NEL
PARADOSSO DELLA GIOVINEZZA
Chissà
perché da giorni a risucchiarmi i pensieri è
la citazione di una frase, in uso un tempo all'introito
della vecchia liturgia della Messa, allora ancora in latino.
Diceva il prete, stando chino ai piedi dell'altare, affacciato
al muro: "Introibo ad altarem Dei", rispondeva
il chierichetto, chino sui gradini: "Ad Deum qui laetificat
juventutem meam". Ho ritrovato la citazione lungo le
pagine di un'amica, Roberta De Ponticelli, in un suo piccolo,
ma lucido intrigante libro che alcuni di noi stanno rileggendo,
dal titolo: "Sullo spirito e l'ideologia". Sottotitolo:
"lettera ai cristiani".
La
citazione, lo confesso, mi ha risvegliato ricordi e tu sai
quanto, alla mia vecchia età, volentieri si ritorni
e si passeggi nei racconti e nei ricordi.
Quel
sussurro di dialogo in latino ai piedi dell'altare mi ricordò
la fatica spesa allora da un ragazzino come me a mandare
a memoria le frasi del salmo in una lingua che non era mia.
Non mi fu insegnata una preghiera ma un ritornello.
Confesso
anche che, piccolo com'ero, due cose almeno mi sembravano
decisamente strane. La prima che con Dio si dovesse cambiare
lingua: dunque lui non conosceva -grave, strana mancanza
- tutte le lingue e tra tutte la mia? La seconda cosa che
continuava ad apparirmi strana era che per parlare con lui
ci si dovesse affacciare a un muro. Tanto più strana
in quanto nella mente mi frullava un rimbrotto, non così
raro dei miei; più di una volta li avevo sentiti
rimproverarmi dicendo: "è come se parlassi al
muro!" Ed era sommo rimprovero. E perché allora
fare sordo Dio come un muro?
Ma
la frase latina andava anche a risvegliarmi nella memoria
un pezzo di strada buia, allora le Messe spesso avevano
inizio quando ancora non era alba. Uscivo di casa da solo
- ancora non c'era stato il Progresso - e, ragazzino delle
elementari, percorrevo quel tratto di via Noe che dalla
casa di via Plinio andava alla chiesa. Ti dirò che
a farmi balzare il cuore in gola allora non era paura di
uomini, ma solo latrare di cane al di là di una palizzata.
Nella mente lungo la strada mi capitava allora di fare la
prova delle risposte in latino. Non dovevi perdermene una:
le avevo sudate a mandarle a memoria e andavano consegnate
al posto giusto, se no la liturgia si sarebbe inceppata
e avresti patito sulla pelle lo sguardo severo del prete
o quello un po' più indulgente, quasi divertito del
sagrestano, lui sì poliglotta da lunga data.
Ti
dirò che quella frase cominciò ad affascinarmi
per quello che significava, quando ormai era in via di estinzione
nella liturgia. Ad affascinarmi era anche la paradossalità.
Paradossale che l'altare fosse legato a un sussulto di giovinezza
e che a parlare di giovinezza, quasi condizione che gli
appartenesse, fosse anche un prete in esilio da tempo dalla
giovinezza.
Mi
sarebbe poi nella vita capitato di "servir messa"
- così allora si era soliti dire - a preti ultrasettantenni
o ultraottantenni, e la risposta non cambiava: "Mi
introdurrò all'altare di Dio" continuavano impenitenti
a dire i preti. E la risposta impenitente: "A Dio che
fa lieta la mia giovinezza". Errore in età,
ma non forse nella fede.
Oggi
sono qui a chiedermi se la mia fede è legata a giovinezza,
alla novità, al rinnovarsi, al "non codificato"
e se, nel caso mi rivenisse proposto quel sussurro di dialogo
in latino, la risposta: "A Dio ch fa lieta la mia giovinezza",
non sarebbe di menzogna. Per mancata corrispondenza alla
realtà della mia vita.
