Castione della Presolana,
9 agosto 2011
IL SILENZIO DI GESÙ
Voi, penso, mi perdonerete una premessa. Sono lettore
innamorato di vangeli, non sono un esegeta, scavo nelle
parole. Mi emoziono quando incontro e posso portare alla
luce l'oro che le abita. Spesso trovo tracce di Gesù
sotto polvere di sabbie, che il tempo e la nostra opacità
vi hanno in ampia misura depositato.
Quando
leggo sento il rumore dei passi, sono leggeri, senza fanfare,
senza esibizioni, senza autocelebrazioni. E' l'incanto.
L'incanto della realtà, la realtà della
sua persona, del suo vangelo, della sua via. La sua via,
tanto diversa da tante vie dello spirito che abbiamo disinvoltamente
chiamate cristiane, di Cristo.
Seguo
il rumore dei passi. Dove portano? A volte, ve lo confesso,
mi porto dentro la sensazione che abbiamo immobilizzato
Gesù. In una statua. Giorni fa un mio amico, Giovanni,
che anni e anni fa ha adottato un giovane psicopatico,
Francesco, mi raccontava che alcuni giorni prima Francesco,
occhi velati da estrema tristezza, gli confidava: "Sono
triste, la gente mi vede e mi guarda male". Giovanni
reagì duro dicendo:. "E poi vanno in chiesa!
A fare?". Gli risponde Francesco: "Vanno a pregare
le statue".
Entriamo
allora nella vita vera di Gesù. E' un richiamo
per me, una premessa. Vado per sussulti e confido che
voi mi perdoniate. E' la modalità, l'unica che
mi appartiene. Vi dirò poche cose. Altre le rincorrerete
voi inseguendo il silenzio di Gesù nei vangeli.
Vorrei
come primo fotogramma indugiare su un silenzio di Gesù
poco sottolineato, oserei dire poco onorato, quello della
casa di Nazaret. Sono innamorato della casa di Nazareth.
Della casa di Nazareth mi sono innamorato leggendo il
Vangelo così come è, e non secondo interpretazioni
"devote" e "edificanti". Vedete, a
volte è come se non sopportassimo la casa di Nazareth
così com'è. Prova ne è il fatto che
per noi Gesù Cristo - si fa per dire - sembra esistere
dai trenta anni in poi. Allora - finalmente! direbbe qualcuno
- ha incominciato il suo ministero. L'opera della salvezza
- così si pensa - ha avuto inizio quando quel figlio
finalmente uscì di casa, dal suo paese, e andò
lontano dai suoi.
Trent'anni
sprecati, se giudicassimo le cose secondo un modello di
efficienza ecclesiastica, quell'efficienza che ti fa pensare
che il regno di Dio lo costruisci quando dalla privatezza
della casa entri finalmente nei locali della parrocchia
e lì ti dai da fare.
Non
riesco - sarà per una mia deformazione mentale
o biblica - a pensare che Gesù abbia iniziato il
suo ministero a trent'anni. Mi è più familiare
pensare che Gesù in tutte le ore della sua vita
sia stato un racconto, il racconto dell'amore di Dio.
Il problema è che noi, Dio, pensiamo lo si debba
raccontare con il bla-bla religioso. E se Dio lo si potesse
raccontare anche con il silenzio?
Sono
innamorato del silenzio di Nazareth. E vorrei difenderlo.
Il silenzio - il sacro silenzio - della "non notizia".
Perché anche questo, a mio avviso, è un
modo strano di pensare, cioè che il silenzio sulla
casa di Nazareth sia imputabile a una amnesia, un'amnesia
dei redattori del Vangelo: come se in quella casa l'eccezionale
fosse all'ordine del giorno, ma non fu raccontato.
E
invece no. A raccontare Dio era ogni giorno il silenzio
di una vita senza notizia, una vita di cui nessuno si
accorgeva. Vale anche oggi per la nostra vita, per le
nostre case. Dove il vangelo è vissuto nel silenzio.
Un
silenzio, badate bene, che non può essere presentato,
se non arbitrariamente, come il silenzio della passività
e dell'inerzia, di una resa cieca alla vita e agli altri.
Gli esili spiragli che il testo biblico apre sulla vita
nascosta della famiglia di Nazareth sono al riguardo luminosissimi:
lasciano infatti intravedere una casa dove la pace che
vi regna, il silenzio, non è quello dei cimiteri.
