A
chi si incanta e a chi è sfiorato dalla noia
Sto accostando frammenti, tessere, piccole tessere di mosaico.
Apparentemente senza fili che leghino, senza un senso immediato.
O forse ci sarà dato alla fine sorprendere un senso, il
senso ultimo nella figura di un mosaico. Per ora il mio
è solo racconto di quotidiani incantamenti.
Il primo incantamento è per la luce che gli veniva dagli
occhi, una luce non immobile, scossa da vibrazioni e fremiti.
Ricordi il brusio delle stelle? Una luce che ha il colore
della scoperta, della festa. Una luce di occhi, gli occhi
di un uomo, maturo. Per convenzione potremmo chiamarlo Vincenzo.
Mi perdevo ad ascoltarlo. Incontro occasionale, tra una
porta a vetri e una scala. Non so dirti se ascoltavo maggiormente
le sue parole o i suoi occhi. So che mi perdevo ad ascoltare.
Succede a volte che chi è rimasto più lontano dalle chiese
sia tra quelli che sono più colpiti dal vangelo. Dentro
gli erano rimasti passaggi di omelie, che l’avevano, a suo
dire, “convertito”. Le mie omelie. A me invece rimase, in
memoria di cuore, la sua omelia. E non significa proprio
questo “omelia”? Non significa forse racconto? Poi noi ne
abbiamo fatto una dissertazione, ma il nome all’origine
diceva qualcosa di più vivo, diceva racconto. Vincenzo mi
raccontava. Raccontava l’accadere, in tempi lontani, quando
ancora era un ragazzo, di alcuni “riti” nella casa paterna
all’avvicinarsi delle feste.
Mi
raccontava che a Pasqua il padre legava con nastri colorati
campanelli al collo delle bestie nella stalla. All’annuncio
della risurrezione le bestie, liberate, sarebbero fuoriuscite
a rallegrare dei loro suoni l’aria stupita dei campi. Segno
di un dilagare nella vita dell’energia della risurrezione,
oggi trattenuta nelle chiese.
Mi diceva di suo padre che a Natale, tracciando croci con
l’olio, ungeva il ceppo di legno davanti al focolare, quasi
a prefigurare germogli di vita sul tronco apparentemente
inaridito.
Nella mia mente le immagini lontane di Vincenzo andavano
a inseguire per associazione altri ricordi. Quello, per
esempio, dei chierichetti che, in tempi anch’essi lontani,
nella notte di Pasqua all’annuncio del Risorto, si precipitavano
prima nel campanile e scampanando andavano su e giù sospesi
alla corde e poi fuori, in volo, ad abbracciare tronchi
di piante, come a contagiarle del brivido della risurrezione.
A Vincenzo ridevano d’emozione gli occhi al ricordo.
E
a me si ridestava in cuore nostalgia: nel-l’aria allora
c’era festa e trasalimento. Ora la festa è pallida pur nelle
chiese e trova preclusioni agli sconfinamenti. Ci tocca
a volte ripetere nelle liturgie parole stanche, trattati
e non poesia, testi pallidi, per di più di recente invenzione.
Giorni fa celebrando la memoria della Santa Gianna Beretta
Molla, ci andavamo tristemente chiedendo a chi dovessimo
il “dono” di parole liturgiche tanto disadorne, al limite
della impronunciabilità e dove fossero stati esiliati i
poeti, quasi Dio non fosse degno di essere celebrato dalla
bellezza. Non c’era forse più colore nei riti “laici” che
la fantasia dei semplici un tempo accendeva?
E,
insieme, mi andavo chiedendo se la nostra creatività non
si fosse tristemente esaurita, come grembo sterile, e quali
potrebbero essere oggi, se ce ne rimanesse un barlume, “riti”
laici che alludano al mistero. Dentro una vita mutata. Quali
i riti, ora che le stalle non appartengono più al nostro
quotidiano, ora che i campanili per via dell’automazione
non hanno più corde su cui dondolarsi, ora che sulla piazza
non ci sono più piante da abbracciare, ma cemento.
E
se ci rimettessimo a inventare?
A una condizione è ancora possibile: inventiamo, se stiamo
in ascolto della vita.
Giorni
fa una giovane mamma mi fece trasalire. Tu conosci la stanchezza
che segna gli occhi delle giovani mamme e fa smagrito il
volto, quando i loro piccoli vanno scambiando la notte per
il giorno ed è fatica resistere al sonno nella veglia. Proprio
lei, che ora ha gli occhi segnati di stanchezza e il volto
smagrito, mi confidava la sua dolce sorpresa: “Sai” diceva
“quando il bambino si placa e si abbandona tra le braccia,
è come se tu lo sentissi non più pesante, ma leggero. Diventa
leggero. Così, leggera diventa la vita. Se ci si abbandona.
A Dio”.
La
guardai. Era un’omelia, laica come quella di Vincenzo, ma
non meno viva. Al punto che, dopo giorni, e non sono pochi,
ancora ricordo. Mentre di tante omelie, le mie, l’eco si
perde appena passato l’angolo.
Forse
ciò che lega questi pensieri, senza filo apparente, è proprio
l’invito a stare in ascolto della vita, un invito che, mesi
fa, trovai su una rivista. Lo scritto è di Adriana Zarri,
una donna che tanto abbiamo desiderato di poter ospitare
in questi anni a uno dei nostri incontri della “cattedra
dei non credenti”, lei che sa unire indagine teologica e
poesia e sguardo sul mondo. Purtroppo l’età e l’indebolirsi
delle forze non glielo consentirono.
