QUESTIONE
DI OCCHI
È
sera inoltrata, le vie della mia città sono affondate
nell'indistinto, quasi prosciugate nel buio, come fosse
notte fonda. Avrei potuto anche chiamare un taxi, ma mi
ha preso voglia di camminare per le strade buie, quasi
un desiderio di respirarle nel buio. Me ne vado solo;
il quartiere, fuori dalla metropolitana, è deserto, deserto
e sconosciuto. Sento passi alle spalle.
E
sento la mia stranezza: io che mi sono sempre pensato
coraggioso, vaccinato contro ogni forma di paura, mi sento
salire alle spalle l'interrogazione: e chi sarà mai colui
che si sta avvicinando e che ora sta per sorpassare? Sento
la strada come il simbolo delle paure che ci abitano.
Non è paura per i marciapiedi dissestati, paura di incespicare,
paura per le cose, è paura dell'uomo. E ciò mi disturba.
Mi
disturba che si sia giunti alla paura dell'uomo. E lo
chiamiamo progresso! Mi viene d'istinto di ricordare tempi
lontani - quanto lontani! - quando da piccolo uscivo di
casa che era ancora buio e me ne andavo da solo a "servire
Messa" e, percorrendo la strada che dalla casa mi portava
alla chiesa, l'unica paura che mi abitava era quella di
un cane che, all'avvicinarsi dei miei passi, abbaiava
come un forsennato al di là di una staccionata. Ora siamo
arrivati alla paura dell'uomo, alla paura dell'altro,
dello sconosciuto.
Paura
del diverso
Il
diverso, cui abbiamo dato sbrigativamente il nome dello
straniero, dell'omosessuale, dello zingaro, del terrorista,
come se la categoria fosse circoscritta.
Poco,
invece, sostiamo a riconoscere e a confessare che la paura
che ci abita è, alla radice, ben più estesa, perché paura
della diversità. Da qualunque orizzonte provenga. Ogni
uomo e ogni donna, ogni creatura porta iscritto il nome
"diverso", diverso da me, in qualche misura straniero.
E dunque, come mi affaccio all'altro, chiunque sia, vicino
o lontano, in casa o fuori casa, entra in gioco, anche
se non ne sono immediatamente cosciente, il mio rapporto
con la diversità. Che, poco o tanto, lo devo riconoscere,
mi inquieta. L'altro, terra che non mi appartiene, terra
sconosciuta, terra straniera.
Ancora
una volta sono messo a confronto con un territorio straniero
e dunque chiamato a un viaggio, a una distanza da colmare.
"La paura dell'altro", scrive Enzo Bianchi, "è una sensazione
paralizzante che va superata non rimuovendola, bensì razionalizzandola".
E aggiunge che d'altro canto "l'identità non va indurita,
non va cercata senza e contro gli altri. Perché diventa
un fantasma, e ciò porta a ridurre le relazioni sociali
alla materialità del dato etnico, dell'omogeneità del
sangue, della lingua parlata o della religione praticata,
aprendo così la via a forme di politica totalitaria e
intollerante.
I
risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si
accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono
all'esclusione dell'altro e si risolvono in un autismo
sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata
come nicchia dorata, ma che, in realtà, diviene un sistema
asfittico, in cui avanza la barbarie". Non si tratta,
dunque, di cancellare le identità, ma di mettere in comunicazione
le terre, lasciandoci fermentare gli uni gli altri dalla
luce che ci abita. Perché ciò succeda, condizione indispensabile
è la conoscenza dell'altro. Che spesso ci sfugge.
Mesi
fa un'amica mi scriveva: "… Qualche tempo fa il don in
chiesa ha parlato di profeti... e ha detto che ciascuno
di noi può essere in qualche misura profeta... ma per
esserlo, credo io, bisogna essere tanto ma tanto piccoli,
liberarsi da ogni certezza e mettersi al servizio della
vita, di ciò che viene, accettando di essere sempre in
qualche misura ignoranti, con tanta sete di imparare dagli
altri e di meravigliarsi sempre, come dici tu, di una
fragolina che nasce nel cemento. Ciò che mi meraviglia
di più, sempre, ogni giorno, sono proprio gli uomini...