Il
silenzio non è accettazione senza la domanda: Giuseppe
si chiede il perché di quella maternità
inattesa e sconcertante; i genitori si chiedono il perché
della apparente disobbedienza del figlio: "Perché
ci hai fatto questo?"; il figlio si chiede il perché
della ricerca e dell'affanno dei genitori: "Perché
mi cercavate?".
Casa
del silenzio, la casa di Nazareth, e casa dei perché,
come le nostre case. L'ideale non è una casa senza
domande, ma la casa che lascia spazio alle domande, a
tutte le domande. E, di domanda in domanda, ci si metta
in cammino verso il mistero, quello della vita, quello
di Dio, quello di ciascuno di noi, mistero che non sarà
mai svelato una volta per tutte e per sempre. Casa del
mistero dell'altro che non ci consente invasioni, ci chiede
sosta silenziosa.
Vengo
a un secondo fotogramma. Ora Gesù è uscito
dal silenzio della casa di Nazaret e il vangelo di Marco,
alle sue prime battute, capitolo primo (Mc 1, 21-39) racconta
una giornata di Gesù. E Marco ci dice i luoghi
di quella giornata: la sinagoga, la casa, la porta della
città, e un imprecisato luogo deserto, un "eremo".
Tutto nell'arco di una giornata. E Marco dice i tempi:
di giorno, la sera, la notte profonda, il mattino. Lo
vediamo andare Gesù, l'uomo che cammina.
Lo
vediamo operare quasi con una fretta dentro. C'è
questo avverbio ripetuto nel testo, l'avverbio "subito".
Come se lo bruciasse una fretta, come se lo divorasse
quel "subito". E nel cuore mi viene spontaneo
il raffronto, il raffronto con noi. Anche noi divorati
dalla fretta. Con una differenza però, ed è
sostanziale, che quella di Gesù, quella che teneva
tutta la sua giornata, era la fretta per Dio e per gli
altri, il Regno di Dio. Possiamo noi dire che alle radici
del nostro correre, della nostra vita frenetica, sta,
come per Gesù, la passione del Regno, del Regno
di Dio, l'amore di Dio e dell'altro?
Dunque
viene la sera, è già tramontato il sole
e ancora gli portano tutti i malati e gli indemoniati.
Ne guarisce molti. Scende la notte, è tramontato
il sole. Ed ecco che cosa scrive Marco: "Al mattino
presto si alzò quando ancora era buio e uscito
si ritirò in un luogo deserto e là pregava.
Ma Simone e quelli che stavamo con lui si misero sulle
sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: "Tutti ti
cercano". Egli disse loro: "Andiamocene altrove
nei villaggi vicini perché io predichi anche là.
Per questo infatti sono venuto".
E
sembra di capire. A volte lo proviamo anche noi, tutti
noi, questo desiderio di silenzio, dopo una giornata in
cui ti è pesata addosso la sofferenza del mondo.
Come un desiderio di stare con il Padre.
Perdonate
la stranezza di questa mia interpretazione che farebbe
sussultare ogni buon esegeta: era come se Gesù
sentisse il bisogno di portare a Dio tutti quelli che
non aveva guarito: la sproporzione tra i "tutti"
i malati che gli erano stati portati" e i "molti"
che aveva guarito, pochi in confronto ai "tutti".
Come se avesse bisogno di portare al Padre questa sproporzione.
E,
ancora, come se avesse bisogno di andare al Padre per
non venire meno nella fede. Perché la visione di
un carico così disumano di sofferenze dell'umanità
mette a prova, a dura prova, la nostra fede in Dio. E
nel luogo deserto, nella preghiera, hai il coraggio di
chiedere che ti sia conservata la fede. Ti sia conservata
nonostante tutto.
Ma
sfiorando il silenzio della preghiera di Gesù,
vorrei anche dirvi del suo richiamo ad una nostra preghiera
fatta di silenzi, ci ha messo in guardia dalla preghiera
prolissa che confida nelle moltitudine delle parole: "Prega
nel segreto e il Padre tuo che vede nel segreto ti ascolterà".
Più che le parole, e prima delle parole quando
preghi respira nel silenzio una presenza, come succede
nel silenzio degli innamorati.
Non
so se vi siete soffermati a pensare, ma oserei dire che
c'era un silenzio di Gesù per le strade, le sue
preghiere non nascono tanto nella sinagoga, nascono dalla
strada, perché lui ascoltava e vedeva. Gli nasceva
il pensiero di Dio guardando gli uccelli dell'aria, i
gigli del deserto, la farina che la donna impastava, l'olio
della lampada. Ci vuole silenzio per far parlare le cose.
