A
Emanuela e a Rachid
e all'ombra
Cara
Emanuela e caro Rachid,
sono stato in dubbio se scrivervi in questa forma di una
lettera aperta. La lettera, è vero, è aperta,
ma vorrebbe trattenere pudore. Non dice la segretezza ultima,
che ognuno di noi custodisce nel cuore. Si ferma a una soglia,
una soglia di segretezza.
Mi auguro che una misura di pudore possa essere trattenuta
anche là dove avviene uno svelamento. Questo foglio,
queste pagine, per come le sogniamo, sono nel segno di una
confidenza tra amici, le si passa in modo impensato. Come
tra amici. Quasi un incoraggiamento, in una stagione ecclesiale
non priva di tristezze e di delusioni.
Vi dirò che dopo il vostro matrimonio ho vissuto
giorni di pensieri in rimbalzo: scrivo di Emanuela e di
Rachid o non scrivo? Tanti erano i motivi che pulsavano
verso il sì. Ma, nel fiume dei sì, un pensiero
sembrava frenare. Era, come dicevo poco sopra, il pensiero
della soglia della segretezza. Spero sia salva.
A provocarmi a scrivere, a scrivere del vostro amore e del
vostro matrimonio, era innanzitutto un'emozione. E poi,
nella scia, lunga luminosa scia dell'emozione, uno sconfinare
di pensieri.
Ricordo l'emozione il giorno in cui tu, Emanuela, venisti
a parlarmi di Rachid, lui studente marocchino, musulmano.
La tua emozione era lago negli occhi, e pure i miei, ti
dirò, li sentivo come bagnarsi. Ci legava un filo,
dal giorno in cui, un anno prima, eri venuta a chiedermi
uno spazio per un gruppo di attori amici, che d'estate avevano
necessità di provare. Poi non se ne fece più
nulla. La compagnia si era sciolta. Ora arrivavi con una
richiesta non di spazi esteriori, ma di uno spazio interiore.
Mi chiedevi se avevo tempo per Rachid che, dalla sponda
delle sua fede musulmana, aveva domande da porre sulla nostra
immagine di Dio. E così ricordo che la sera si protrasse
a lungo a parlare di Gesù, lui, il volto trasparente
di Dio per i nostri occhi, in cerca di una luce che sia
buona e promettente.
A emozione si aggiunse emozione quando venisti, di lì
a qualche mese, a cercarmi per dirmi il vostro desiderio
di sposarvi. A tal punto si era fatto forte l'amore che,
guardandovi e ascoltandovi, la sensazione era che ormai
l'uno fosse scritto sulla pelle dell'altro: "mettimi
come sigillo sul tuo cuore" sta scritto nel Cantico
dei Cantici "come sigillo sul tuo braccio".
Ci ritrovammo a preparare la celebrazione. Per come voi
siete, non avreste sopportato niente di artefatto, di sfarzoso,
niente che avesse ritmi, suoni e colori di una ufficialità
vuota o di una spenta apparenza. Le parole non potevano
essere se non quelle abitate e i gesti abitati. Abitati
come il grembo di una donna. Abitati da voi, e dunque dalla
vostra affinità e dalla vostra diversità.
L'anelito non andava dunque, come purtroppo succede, ad
appesantire il rito con il risultato di annegarne, coscientemente
o incoscientemente, il fascino. Non ad aggiungere, ad appesantire.
Ma a scrostare, a ripulire l'affresco.
Accadeva il rito e accadeva la sobrietà, accadeva
la semplicità, accadeva la naturalezza. I visi non
erano fissi nell'immobilità stranita del cerimoniale,
nell'immobilità prestampata dei pesanti album dei
matrimoni. Ardevano vivi, i visi, come per una cosa vera,
la cosa più vera tra quelle che accadono nel mondo.
Accadeva l'amore. E accadeva Dio. Perché Dio accade
sempre quando accade l'amore e là dove accade l'amore.
