TOGLITI
I SANDALI DAI PIEDI
ovvero
la paura di amare
Mi succede di chiedermi che cosa sia questa emozione,
che mi prende pure il corpo, fino a sentirla spingere
negli occhi, ogni volta che due creature, dentro una chiesa
o dentro un comune, osano dire sposandosi parole tanto
assolute e tanto tenere ad un tempo.
Mi
è accaduto ancora una volta giorni fa dentro il
silenzio stupito di una chiesa romanica a cui ti affacci,
per scalata di fede, al colmo del biancore di una lunga
scalinata. Mi risposi che a commuovermi è il legame
di assolutezza e di tenerezza che abitano queste parole.
Non mi prendono il cuore minimamente le parole assolute
se sono intrise di gelo, il gelo del dogmatismo. Ma queste
altre parole che dicono amore incondizionato, che sfidano
il futuro senza essere sfrontate, consapevoli di una fragilità,
nel dono di una tenerezza infinita, queste sì,
mi prendono il cuore.
Forse,
ti dirò, è anche stupore, perché
le sento pronunciare dentro una stagione, dove nell'aria,
tra le mille paure, respiri anche questa paura, strana
paura, la paura di amare. Dentro una stagione come la
nostra, in cui si vuole salva e custodita, se possibile,
una via di fuga alle spalle. E non me la sto prendendo,
come spesso avviene con il fenomeno delle convivenze,
fenomeno in grande inarrestabile espansione. Non è
detto che abiti lì o sempre lì la paura
di amare.
Ricordo
che anni fa mi capitò di leggere un articolo di
Xavier Lacroix, teologo francese, padre di famiglia, direttore
dell'Istituto di Scienze della Famiglia a Lione, che invitava
a guardare più da vicino il fenomeno: "La
situazione non è più quella di trenta anni
fa, quando scegliere la convivenza equivaleva a contestare
il matrimonio. Oggi, per esempio, la maggior parte vive
un certo senso della fedeltà, e la coabitazione
non ha il significato dell'amore libero: ci si augura
durata, più dell'80% delle coppie spera di "tenere",
si concepiscono bambini e i genitori li riconoscono. Inoltre,
senza saperlo, molti fanno il percorso di storici e etnologi,
recuperando e riscoprendo forme antiche di matrimonio
in uso prima del XII secolo, prima che la Chiesa istituzionalizzasse
il rito con lo scambio di consensi.(...) Non è
che chi non si sposa non si impegna: la promessa può
benissimo essere scambiata nell'intimo della coppia ed
è questo l'essenziale. Ma talvolta l'essenziale
non basta".
Il
luogo della paura di amare, così mi sembra di capire,
non è necessariamente una situazione sociale, è
una stanza più interiore, è il cuore di
ognuno di noi.
Spesso
la paura di amare è paura di uscire da se stessi
dove sai, o ti illudi di sapere, paura di abbandonarsi
all'altro, paura di rischiare l'avventura delle mani di
una donna o di un uomo cui ti stai affidando. Spesso è
anche paura di soffrire. O di essere ferito. Una paura
che non trattenne il Signore Gesù. Non lo trattenne
dal consegnarsi. Lui ben consapevole di che cosa può
accadere quando sei nelle mani degli uomini. E furono
mani di croce.
Purtroppo
della logica del cautelarsi e del non rischiare, della
paura di amare con vera e non pallida passione, abbiamo
dato ampia dimostrazione lungo i secoli. Nel suo libro
"Equivoci, mondo moderno e Cristo" Padre Bevilacqua
ricordava le parole, senza misericordia né reticenze,
di alcuni testimoni del nostro tempo, parole che andavano
a fotografare volti di credenti. Secondo Mounier "esseri
che pesano e misurano il gesto al millimetro, eroi linfatici,,
vasi di noia, sacri sillogismi, ombre di ombre".
Trent' anni prima Péguy ne aveva smontato il meccanismo
psicologico dicendo: "Perché non hanno forza
per essere della natura, credono di appartenere alla grazia.
Perchè non hanno il coraggio temporale credono
di essere penetrati dall'eterno, Perché non possono
appartenere al mondo che rifiutano, credono di appartenere
a Dio". Parole non prive di durezza in cui senti
la delusione per un amore che si dichiara tale ma, per
paura di sofferenze o di falsi moralismi, tiene, ad ogni
buon conto, una buona riserva di distanza.
A
volte è anche, e lo dobbiamo ammettere, paura di
essere invasi. Le storie di amori che furono invasioni
non vanno certo a rassicurare il cuore. Non sarà,
mi chiedo, che il segreto per togliere dal cuore dell'altro
la paura di amare non stia anche nel vivere amori che
non siano per nulla nel segno dell'invasione dell'altro,
nel segno dell'occupazione dell'altro, nel segno della
riduzione dell'altro ad oggetto.
Mi
ritornano al cuore le parole di un amico, Erri De Luca:
un giorno lui si trovò fra le mani il libro della
Bibbia e tale fu il fascino che dovette per passione andare
al sapore delle parole così come suonavano nell'antico
testo e da allora, al chiarore delle luci del mattino
interroga con gli occhi e le dita le grafie sacre. In
un suo testo che mi fecero conoscere anni fa due amici,
Federica e Tomaso, mi capitò di leggere una poesia,
non più dimenticata, che mi piace qui trascrivere,
parola per parola, quasi toccandole:
Ho
visto l'amore delle frecce,
"io amo te": arco teso
contro un bersaglio, dove io è il soggetto
e te un complemento, oggetto di una mira,
un caso accusativo.
Ho
letto in una lingua antica:
E amerai "al" tuo compagno come te stesso,
(veaavtà lereacà camòca).
Un errore in grammatica,
non un errore in cuore.
Porta
amore a qualcuno
porgi il te stesso
ma fino alla soglia.
Fa' che si chini per alzarlo a sè,
mai che debba staccarselo di dosso.
Fa'
che non sia proiettile
contro sagoma attinta,
ma la deposta offerta.
Quando
Federica e Tomaso mi lessero la poesia, che poi trovò
posto nel libretto del loro matrimonio, a colpirmi fu
da principio la stranezza del dativo. Nella traduzioni
che per lo più abbiamo fra le mani, è scritto:
"Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Lv
19,18). E la traduzione grammaticalmente funziona. Nel
testo originale, annota Erri De Luca, sta scritto: "Amerai
al tuo compagno come te stesso". "Al tuo compagno",
al dativo. "Un errore in grammatica" ma, aggiunge
Erri De Luca, "non un errore in cuore".
don Angelo