E penso questa sera alle vostre case, alle vostre alle
radure dei vostri monti, a voi che le fate parlare, a
differenza di noi che, presi dal rumore, corriamo il rischio
di avere occhi e non vedere, di avere orecchi e non ascoltare.
Terzo
fotogramma: c'è un silenzio impressionante di Gesù
nei vangeli, un silenzio che ci sconcerta e ci interroga
ed è il silenzio che Gesù impone sulla sua
identità di Messia. Fa segni sui malati e dice:
"Non dirlo a nessuno". Vuole il silenzio.
Un
esempio tra i tanti, sempre al capitolo primo del vangelo
di Marco: dall'alba si capisce il giorno! Subito dopo
che i discepoli l'ebbero trovato in un luogo deserto a
pregare. Marco scrive: "E andò per tutta la
Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando
i demoni. Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava
in ginocchio e gli diceva: "Se vuoi, puoi guarirmi!".
Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e
gli disse: "Lo voglio, guarisci!". Subito la
lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo
severamente, lo rimandò e gli disse: "Guarda
di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote,
e offri per la tua purificazione quello che Mosè
ha ordinato, a testimonianza per loro". Ma quegli,
allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare
il fatto, al punto che Gesù non poteva più
entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava
fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte".
In
luoghi deserti, "eremo" nel testo greco, luoghi
di eremo. E' un Gesù preoccupato che passi di lui
l'immagine di un Messia dai gesti miracolosi, un Messia
trionfante, il Messia dei troni. Rifiuta pubblicità
ingannevoli che tradirebbero la sua vera immagine. Voi
tutti ricordate che, subito dopo che Pietro l'ebbe proclamato
Messia, Gesù, senza perdere tempo, precisò
che la sua immagine non aveva niente a che fare con quella
di un Messia trionfatore e andava a sposare invece quella
di un Messia che dà la vita, che ama a costo di
morte di croce. Ricordate anche che Pietro lo prese in
disparte per rimproverarlo. Quasi gli dicesse: "Ma
chi vuoi che ti venga dietro se ti presenti così,
bella pubblicità che ti fai!". E voi tutti
sapete anche che Pietro si prese del diavolo quel giorno
da parte di Gesù. Nominato Papa e subito sconfessato,
pochi secondi dopo. Mette silenzio Gesù, un silenzio
assoluto, sulle immagini mondane. È venuto per
servire, non come i capi delle nazioni che si fanno servire,
loro che si fanno chiamare benefattori e poi dominano.
Quando
si affaccia questo equivoco, Gesù taglia con una
immediatezza che dovrebbe affascinarci e farci pensare,
Cerca il silenzio. Si dilegua. Gli capitò per esempio
quando su una montagna quel giorno condivise i cinque
pani e i due pesci di un ragazzino con i cinquemila. Fu
allora che "la gente, visto il segno che egli aveva
compiuto, cominciò a dire: Questi è davvero
il profeta che deve venire nel mondo! Ma Gesù,
sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re,
si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo (Gv
6, 14_15). Dimorò Gesù sul monte. E fu monte
di notte. Non c'è traccia del nome del monte nei
vangeli, ma fu monte di un desiderio, desiderio di solitudine,
desiderio di fuga dal delirio delle folle. Montagna della
fuga da ogni fraintendimento di via: era venuto per servire
e non per essere servito. Nella notte, nel silenzio del
monte a confermare la via.
E
questa segretezza, "stare nel silenzio", questa
segretezza, lasciatemi dire, dimenticata, dimenticata
anche dalla chiesa, lui la pretese, badate, anche dai
suoi discepoli, che non avrebbero dovuto suonare la tromba
come fanno gli ipocriti. Lui che un giorno, ultimo gesto
della sua attività pubblica, ultimo a memoria,
mise sulla cattedra davanti agli occhi dei discepoli,
una povera donna. E questo la dice lunga sulle cattedre.
Dove mettiamo noi le cattedre, chi mettiamo in cattedra?