In
un passaggio di un suo articolo su Rocca del 15 gennaio
scorso - la bellezza di quanto scrive mi farà certo perdonare,
ne sono certo, la lunga citazione - a proposito di giovani
che dichiarano: “Ero annoiato delle serate sempre uguali”
e pensano di giustificare così gesti di una brutalità sconcertante,
scrive:
“Al che esplode il mio stupore. Come? Non hai visto la diversità
e la ricchezza della vita? Le albe sempre diverse, i tramonti
con rossi e viola che cambiano ogni sera, e le foglie che
cadono, dorate o rosse o rugginose e i fili d’erba che i
tuoi piedi calpestano incuranti ma che nascondono miti pratoline
dalle ciglia rosate che, la sera, si chiudono quasi per
dormire e riaprirsi all’indomani? Non hai mai visto il cielo,
le nubi, la notte, le stelle? Cosa ci stai a fare nel mondo,
se non hai occhi, se non hai mani per toccare la vita: la
scorza ruvida di un tronco, il pelo morbido di un gatto?
Ciò che ci manca sono gli occhi, l’incantamento, lo stupore
per un mondo sempre diverso, per una vita sempre nuova.
Non è la vita sempre uguale, siamo noi che non sappiamo
riconoscere la sua varietà e la sua ricchezza e ci passiamo
sopra senza vederla, senza sentirne il sapore tra i denti,
come un frutto maturo. Ma noi invece siamo acerbi, incapaci
di vedere, incapaci di udire, incapaci di stupirci”.
Sarebbe
fin troppo facile rimuovere l’invito a incantarci, adducendo
a scusa che noi abitiamo città senza alberi e senza prati,
senza albe e senza tramonti. Passo nel corridoio della casa
parrocchiale e mi fermo a osservare, provo stupore per il
glicine che, dal cortile accanto, è sgusciato con un suo
ramo, oltre il vetro, nella casa. Da piccola invisibile
fessura di un serramento, che ha il difetto - o la grazia?
- di non chiudere ermeticamente. Penso dove mai lo porta
sete di tepore. Penso dove ci porta la sete, se fede e ragione
non ci chiudono ermeticamente.
Una
cosa so: che ogni volta che mi chino a sorprendere germogli,
ogni volta che mi succede di navigare per occhi di persone
che amo, ogni volta che pianto un seme e spio il gonfiarsi
della terra, esco con gli occhi che sorridono. Avventura,
questa, che quasi mai, lo confesso, mi succede quando mi
capita di assistere a spettacoli televisivi. Forse per questo
gli occhi di tanti ragazzi, oggi più non sorridono. E sono
in preda alla noia. Cattiva consigliera la noia!
Vincenzo,
la giovane mamma, la scrittrice teologa e poeta, il glicine
nella casa non sono sfiorati da noia.
Ma
vorrei dirti un altro segreto: non c’è tempo per la noia
in chi ha la passione del-l’altro. Degli altri. Registro
gli ultimi nomi: Dino e Gloria, sua moglie. Questa volta
i nomi non sono di convenzione. Ma veri.
Tu
sai, ci sono quelli che parlano di vita, ma non la guardano.
Non la toccano con le loro mani. Loro parlano. Parlano di
vita senza ascoltarne il brusio, senza mai toccarne la carne,
senza mai sentirne l’odore. E ci sono di quelli che la vita
l’ascoltano, la vita la toccano. Loro non sanno che cosa
è la noia. Loro, come ricordava anni fa un documento, presto
dimenticato, della chiesa italiana, “con gli ultimi della
terra e con gli emarginati hanno recuperato un genere diverso
di vita, hanno demolito gli idoli che ci siamo costruiti:
denaro, potere, consumo, tendenza a vivere al di sopra delle
nostre possibilità, riscoprendo invece i valori del bene
comune, della tolleranza, della solidarietà, della giustizia
sociale, della corresponsabilità”. Dino e Gloria sono di
questi. Loro passano mesi, ogni anno, in Nicaragua. Ma non
a fare proclami. A guardare la vita della gente, ad ascoltarne
i bisogni, a toccare con mano le ferite. Non hanno tempo
di annoiarsi. Li vedi ritornare stanchi ma felici.
Mesi
fa avevano scritto agli amici, narrando dell’angoscia negli
occhi della gente per un uragano che aveva spazzato via
la speranza di un raccolto e la gente era senza semi da
affidare alla terra. Ci prese emozione, con altri pensammo
che i semi non possono mancare a nessuno: sono il futuro.
Avremmo onorato il futuro dando la possibilità di seminare
ancora la terra.
Ora sono ritornati. Ci scrivono: “Le inviamo un saluto fraterno
dalle famiglie di El Bonete, che hanno usufruito del contributo
per la “semina di emergenza”, dopo i danni provocati dall’uragano
dell’ottobre 2007. Avremo modo di inviarle o consegnarle
la lista completa dei 62 contadini capifamiglia. Dopo la
ripulitura dei terreni, hanno seminato sorgo, miglio, sesamo,
mais, fagioli, pomodori, angurie. Tutto è cresciuto bene
con la sola umidità della terra. Le famiglie hanno potuto
riprendersi dallo sconforto per aver perso tutte le coltivazioni
con l’uragano. Anche dal punto di vista sanitario siamo
intervenuti per vaccinare le persone, depurare l’acqua dei
pozzi, interventi sanitari vari per respingere la leptospirosi,
la malaria, la dengue e il colera. Crediamo che questo sia
stato un piccolo esempio di reale fraternità tra i popoli”.
Guardo
le foto che accompagnano il messaggio: non vedo semi, vedo
coltivazioni verdi. Non vedo la noia. Vedo il futuro.
don
Angelo
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