LA
PREGHIERA E LA VITA
Intuizioni e fraintendimenti
Vorrei
difendere la preghiera. Difenderla da troppi fraintendimenti
che la soffocano, cominciando col dire che per me è
essenzialmente un fatto di presenze.
Oggi
forse meno di ieri, ma ancora, la preghiera è legata
alle parole. E, lasciatemi dire, alle nostre parole. Che
immagine vi si risveglia in cuore quando pensate a una
donna o un uomo che prega? Uno, una, che dice preghiere,
parla a Dio, meno "uno, una che ascolta", ascolta
Dio.
Veniamo
da un'educazione sulla preghiera, ma forse in genere sulla
vita, dove la dimensione dell'ascolto è stata meno
presente, meno insegnata. E infatti che cosa ci chiedevano,
a verifica, i genitori, o le suore e i preti? Ci chiedevano:
"Hai detto le preghiere?". Hai "detto"!
Pensate, già sarebbe stata grazia se ci avessero
chiesto: "Hai parlato con Dio?" Ma grazia delle
grazie sarebbe stata se ci avessero chiesto: "Hai
ascoltato Dio?", "Sei stato in ascolto?".
Il discorso, capite, travalica la preghiera, investe la
vita: noi ci entusiasmiamo giustamente per un bambino
quando incomincia a parlare e gli insegniamo a parlare.
Insegniamo ad ascoltare? Non dovremmo entusiasmarci davanti
a un bambino, un figlio che ascolta?
Ma
veniamo anche da un'educazione che ci ha fatto balenare
l'idea che poco o tanto pregando facciamo passare Dio
dall'indifferenza all'attenzione nei nostri confronti.
Brutta immagine di Dio. No, noi, pregandolo ci ricordiamo
che Dio c'è. Il suo nome è "io ci sono".
O, se volete, "io vedo". O, se volete, "io
ascolto".
Lui
vede, ma è un vedere buono. Di padre. Non un vedere
da fulminatore, come ci volevano far credere quando, ora
qui, ora là, scrivevano: "Dio ti vede"
per incutere paura ed era uno sguardo da inquisizione.
No, pregare è essenzialmente sentirsi avvolti dal
suo sguardo come Zaccheo sull'albero, quando Gesù
alzò lo sguardo e si fece invitare in una casa
di peccatori.
Lui,
un Dio che "ascolta": non succede con lui quello
che purtroppo può succedere tra noi che uno parli
e l'altro sia via con la testa. No, lui c'è, è
per te. Così come quando ascoltò il grido
del suo popolo in Egitto, grido dalla schiavitù.
Così come, molto e molto prima, aveva ascoltato
il pianto di un fanciullo, un cucciolo d'uomo, nel deserto.
Che cos'è un pianto di fanciullo nell'immensità
del deserto. Rileggete la storia di Agar, la schiava che
aveva avuto quel figlio da Abramo, cacciata per gelosia
di Sara dalla casa, smarrita nel deserto, senza più
acqua per il suo bambino e non aveva cuore di vederlo
morire. E Dio udì la voce del fanciullo. L'angelo,
è scritto, le disse: "Che hai, Agar, non temere,
perché Dio ha udito la voce del fanciullo"
(Gn 21,17).
E
dunque prima di pregare respira questa presenza. Paradossalmente
potranno anche mancarti le parole. Non era forse successo
al santo curato d'Ars di entrare nella sua chiesa e di
vedere un contadino seduto su una panca, bocca chiusa?
Rientra, e di tempo ne era passato, e lo ritrova bocca
chiusa. Gli domanda come mai quella bocca chiusa davanti
a Dio. Gli risponde: "Io lo guardo e lui mi guarda".
E chi potrebbe essere così stolto da pensare che
non c'è comunicazione nei tempi, anche lunghi,
passati in silenzio dagli innamorati? Quando in silenzio
uno si perde negli occhi dell'altro?
Anni
fa mi aveva colpito, la testimonianza di un religioso
francese, componeva bellissime canzoni, l'abbé
Duval. Lui raccontava che a insegnargli chi era Dio erano
stati suo padre e sua madre. Suo padre, perché
la sera, prima di coricarsi, lo vedeva inginocchiarsi
vicino al letto: lui, uomo fiero, che non si sarebbe inginocchiato
davanti a nessuno, si inginocchiava e a lui, bambino,
veniva da pensare che doveva essere ben grande Dio, se
suo padre davanti a lui si inginocchiava. Ma di Dio una
immagine complementare gliela aveva data sua madre, perché
la vedeva pregare Dio, mentre allattava il fratellino
e mentre il gatto le faceva le fusa sulle spalle. Doveva
essere ben tenero Dio, se sua madre poteva parlargli in
quel modo! Vivevano a loro modo una presenza.