Tempo fa al supermercato ho incontrato una donna anziana
che camminava con un bastone e portava con sé una di quelle
borse con le ruote. Arrivata alla cassa si accorse di
non avere il portafoglio, così spostò le cose che aveva
sul rullo della cassa e mi fece passare. Io pagai la mia
spesa e poi arrivata all'auto dissi a mio figlio che era
con me: 'Non possiamo lasciarla lì'. Così tornai indietro
e chiesi dove abitasse: l'avrei accompagnata a recuperare
il suo portafoglio. Il supermercato, però, stava per chiudere
e così mi offrii di pagarle la spesa e l'accompagnai a
casa. In auto mi disse che, nonostante l'atto gentile,
trovava incauto che io l'avessi aiutata. Io risposi che,
in fondo, al massimo ci avrei rimesso 30 euro e che io,
in ogni caso scelgo sempre di avere fiducia nelle persone
(con la dovuta accortezza naturalmente).
Arrivati
a casa sua scoprii che era una scultrice e mi mostrò il
suo studio e i suoi lavori, mi raccontò parte della sua
vita e alla fine la salutai. Tornai a casa quasi alle
9! Non so perché, ma credo sia stato uno scambio vicendevole
tra me e lei e in realtà è lei che ha reso quella serata
una serata speciale per me. Mi ha meravigliato come un
corpo segnato dall'età e dagli acciacchi fosse in realtà
una donna con un talento senza età, una vita piena di
avvenimenti e di emozioni, insomma, una vita. Mi sono
sentita privilegiata perché se non l'avessi aiutata non
avrei potuto vedere e sentire ciò che ho visto e sentito.
Per meravigliarsi bisogna rischiare, rischiare di uscire
dal coro per sentire le voci che ci sono fuori, sono tante,
bellissime, uniche e ricche di mistero. Io non sono un
profeta, ma credo che sempre si debba fare un passo in
più e sono contenta che quella sera con me ci fosse mio
figlio, perché spero sempre che un giorno pure lui non
giri la testa dall'altra parte, anche se si trattasse
di una piccola cosa come questa, perché, gli ho detto,
potrebbe perdere un' opportunità. Quella di stupirsi,
meravigliarsi, conoscere, emozionarsi e andare verso...
sempre andare verso...".
Questione
di sguardi
A
volte mi dico che fondamentalmente è una questione di
occhi. Se gli occhi sono vuoti tutto è vuoto. A questo
proposito, anche gli occhi dei bambini hanno molto da
insegnare. Mesi fa una lettera su "Repubblica" raccontava
di una mamma, Irene Zerbini, e di un bambino, suo figlio,
vissuto da piccolo in Canada. Cinque anni fa, venuti in
Italia, il figlio di otto anni le dice: "Mamma, non vorrei
offenderti, ma qui sono tutti bianchi. Ma che cosa avete
fatto agli altri?".
Come
assistesse a un mondo impoverito, defraudato. Che sia
una questione di occhi? Se i tuoi occhi sono abitati dalla
luminosità degli occhi di Gesù, l'altro lo strappi all'estraneità
e alla lontananza, lo vivi come fratello, sorella. Ti
eserciti ogni giorno a guardarlo come un vicino, un fratello,
una sorella. Se questo succede si diradano le tenebre
sulla terra e inizia il cammino della luce.
Quando
vediamo la luce? Un vecchio rabbino domandò una volta
ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il
momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il
giorno. "Forse quando si può distinguere con facilità
un cane da una pecora?". "No" disse il rabbino. "Quando
si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?".
"No" disse il rabbino". "Ma quando allora?" domandarono
gli allievi. Il rabbino rispose: "È quando, guardando
il volto di una persona qualunque, tu riconosci il fratello
o la sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo
cuore". Finisca la notte. E inizi il giorno.
don
Angelo