Quel giorno lui si trovava nel tempio e vide una donna,
vedova, povera, mettere nel tesoro del tempio tutto quello
che aveva. Lui "osservava" è scritto
"come la folla vi gettava le monete". Mi colpisce
a non finire che alla fine del vangelo lui chiami i discepoli,
ma anche noi, a osservare questa donna, vedova, povera
e il suo gesto profumato di silenzio, lei miracolo compiuto
del Vangelo. Alla fine del ministero, è lei, pensate
a raccogliere l'eredità del suo messaggio. Chiama
i discepoli, li convoca, per che cosa? Perché puntino
gli occhi su di lei: "In verità, io vi dico":
dunque un insegnamento, insegnamento importante. E chi
mette in cattedra? Una poveretta, direbbe qualcuno. Porta
lo sguardo sulla donna e ha appena finito di fare appello
perché si distolga lo sguardo dai personaggi che
passeggiano per le strade ma anche per le mura sacre.
Ha appena finito di dire "guardatevi da", come
volesse dire, "via lo sguardo da", via gli occhi
dalla loro cattedra. Non sono persone, sono personaggi.
Detronizzateli dentro, sembra dire, detronizzateli nei
vostri occhi e nel vostro cuore. E li indica con immagini
che non appartengono solo al passato del suo tempo, hanno
attraversato purtroppo, in lungo e in largo, la storia
e contaminano anche il nostro tempo, spettacolo triste
di professionisti anche del sacro, che amano passeggiare
con lunghe vesti variamente colorate, e hanno palchi nelle
piazze, primi posti nelle liturgie civili e si gloriano
di nomi altisonanti. La condanna per loro dice Gesù,
è più severa, perché coprono con
il nome di Dio la loro vanità, che crea distanza
dalla gente comune, coprono la loro rapina, perché
con il nome di Dio divorano le case delle vedove. Sbandierano
il ruolo, ma sono solo apparenza, sono ipocrisia. Nel
tempio ci sono, ma non con il cuore. Non sono veri. Mi
chiedo se questo non potrebbe essere un esercizio da compiere
oggi e da insegnare , insegnare a detronizzare. E fare
ritorno al silenzio, che non è solo di parole,
ma di stile di vita.
Ma
nel tempio per grazia c'è quella donna, vera, lei
sì c'è, con la profondità e la verità
di sé stessa, lei così com'è, c'è
con il cuore. Lei silenziosa che non fa cantare l'offerta
nel tesoro del tempio. Lei da mettere in cattedra. Voi
mi capite, dentro un mondo che fa questione di ruoli di
successo, di pubblicità, di riconoscimenti, di
rilevanza mediatica - esisti. se vai in televisione, e
se non sei là non esisti - dentro un mondo in cui
ci si incontra tra maschere, dietro i ruoli, ecco la donna
che Gesù mette in cattedra. E perché la
mette in cattedra? "Amen" dice, " in verità
vi dico: questa vedova così povera ha gettato nel
tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno
gettato parte del loro superfluo, lei invece nella sua
miseria vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto
aveva per vivere". Sembra di ascoltare una beatitudine.
È un gesto estremo, quello della donna, dice la
fede estrema in Dio. Se dai del superfluo, puoi confidare
ancora su ciò che ti rimane. Ma sei hai dato tutto?
L'unico su cui puoi contare è il tuo Dio.
Vorrei
aprire ora una fessura sul silenzio di Gesù che
mi verrebbe da chiamare "il silenzio della misericordia".
Che
non è, badate bene, un silenzio passivo. Vorrei
ricordarvi un esempio, a conferma di uno stile di Gesù,
un episodio del vangelo cui è toccata, forse lo
sapete, un'avventura strana. Perché era un brano
imbarazzante, quello della donna adultera. Tutti gli esperti
di Sacre Scritture concordano infatti nel dire che il
brano dell'adultera non appartiene al vangelo di Giovanni
anche se oggi è nel vangelo di Giovanni. Potrebbe
trovare invece una collocazione congrua per il suo stile,
per il tema che propone, nel vangelo di Luca, inserito
per esempio nel capitolo ventunesimo del suo vangelo.
Ma
perché questo brano non ha avuto vita facile e
per secoli nessuna comunità l'ha voluto? Scandalizzava,
diremmo, il silenzio di Gesù, il silenzio della
non condanna. Quasi si subodorasse nelle parole di Gesù
- "Nemmeno io ti condanno, d'ora in poi va e non
peccare più" - un permesso a peccare.
"Gli
condussero una donna sorpresa in adulterio". Secondo
la legge di Mosè va lapidata. "La legge a
noi ha comandato di lapidare donne come questa".
Nelle parole voi sentite tutto il disprezzo per la donna.
Ho cercato di immaginare tutto quel clamore, quel pettegolezzo,
quel vociare intorno alla donna. E d'improvviso accadde
il silenzio. La reazione di Gesù è sorprendente.