Che
è stare faccia a faccia, Vivere una presenza. E
non correre subito alle formule di preghiera. Senza aver
respirato una presenza. C'è anche una voracità
nella preghiera, da cui Gesù ci ha messo in guardia.
Un
giorno un discepolo si affacciò a Gesù con
una richiesta, che potrebbe essere anche la nostra: "Signore,
insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato
ai suoi discepoli". E forse, davanti alla richiesta
di quei discepoli, potrebbe nascere una meraviglia, lo
stupore nei cosiddetti maestri dello spirito. Che potrebbero
non capacitarsi, meravigliarsi cioè che Gesù,
dopo tanto cammino con i discepoli - pensate, siamo al
tratto finale della sua missione - non abbia ancora fatto
ai discepoli un insegnamento sulla preghiera. "Ma
che maestro di spirito sei?", direbbero. Ma questo
è Gesù. Che si sente mettere a confronto
con gli altri rabbì, gli altri maestri di spirito.
Quelli sì, insegnano a pregare. Giovanni Battista,
per esempio.
Gesù
in qualche misura si differenzia. Innanzitutto perché
la sua catechesi sulla preghiera, non nasce da parole.
L'avevano visto pregare. e tale e tanta era stata l'impressione
che ne erano rimasti affascinati. A tal punto affascinati
che era venuto loro spontaneo chiedere che insegnasse
anche a loro a pregare.
Ci
sarebbe da pensare e a me vengono i brividi. Se entrasse
un non credente nelle nostre chiese - e oggi capita che
entrino i non credenti magari per un matrimonio o per
un funerale - sarebbero così affascinati dal mio
volto da chiedermi di fargli capire che cosa è
la preghiera? Liturgie solenni, vesti lussuose, incensi,
gesti ieratici ma pallore di volti, volti immobili, rigidi,
senza accensioni. Una solennità senza brividi e
accensioni, che, a chi guarda dall'esterno, potrebbe,
più che legittimamente, far sorgere un dubbio che
stiamo fissando il vuoto.
Più
volte mi è capitato di far sorridere con un piccolo
racconto che mi è stato passato da un amico. Si
narra di un paese, di una parrocchia, arriva il Corpus
Domini. Per tutta la settimana a sfoderare luminarie,
a lustrare candelieri, a spolverare baldacchini. Viene
il giorno della processione, si parte, candelieri accesi,
torce, gli abiti variopinti dei confratelli, ondate di
profumo di incensi, petali di rosa sulla strada. Ed ecco
che un umile parrocchiano si avvicina timido al parroco
che porta l'ostensorio e sottovoce gli dice: "Signor
parroco, manca l'ostia nell'ostensorio". E il parroco:
"Beh, non si può avere tutto".
Che ci arda qualcosa nel cuore. A Gesù ardeva e
da lì nasceva l'affascinazione. Prima differenza
dagli altri rabbi.
Poi
c'è un'altra differenza: che il rabbì di
Nazaret non è per le preghiere prolisse. Anzi,
nella redazione di Matteo, l'insegnamento del Padre nostro
viene dopo una critica puntuale, oserei dire aspra di
Gesù, alle preghiere che non finiscono mai. Gesù
dice: "Quando pregate non blaterate come i pagani:
infatti pensano che saranno esauditi per la loro loquacità,
infatti il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno
prima ancora che voi gliele chiediate. Voi dunque pregate
così
" E propone la preghiera del Padre
nostro, che l'evangelista Luca prosciuga, accorcia, se
la poniamo a confronto con il "Padre nostro"
nella redazione di Matteo.
Quando
pregate, dite: "Padre". E' questa, per Gesù,
l' immagine del volto di Dio che dovrebbe accendersi in
noi quando preghiamo. Gesù vi ha concentrato la
sua attenzione, come se questa dovesse essere la soglia
che introduce: fermati sulla soglia, pensa che Dio ti
e padre. L'immagine con cui illuminare il volto di Dio
nella nostra preghiera è quella di "padre".
E
ora vorrei fare qualche riflessione su preghiera e vita
quotidiana, sulla preghiera come "luce calda della
lampada sulla tavola della vita"l, vorrei sorprendere
con voi qualche piccola luce in questo nesso "preghiera
e vita quotidiana". E, se mi riesce, lo vorrei cogliere
il nesso in due momenti, quelli del nostro fiato: mandare
respiro e prendere respiro, la preghiera che manda respiro
alla vita quotidiana e la preghiera che prende respiro
dalla vita quotidiana. Solo qualche suggestione.
Primo
momento, la preghiera che da respiro alla vita quotidiana.