Mi
sembra di poter dire, a parziale scusa, ma scusa rimane,
che non ha avuto, né ha, buona frequenza nei nostri
ambienti ecclesiastici, nella istituzione, un'educazione
all'invenzione, alla giovinezza. Ha avuto ed ha più
frequenza invece, nei nostri ambienti, un invito alla ripetizione,
al passato, a ciò che è codificato sicuro
da sempre.
Crediamo
nel Dio della giovinezza? O l'abbiamo collocato immobile
sui troni, quasi gli andasse di starci impassibile, fermo
in eterno. Salvo poi a dire che è vita. Ma è
ferma la vita? Quando mai? Se fermi il suo battito, il suo
pulsare, se la imprigioni in un passato, la consegni a breve
tempo a un destino di morte. E' forse fermo Dio, fermo nelle
tue definizioni? O ti sorprende?
Giorni
fa un amico che ama la fotografia, faceva della benevola
ironia su coloro che alla proposta di visitare un luogo
d'arte osano rispondere: "Io l'ho già visto!".
Ma sei così sicuro d'averlo visto? Ma da quale angolatura
l'hai visto? E da quale luce era, quel giorno, illuminato?
Così succede di sentir dire di Dio. Oggi se ascolti
i discorsi di certi credenti, hai l'impressione di parlare
con persone che, loro, Dio l'hanno in mano, l'hanno visto!
Ma da quale angolo? E come era la luce quel giorno? E, dopo
tutto, non è forse scritto che Dio lo puoi vedere
solo di spalle e dunque ti rimarrà sempre del "novum"
da scoprire? E l'aver costretto Dio nel nostro angolo angusto
di visione non avrà avuto forse come contraccolpo
quello di averlo destinato a pratica morte, di averlo defraudato
dell'eterna giovinezza? Lui ad allietare la mia giovinezza.
Ad allietarla per via di contagio. Contagio dalla sua giovinezza.
Il
"novum" di Dio, ma anche il "novum"
della vita. Perché insistere per lo più sulla
ripetizione e non invece sull'invenzione? Lo Spirito di
cui parlava Gesù è meno nella ripetizione,
è più nell'invenzione, è più
nella figura del vento che non sai di dove viene e dove
va. Non ti vien voglia di sorridere di tutti quelli che
pretendono di imprigionare nelle loro mani il vento? Lascia
che ti conduca.
A
volte mi viene di immaginare quante cose nel mondo sarebbero
fiorite se, anziché insegnare a ripetere modelli,
avessimo insegnato ad ascoltare il vento. Se avessimo detto,
a chiunque: "Questa è la tua vita, chiediti
che cosa puoi farne. Che cosa ancora puoi immaginare e inventare,
non comprimere i tuoi sogni, non impoverirli nel già
fatto".
Immagino
con emozione di quanti colori si sarebbe vestita la vita.
Di quanti frutti, che già s'affacciavano timidi nell'intenerirsi
dei germogli, invece soffocati, fin nel loro primo tepore,
dalla ristrettezza.
Penso
alla bellezza di una chiesa più preoccupata di far
sognare che di contenere, di una chiesa lieta nel riconoscere
e lieta di benedire il "novum" e non invece timorosa
e diffidente, rattrappita nella figura del lamento e del
controllo.
Giorni
fa mi capitò di rileggere, nel racconto del libro
degli Atti degli apostoli, l'avventura che segnò
gli inizi della comunità cristiana di Antiochia.
Ancora una volta ne rimasi affascinato.
Da
dove nasce la chiesa di Antiochia? Ma - pensate la fantasia
di Dio, dello Spirito! - nasce dalla dispersione, dalla
persecuzione. Perchè, dobbiamo dirlo, dai lamenti
dei profeti di sventura non nasce mai niente. Niente di
bello, di vero, di buono. Al loro posto, al posto dei primi
credenti, dispersi dalla durezza della persecuzione, molti
di noi si sarebbero rinchiusi nell'atteggiamento, oggi così
diffuso, della sindrome da assedio. Loro no. Pensano che
la nuova situazione offra una opportunità nuova,
da affrontare fuori dalla vecchia mentalità del recinto.
Nasce una nuova chiesa.