"Gesù si chinò e si mise a scrivere
col dito per terra". Non sappiamo che cosa abbia
scritto. Sappiamo invece quali fossero i pensieri che
gli abitavano il cuore. Le parole sulla sabbia non sono
rimaste scritte. Invece le parole dette subito dopo, poche
parole esaltate dal silenzio, sono rimaste scritte nel
vangelo. E le prime furono a smascherare l'ipocrisia.
Sì, Gesù rompeva, gli capitò di rompere
il suo stile silenzioso con parole dure. Quando? Quando
incrociava purtroppo l'ipocrisia, in particolare l'ipocrisia
religiosa. "Chi è senza peccato.." le
parole ferirono l'aria. Se ne andarono, tutti, sbugiardati.
Ritornò il silenzio, il rabbi scriveva per terra.
Rimane la donna. E qui è lo scandalo. Una donna,
di cui nel vangelo non è registrata una parola
che è una che esprima pentimento. Gli altri l'avevano
assediata con i loro sguardi dall'alto in basso. Quel
rabbi l'aveva guardata dal basso più basso. Aveva
colto nei suoi occhi una paura di condanna, uno smarrimento.
Si sentì dire, e adesso Gesù si era alzato,
era a livello di occhi: "Donna, dove sono? Nessuno
ti ha condannata?". Ella rispose: "Nessuno,
Signore". "Neanche io ti condanno; va' e d'ora
in poi non peccare più". Gli altri la incenerivano
con il loreo sguardo. Uno sguardo silenzioso, il suo,
lui la faceva camminare. Il miracolo degli occhi silenziosi.
Che non è buonismo. Un silenzio che fa camminare.
Ci
rimangono nel cuore questi undici versetti scandalosi.
Per secoli nessuna comunità li ha voluti. Li ospitiamo
noi? Li ospitiamo con la vita? Li ospitiamo, chinandoci
come fece Gesù? Con lo sguardo silenzioso e tenero
di Gesù? Me lo chiedo. Al cuore mi sono ritornate
alcune parole del regista Ermanno Olmi. In una sua intervista
diceva: "C'è un solo modo per conoscere la
foresta: inginocchiarsi e guardarla da vicino". Forse
potremmo continuare all'infinito: c'è un solo un
modo per conoscere Dio, per conoscere una donna, un uomo,
un ragazzo, una città
Ce l'ha insegnato Gesù:
"inginocchiarsi e guardarli da vicino". In silenzio.
Penultimo,
fotogramma in questa mia incursione, segnata da tutti
i miei limiti, nel silenzio di Gesù. Mi sono chiesto:
ci furono domande cui Gesù oppose un silenzio?
Quando Gesù risponde con il silenzio? Sfioro con
un passo del vangelo.
Era in cammino verso Gerusalemme, in cammino verso la
sua ora, l'ora delle sue braccia allargate su una croce.
E un tale gli chiese: "Signore, sono pochi quelli
che si salvano?". E Gesù non risponde alla
domanda. E quando Gesù non risponde alla domanda
è perché o la domanda non ha senso o è
posta male o, in realtà, è una finta domanda.
Una domanda sulla salvezza, voi mi direte, non è
di poca importanza. Non dovremmo al contrario preoccuparci
quando nessuno si fa più una domanda sulla salvezza?
Ma
forse la domanda è posta male. In che senso e perché?
Perché è una domanda posta sulla pelle degli
altri. Si discute di altri. Non entro in gioco io, non
metto in questione me stesso: io mi salvo o non mi salvo?
Penso, perdonate, alla moltitudine delle nostre riunioni
in cui in questione sono sempre gli altri. A volte immagino
che, se Gesù entrasse, zittirebbe i nostri discorsi
sulla pelle degli altri: "Sono tanti o pochi quelli
che si salvano? E quand'anche sapessimo il numero, che
cosa cambierebbe? Organizzeremmo una tavola rotonda per
discutere sul numero? Così all'infinito? Gesù
taglia corto: "sono tanti o sono pochi?" Lui
cambia il soggetto: dalla terza persona, che riguarda
gli altri, alla seconda che riguarda noi: "Sforzatevi,
sforzatevi voi di entrare. In questione siete voi. Siete
implicati voi". Quante riunioni, delle nostre, morirebbero
sul colpo, se pensassimo al silenzio che Gesù impone
alle domande sbagliate! Morirebbero sul nascere.
E
vengo all'ultimo fotogramma, solo un accenno, potremmo
starci una sera, ultimo fotogramma cui potremmo dare il
titolo: "il silenzio nelle ultime ore della sua vita".