Che tu gli dia un nome o un altro. Accade ed è sacramento,
se alla parola togli recinti e confini.
A introdurci nel rito furono parole che scuotevano confini.
Le rinvieni nei testi sacri di una tradizione e di un'altra.
Parole del profeta Isaia, che canta il monte della convocazione
universale: "Verranno molti popoli e diranno: 'venite,
saliamo al monte del Signore'
un popolo non alzerà
più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno
più nell'arte della guerra". E, quasi una eco,
parole dal Corano: "Ad ognuno di voi abbiamo assegnato
una via e un percorso. Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto
di voi una sola comunità. Vi ha voluto però
provare con quello che vi ha dato. Gareggiate in opere buone:
tutti ritornerete a Dio ed Egli vi informerà a proposito
delle cose sulle quali siete discordi".
Ma lago d'emozione non erano solo i vostri occhi. Erano
quelli dei testimoni, dei parenti, degli amici. Vibravano,
quasi volessero tutti insieme allargare la benedizione di
Dio. Su un cammino, il vostro, che custodisce la sfida della
diversità. Viveva nella chiesa il brivido dell'accoglienza,
quasi un sacramento. Sacramento che tutti, da fedi diverse,
sanno riconoscere. Viveva nella chiesa e vi accompagnava
fuori, fino sul risciò su cui vi videro partire.
Io, prete minore, vi seguii con lo sguardo, fino alla porta.
Fuori succedeva la festa. Presi il libro dei matrimoni,
il vostro nome era scritto su quelle pagine bianche, ma
ora lo sentivo scritto sulla mia pelle. Presi il libro e
andai a nascondere la commozione. Mi era rimasto impresso
sulla pelle, ancora me lo sentivo addosso, il tuo abbraccio,
Rachid. Le tue mani mi tenevano stretto stretto. Come si
tiene una creatura che ami.
Arrivaste l'indomani. Mi portavate a regalo il vostro libretto
di matrimonio, ma le ultime pagine bianche, quelle che riempi
di desiderio, il bianco è per il desiderio, portavano,
scritta a mano una postfazione:
Don Angelo, vorremmo dirle quanto questo Sabato ci ha reso
felici: conserveremo per sempre nel cuore le parole che
ci ha dedicato in uno dei giorni più importanti della
nostra vita.
Ciò che ha detto ha commosso noi e le persone che
ci vogliono bene e che ci sono state vicine. Io, in particolare,
vorrei ringraziarla, perché in lei Rachid e i ragazzi
che non hanno mai avuto l'esperienza della Chiesa Cattolica,
hanno potuto vedere il volto più bello della mia
religione: un Credo che può essere capace non solo
di accettare, ma di accogliere come figli persone cresciute
in una cultura diversa e con cui, purtroppo, ci troviamo
a combattere conflitti più grandi di noi. Vorremmo
ringraziarla ancora una volta per la totale disponibilità
con cui ci ha aiutati in questi mesi, senza mai esprimere
un giudizio, ma solo standoci vicini e confortandoci quando
ce ne è stato bisogno.
Siamo stati molto fortunati a conoscerla e ancora più
fortunati nel poter pensare a lei ogni volta che penseremo
al giorno del nostro matrimonio. Grazie.
Emanuela Rachid
Ho raccontato l'emozione di un sabato di aprile. Ma dopo
l'emozione, vi dirò, ho vissuto in me uno sconfinare
di pensieri. Dietro una lettera. Perché la lettera,
la vostra lettera, a sua volta, lasciava una scia di pensieri.
Tu, Emanuela, scrivi che ragazzi che non hanno mai avuto
esperienza della Chiesa Cattolica hanno potuto vedere il
volto più bello della tua religione. E io mi chiedevo
come, in che cosa. Perché la sensazione che mi portavo
in cuore era di non aver fatto nulla di eccezionale, che
tutto fosse stato così normale. E, inseguendo i pensieri,
mi si riaccesero nella memoria prima le parole di un frate
italiano in Turchia e, immediatamente dopo, una pagina della
Bibbia.
