noi, come un
giorno a Marta. Ci viene chiesto di credere che Gesù è risurrezione
oggi: “Io sono” - sono oggi - “la risurrezione e la vita.”
E nell’oggi fa segni di risurrezione e di vita.
L’aria
della morte va combattuta oggi. Oggi va combattuto tutto
ciò che ci fa morti dentro, chiusi dentro. Morti ci fa questo
non pulsare più per niente, prosciugati in ogni brivido
dalla corsa al denaro, al successo, ai seggi della gloria.
Noi
per i primi sentiamo di essere sfiorati da un’aria di morte,
non ne siamo esenti. Spesso poi la sorprendiamo con disgusto
nelle parole, nelle esternazioni, nelle proclamazioni infinite.
E nessuno che pianga, si elencano i mali, ma nessuno che
veramente pianga. Tu lo vedi dagli occhi se uno piange dentro
o se invece gli interessa di sé. E non dell’amarezza di
un popolo.
Morti
dentro. Assetati della loro gloria. E non di quella di Dio.
Che è la gloria di chi entra nella casa dell’altro, di chi
piange con l’altro, di chi mette e repentaglio la sua vita
per l’altro, di chi apre tombe ammuffite, di chi sbenda
gli occhi, di chi ti salva dagli infiniti soffocamenti,
dicendoti: “Vieni fuori!”.
don
Angelo
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