Da
dove nasce? Da uomini e donne comuni, senza ruoli di autorità,
cittadini, semplicemente cittadini, di Cipro e di Cirene:
cominciano a parlare, a raccontare. Di Gesù. Di lui,
perché lui è la notizia buona. Fuori dai recinti
istituzionali, nella passione del racconto.
E
quella comunità diventa il segno della potenza di
Dio, della universalità della salvezza, che fiorisce
in un contesto nuovo, ricco di una pluralità di provenienze
e di appartenenze. Una missione, la loro, avvenuta senza
investiture o protocolli. Sì è vero, in quell'occasione
la chiesa di Gerusalemme mandò una delegazione. Ma,
notate, ancora una volta si respira freschezza: viene scelto
Barnaba che non ha l'anima dell'inquisitore, è uno
capace di stabilire contatti, uno che si entusiasma del
nuovo, spiritualmente ricco e aperto. Come dice il suo nome,
"uomo dell'esortazione". Non è un controllore:
"Si rallegrò" è scritto "e
da uomo virtuoso com'era e pieno di Spirito santo e di fede
esortava tutti a perseverare" (At 11,23-24). Poi chiamerà
Paolo, vincendo probabilmente diffidenze e resistenze da
parte degli uomini del recinto.
Come
non sognare e non lavorare perché questa freschezza,
questa gioia, questo entusiasmo, diventino, per fedeltà
al vangelo, segno delle nostre comunità, e di questa
stagione ecclesiale, immagini nuove di chiesa.
Vero
per la chiesa, ma vero anche per ciascuno di noi.
E
così oggi, ti confesso, mi ritrovo a ripensare al
vecchio prete che alla Messa ogni giorno diceva: "A
Dio che fa lieta la mia giovinezza". Quel vecchio prete
oggi sono io. Oggi sono qui a chiedermi dove oggi sono i
segni della giovinezza nella mia vita, oggi che svolto l'angolo
ed ho settantotto anni.
Sono
ancora capace di sorprendermi di Dio o l'ho ingabbiato in
una immagine? Sono capace ancora di sorprendermi di coloro
che ogni giorno incontro o li ho imprigionati in un fotogramma
scontato? Oggi, in una stagione come questa per certi versi
deprimente nella chiesa, dentro la tristezza dell'abbandono
da parte di tanti, di troppi, che cosa mi rimane da inventare?
Oggi dentro il disgusto per una deriva sconfortante, volgare,
della vita politica e sociale, che cosa mi rimane da tentare?
Oggi dentro una crisi economica che va a pesare a dismisura
sulle spalle già schiacciate delle fasce più
deboli, quale modello nuovo potremmo immaginare e tentare?
Fuori dalle secche della riedizione dei logori modelli del
passato.
Mi
sorprende ancora oggi nella Bibbia Dio. Un Dio che invita
a uscire dal passato. E non, si badi bene, dai ricordi di
un passato tenebroso - sarebbe giustificabile ai nostri
occhi - ma addirittura dal ricordo di un passato glorioso,
il più glorioso per la memoria di un israelita, il
passaggio del Mar Rosso. E invita a cose nuove.
Nel
rotolo di un antico discepolo di Isaia troviamo scritte
infatti, a memoria, parole di emozione come queste:
"Così
dice il Signore, vostro Santo,
il creatore d'Israele, vostro Re.
Così dice il Signore, che aprì un cammino
nel mare
una strada nelle acque impetuose;
che trasse a battaglia carri e cavalli, truppe coi valorosi:
cadevano per non rialzarsi, si spensero come stoppino che
si estingue.
Non ricordate il passato, non pensate alle cose antiche,
ecco, realizzo qualcosa di nuovo; già sta sorgendo,
non lo notate?" Is 43,15-18.
Gli
fa eco Paolo dalla lettera ai Corinti: "Se uno è
in Cristo è una creatura nuova, le cose vecchie sono
passate, ecco ne sono nate di nuove" (2 Cor 15,17).
Pensieri
a sussulto di sconfinamento. Risvegliati dalle parole latine
di un salmo, parole che ancora mi riportano nella mia vecchia
chiesa, nel paradosso tra vecchiaia e giovinezza.
don
Angelo
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