Anche
in quelle ultime ore, sballottato da un tribunale all'altro,
in mezzo a vociare di soldati e di accusatori, splende
come di luce inviolata, il suo silenzio. È emozionante
la lettura della Passione, che ci fa compagni di viaggio,
del suo ultimo tratto di cammino. Emozionante perché
vedi come una luce camminare, pulsare dentro una bestialità
trionfante, dentro un vociare scomposto, dentro una menzogna
avvilente: lui, il Signore, lui non sgualcito nella sua
anima - "possono uccidere il corpo" diceva "ma
non possono uccidere l'anima - lui nel suo silenzio, lui
sfigurato ma l'unico uomo vero, bello, il più bello
in umanità, vincitore in umanità. Al punto
che anche il centurione pagano lo vede così "sopra",
così sopra in umanità, che esclama: "Ma
costui davvero è figlio di Dio". Lui, il Signore,
passando in silenzio la valle oscura della nostra disumanità,
vi ha seminato lo splendore, la luce del suo amore, un
amore nonostante tutto.
Ebbene
ultima sosta di questa sera - ma solo per contemplare
come attraverso una fessura - è la sosta al silenzio
che Gesù ha patito in tutta la sua ampiezza e drammaticità,
il silenzio di Dio, sulla croce. Breve e commossa sosta,
breve anche perché la scorsa settimana un biblista,
cui non potrei reggere il minimo confronto, il prof. Roberto
Vignolo, vi ha parlato del silenzio di Dio.
Vorrei
dirvi che in quel silenzio di Dio che non risponde noi
misuriamo, sia pur da lontano, tutta l'assolutezza delle
fede di Gesù. Un mio amico, padre David Maria Turoldo
ha scritto in una sua poesia:
No,
credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!
Fede
vera
è al venerdì santo
quando Tu non c'eri
lassù!
Quando
non una eco
risponde
al tuo alto grido
e
a stento il Nulla
dà forma
alla tua assenza.
(Canti ultimi, p. 103).
Vorrei
anche dirvi che ringrazio Gesù di essere passato
in questo silenzio, il silenzio di Dio nella sua morte.
Il passaggio della morte è doloroso, come è
doloroso il passaggio stretto in parete per chi adora
le vette: ti è chiesto di rimpicciolirti per sgusciare
tra roccia e roccia, fino a scorticarti, pelle e braccia
e mani, fino a sentirtele bruciare. Ma poi sei fuori,
sei nell'immensità della vetta. Ebbene mi dà
coraggio sapere che sono in cordata e che lui, lui il
primo, Gesù, non perde, tiene avvinghiata a sé
la fune, lui è di quelli che non vogliono perdere
nessuno. A volte anche lo ringrazio perché non
si è risparmiato in parete, lui, Gesù. Non
è planato sulla vetta dall'alto, ha sudato e tremato
nel giardino, è morto in un grido. E' morto nel
silenzio, il silenzio di Dio. Morto in un grido, che era
di dolore, ma non di terrore. Lo ringrazio di non essere
andato incontro alla morte con fare spavaldo, da eroe,
ma come uno di noi. Come uno povero. Come me. Lo sentirò
fino all'estremo compagno di cammino e di scalate. Compagno
anche del turbamento del cuore: "Ora l'anima mia
è turbata" (Gv 12, 27): disse nell'ora in
cui, braccato, sentiva che il cerchio stava per chiudersi
in una morte di croce.
Ma
il silenzio della croce, lui ce l'ha ricordato, non era
silenzio morto, silenzio senza futuro. Era silenzio di
attesa. Era il silenzio del seme nella terra. Non era
spegnimento. Era brace. Meditandolo mi venne un giorno
di scrivere e così faccio fine alle troppe mie
parole lontane dal silenzio:
Come
brace di fuoco
sotto coltre
pesante d ceneri,
come chicco di grano
in terra nera
il tuo corpo a riposo
nell'ombra stupita
di una grotta.
E pietra e soldati
a presidiare la morte.
E che sia morto per sempre.
E fu triduo di silenzio.
E noi a contare
con te giorni di silenzio,
l'angoscia del nulla,
il peso del fallimento,
la tomba sigillata,
il tuo silenzio, o Dio.
Arde nel silenzio
come brace il tuo corpo
sfioriamo a mani sospese
le ceneri.
Ascoltiamo il tepore:
sarà fuoco
sarà vento della risurrezione.