E
ritorno da impenitente, e spero che voi mi perdoniate,
sulla preghiera che vive dello stare faccia a faccia con
Dio a respirare il volto di un padre, e non di un padre-padrone,
un Dio, che dimora nella definizione "io ci sono",
"io vedo", "io ascolto".
Ma
se sono stato con lui come non potrò non portarne
un riverbero sul volto? Come Mosè che dal monte
scendeva con il volto abbagliato e doveva pure mettersi
un velo perché quella luce non ferisse gli occhi
di chi lo fissava in viso. Poi Paolo, voi lo sapete, un
po' maliziosamente, viene a dirci che quel velo serviva
anche a far credere che ci fosse luce sul viso anche quando,
di luce, non ne esisteva più neppure un rigo. E
può succedere. Sotto tanti orpelli ecclesiastici
nascondiamo, e già lo rilevavamo, l'assenza. E
allora tieni le distanze, celebra rivolto al muro così
tutti potranno pensare a una luce che non c'è!
Ma
in positivo se sei stato faccia a faccia con un Dio che
ha il volto di un padre e non di un padrone, come potresti
rientrare nella vita e vivere con atteggiamenti dispotici,
farla da padrone in casa, in ufficio, per strada? Se sei
stato con Dio nella preghiera e ti sei commosso a un Dio
che dice "io ci sono", come potresti rientrare
nella vita e vivere come se tu dicessi "io non ci
sono", "io ci sono solo per me stesso"?
Se hai sostato a un Dio che ti diceva "io ascolto",
come puoi rientrare nella vita quotidiana e vivere come
se tu dicessi: "Io non ascolto, ascolto solo me stesso"?
Se nella preghiera hai sostato a un Dio che ti diceva
"io vedo", come potresti rientrare nella vita
quotidiana e vivere e fare "come se tu non vedessi"?
Su
questo dovremmo, a mio avviso, sostare molto di più
di quanto facciamo, perché su questa connessione
"preghiera che trascini la vita", la Bibbia
non lascia esitazioni e dubbi. Anzi spesso Bibbia ebraica
e Nuovo testamento mettono in guardia da una strana sconcertante
connessione che si crea invece tra religione e ingiustizia,
mettono in guardia da questa orribile commistione tra
pratiche religiose e ingiustizia. Parlano, le Scritture
Sacre di uomini religiosi indifferenti o peggio conniventi
con le ingiustizie. Succede che con il culto, con le pratiche
religiose si coprano le ingiustizie. Le parole dei profeti
- le sentiamo la domenica - spesso vanno a denunciare
questa commistione e sono roventi nello smascherare questo
dissacrante connubio.
Ma
ora vorrei, se mi riesce, dire qualcosa sull'altro versante
che va dalla vita quotidiana alla preghiera. Per dirvi
innanzitutto che a me - sarò un bastian contrario
e lo ammetto - non riesce di pensare a una cosa simile,
che un po' mi è stata insegnata: la vita mi svuota
di spirito e allora ritorno alla preghiera per fare un
accumulo di spirito. Questa visione mi lascia molto perplesso.
Sempre.
Ecco
io pensando soprattutto a coloro che ogni giorno hanno
a che fare con le realtà del mondo, mi dico che
dovremmo farci aiutare da loro a inventare un modo di
essere nel mondo che non sia allontanamento dallo spirito,
ma quasi preghiera. So di essere in controtendenza rispetto
ai nuovi rappresentanti del pessimismo religioso - che
non è affatto religioso! - loro che ossessivamente
stancamente dai loro documenti, dalle loro omelie denunciano
l'esilio di Dio, l'assenza di Dio, un Dio in fuga dal
mondo.
C'è
da inventare un' arte. E sono i laici più che i
preti nella condizione di inventarla. Se toccasse a noi
preti, credetemi, ne verrebbe una cosa clericale, parlo
dell'arte di stare nelle cose del mondo come fossero,
in positivo o negativo, parabole del regno di Dio. E cioè
non in fuga dalle cose, ma facendole parlare.
Vorrei
dirvi che mi affascina questo Gesù che contempla
le cose, gli uccelli del cielo, i gigli del campo e nei
suoi occhi e nel suo cuore diventano parabole del regno
di Dio, intravede, dietro loro, suo Padre, che nutre gli
uccelli del cielo e veste i gigli del campo con abiti
così eccezionali, che un Salomone se li sogna.
La vita non lo svuotava, diventava preghiera. Lui vedeva
il contadino gettare il seme o il pastore camminare davanti
alle greggi o la donna in casa a impastare la farina o
ascoltava la notizia di un figlio che se ne'era andato
o di operai che nessuno prendeva a giornata e faceva diventare
tutto parabola e non svuotamento. E ci ha insegnato anche
perché questo purtroppo spesso non avviene, perché
si hanno gli occhi occupati, il cuore occupato e non si
sa più contemplare in silenzio. La testa è
via, è in altro.