Le parole erano quelle di Padre Domenico, che, accogliendoci
ad Antiochia in Turchia, alla nostra domanda: "che
cosa fate?" sorprendendoci rispose: "noi non facciamo
niente, teniamo aperta la porta". Un altro sacramento!
Quello dell'accoglienza. Che tutti, piccoli o grandi, credenti
o non credenti, riconoscono. Se c'è, lo riconoscono.
Sacramento leggero come un'ombra.
E il pensiero corse all'ombra di Pietro negli Atti degli
Apostoli. Il libro degli Atti ci racconta della comunità
delle origini, uscita dalle esperienze del Risorto: è
una comunità che fa gesti di consolazione, di fiducia
e di speranza. Li fanno, senza esibizione, in uno stile
di semplicità e di trasparenza, lo stile del loro
Signore. Dentro questo orizzonte, è di un incanto
incancellabile, particolare di rara suggestione, il riferimento
all'ombra di Pietro. È scritto: "portavano gli
ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli,
perché, quando Pietro passava, anche la sua ombra
coprisse qualcuno di loro". L'ombra di Pietro! L'ombra,
capite!
Se imparassimo da questa ombra! Pensate, che cosa c'è
di più lieve, di meno corposo, di un'ombra? Basta
un' ombra. Se è evangelica. Basta l'ombra di un cristiano.
Siamo lontani dalla corposità, dall'ispessimento
delle istituzioni, dalla potenza mondana dei raduni oceanici.
Basta l'ombra. L'ombra di un cristiano. Ma che sia vero.
Secondo il vangelo. Alla maniera di Francesco, Francesco
d'Assisi, l'ombra di Francesco.
E che cosa c'è di più silenzioso dell'ombra?
Passava Pietro, non c'erano parole, c'era un silenzio d'ombra.
Come se quel passaggio fosse la scia di quello che aveva
fatto Gesù, la scia di quello che era stato Gesù,
era come l'ombra di Gesù. La sua ombra guariva, rialzava.
Pensate quali marchingegni si vanno a escogitare per una
nuova evangelizzazione! E quanti proclami! E non si ottiene
nulla. L'ombra!
E che cosa c'è, lasciatemi dire, di meno studiato,
di meno calcolato dell'ombra? Neanche ci pensi all'ombra.
Che tu lo sappia o no, ti accompagna. Non c'è bisogno
di dichiararla. Tant'è che a volte per dire spontaneità
e naturalezza diciamo: "ti segue come un'ombra".
Quando, al contrario, siamo preoccupati, in eccesso preoccupati,
di strategie, è perché non siamo vivi dentro,
dico vivi evangelicamente. Perché se lo fossimo,
coscienti o no, lasceremmo un'ombra. Un'ombra non di condanna
o di paura: non era questa l'ombra che lasciava Pietro.
Ma un' ombra di risanamento, un' ombra di Gesù, un'ombra
di vangelo.
Essere dunque ombra, ombra gli uni per gli altri, fuori
dalle chiusure e dalle ristrettezze dei cenacoli. Fuori
dall'inganno degli eventi appariscenti, dei discorsi rumorosi.
Dentro il corso comune degli accadimenti quotidiani. Essere
ombra silenziosa che dona rifugio e protezione, come l'ombra
di un albero in giorni assolati: vi trovano ristoro, nell'ora
più calda del giorno, gli uccelli dell'aria.
Ci sarebbe tutto da guadagnare, come persone e come chiesa.
Se ritornassimo a quel-l'ombra buona delle origini, l'ombra
buona di Pietro. L'ombra dell'accoglienza. Anche voi un'ombra,
Emanuela e Rachid.
Un
abbraccio. Forte.
don Angelo
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