Può
succedere di avere gli occhi sgombri nella cella di un
carcere Due anni fa sono entrato in contatto con un detenuto
del carcere di Montorio veronese per via di un mio libro.
In una sua lettera al cappellano del carcere scriveva:
"Quando le cose sono tante o troppe, il silenzio
è la cosa migliore. Dieci minuti fa, il compagno
di cella Eros mi ha detto che stava piovendo. Pensavo
vaneggiasse. Ho aperto la finestra e ho visto la pioggia.
Ho annusato attraverso le sbarre la pioggia. Mi è
sembrata bellissima. Allora, alla fine, Dio è "un
fruscio" come dice Casati? Chissà"
Come
riapprendere ed esercitare l'arte della preghiera da parte
di chi, come voi, vive nel mondo? Ricordo come mi avesse
colpito anni fa in una cella di un monastero il titolo
di un capitolo di un libro di Anthony Bloom, metropolita
della chiesa ortodossa russa. Il titolo era: "Sferruzzando
davanti a Dio". A una signora che gli aveva posto
il problema di aver pregato quasi incessantemente per
quattordici anni, senza ave mai avvertito la presenza
di Dio, il religioso le aveva suggerito di mettere da
parte quindici minuti ogni giorno, restando seduta a sferruzzare
davanti al volto di Dio.
Stare
nella vita sferruzzando davanti a Dio. Nella vita, che
è sferruzzare, sferruzzare il quotidiano: i bambini
che piangono nella casa, il telefono che chiama e tu sei
ai fornelli, la sveglia che suona, il bagno sempre occupato,
e le auto in colonna, stare uno sull'altro nella metropolitana,
la crisi del figlio, la notizia del terremoto, l'abbraccio
infinito e quello negato.
Noi,
in giornate orfane della campanella dei monaci, chiamati
a inventare nuovi modi di stare davanti a Dio, non in
fuga o a dispetto della vita, ma interpretando la vita.
Una preghiera non contro i ritmi quotidiani, ma secondo
i ritmi del quotidiano.
Penso
al moto di genialità che portò in tempi
antichi a inventare la "preghiera di Gesù".
Ci si era accorti che il ritmo fondamentale, quella musica
che ci portiamo dentro, è il respiro. E nacque
così l'invocazione: "Signore Gesù,
Figlio di Dio, abbi pietà di me", modulata
secondo il ritmo del respiro.
E
se oggi scoprissimo altri ritmi e su quelli inventassimo
il nostro stare davanti a Dio e diventasse questa un'arte,
un'arte da passarci gli uni gli altri?
Ci
sarebbe, io penso, da comporre un libro e sarebbe vivo,
di sangue, non di preghiere slavate, come succede spesso
a libri che riportano preghiere ecclesiastiche scolorite,
preghiere per i fidanzati, per i genitori, per i figli,
per una morte, per una nascita, dove le parole sono pallide,
spesso filtrate non dalla vita, ma dai documenti.
Modulare
la preghiera sulla vita. Faccio alcuni esempi. Ma solo
per accendere la fantasia.
La preghiera - che so io - nel ritmo di una madre che
sta con Dio mentre culla il bambino e, cullando, chi sa,
nel cuore va mormorando parole del Primo Testamento: "Può
forse una madre dimenticare il suo piccolo? Anche se fosse,
dice Dio, io non mi dimenticherò di te". E
continua a cullare.
O la preghiera della donna mentre sta affaccendata ai
fornelli. Chi sa che nel cuore non culli la memoria del
Gesù della brace. Brace accesa dal Signore risorto
sulle sabbie estasiate del litorale e pesce arrostito
a ristoro di discepoli sfiniti da una notte di pesca sul
lago.
Stare
con Dio, chissà, nella colonna delle auto ferme,
ferme e insofferenti, in attesa di un evento che schiuda,
e avvertire nel segreto un'attesa ancora più radicale,
l'attesa della venuta del Signore.
Stare
con Dio quando esci di casa o quando ritorni e nel cuore
il riaccendersi delle parole del salmo: "Il Signore
è il tuo custode e la tua ombra, il Signore custodirà
il tuo entrare e il tuo uscire. Ora e per sempre"
(Salmo 121).
Stare
con Dio quando ti trema il cuore e più non sai
né chi sei né dove vai, lontano da chi,
lontano da dove? E il salmo a rassicurarti che, nella
più lontana delle lontananze, Dio ti attende, lui
che, dice il salmo "ti ha plasmato nel più
profondo, ha creato le tue viscere, ti ha tessuto nel
seno di tua madre" (Salmo 139).
Che
la presenza sia nelle cose? Me lo chiedo. E che attenda
solo di essere risvegliata in preghiera?