La
mia piccola voce per le donne
Perché
d'estate? Non so rispondere. Ma ho come la sensazione che
la violenza sulle donne, che già invade di sé
tutti i mesi dell'anno, dilaghi ancor più e gridi,
urli, in modo impietoso, all'avvicinarsi dell'estate.
Sfogli il giornale, ascolti i notiziari, è stillicidio
infinito. Non c'è giorno di pace per loro. È
un'altra guerra. Degli uomini contro le donne. Nel territorio
tenero dell'anima e del corpo. Guerra di ogni giorno, un
pane amaro, pane quotidiano.
Leggo, ascolto. Si raccontano gli abusi a cielo aperto.
Ma chi racconta degli abusi, ben più numerosi e accuratamente
coperti di silenzio, raramente manifesti, che avvengono
all'ombra nascosta delle case, dentro le pareti domestiche,
all'interno delle famiglie?
Leggo, ascolto. A tal punto mi si sfonda il cuore che, quando
mi avviene di attraversare di notte le strade buie della
mia città, a volte mi sorprendo, come se mi venisse
da lontano un grido, uno straziante grido d'aiuto. Di donna.
Sento l'amarezza per una società che si riempie la
bocca di proclami sulla raggiunta parità delle donne
e, davanti al grido, all'urlo degli stupri, altro sembra
non sappia fare se non invocare misure repressive, senza
mai o quasi mai aggredire il male alle radici. Strano indecoroso
fariseismo di una società che non insorge contro
una mentalità, ampiamente, supinamente sposata, che
è il vero bacino di coltura dei fenomeni che stanno
sotto i nostri occhi.
Educare al volto dell'altro, ai sentimenti, alla tenerezza,
al rispetto sempre e comunque, in un mondo che celebra il
primato dell'io arrogante e prevaricatore, sembra ormai
arte improponibile, da cancellare dai codici, strumenti
vecchi, fuori uso, arrugginiti dal tempo.
Oggi si fa scempio - e nemmeno ci si rende conto, tanto
si è ubriachi della propria immagine - dei sentimenti,
incuranti delle ferite, quasi il volto fosse terra di nessuno.
Da invadere e calpestare.
E l'esempio, cattivo esempio, viene dal-l'alto. Parole che
dissacrano mistero e dignità delle donne, parole
volgari che feriscono a volte femminilità e dignità
anche delle persone più care, parole in assenza di
pudore, pronunciate con fare accattivante. E nessuno che
insorga, nessuno che gridi indignazione per una dignità
ferita, per una femminilità che chiede di essere
sfiorata onorando, accarezzando. Con mani quasi sorprese
da mistero. Anche qui invece è in voga, e tristemente,
l'invasione, l'occupazione, lo sfruttamento. Di corpi e
di anime.
Da "prete minore" quale sono, soffro lo scarto
tra le parole e la realtà, tra le proclamazioni di
principio, che costano meno di un briciolo di voce, e la
realtà, così desolatamente triste e lontana.
Questa società, a mio avviso, ha un debito nei confronti
della donna. Ha molto da farsi perdonare. Ancora.
Questa chiesa, anche, ha un debito nei confronti della donna,
ha molto da farsi perdonare. Purtroppo. Ancora.
Vedo. E soffro la distanza. La distanza tra la Parola, quella
di Dio e la condizione della donna nella chiesa. Tra le
parole, le molte parole della chiesa sulla donna, e la sua
reale condizione all'interno della chiesa. Vedo. E soffro
la distanza.
Le donne amiche. Di tanto in tanto le accarezzo con lo sguardo.
Le sento defraudate, come se nella chiesa non fossero stimate
né amate per quello che sono. Al di là delle
proclamazioni. E soffro del ritardo. Ritardo di stima, di
affetto, di riconoscimento. Il recupero, ognuno lo vede,
è lento. E a volte ambiguo. Vedo. E soffro l'ambiguità.
È diventato luogo comune dire che le donne hanno
spazio nella comunità ecclesiale, che delle donne
oggi sono piene le chiese. Ci si dovrebbe però chiedere
se la presenza sia prevista sì, ma prevista per lo
più per una funzione di servizio e di conservazione.
Di tanto in tanto le guardo e la mente mi corre alla casa
di Betania, alla lezione dimenticata di quella casa, dove
il Rabbi di Nazaret non sopporta che una delle sorelle,
Marta, sia confinata e impoverita in un ruolo di servizio,
nel ruolo di donna affaccendata: "tu" sembra dirle
"sei molto di più: tu, come tua sorella, puoi
stare con me in una relazione diversa, in una relazione
di scambio interiore, e non primariamente in una relazione
di scambio di servizi. Tu sei molto di più, tu puoi
condividere con me pensieri, orizzonti, e sogni". Vi
immaginate che cosa succederebbe nella chiesa se papi, vescovi
e preti chiamassero le donne a condividere pensieri, orizzonti
e sogni?
Vedo e soffro. Soffro la distanza, in una chiesa dove il
pensare e il decidere è riservato ai maschi e, contrariamente
alla lezione del Maestro, le donne sono chiamate ad eseguire.
Si pensa e si decide nelle stanze alte. Là non c'è
spazio, nemmeno nell'immaginario, per un sedere alla pari,
donne e uomini mescolati. Mescola sacra sarebbe, perché
evangelica.
Da dove nascono i pronunciamenti, i documenti, gli orientamenti,
i piani pastorali? Da dove vengono se non da un mondo maschile?
E respirando fin dal loro incipit a un polmone solo, quello
maschile, come potrebbero non denunciare fiato corto e asfittico?
Permane in non pochi ambiti il pregiudizio, duro a morire,
che la mente sia privilegio dei maschi: gli uomini la mente,
le donne il cuore. Quanto lontani ancora dall'intuire che
ci sia un pensare, non intriso di fredda razionalità,
causa, questa, e non ultima, dell'aridità dei molti
documenti ecclesiastici.
Quanto lontani ancora dall'intuire che c'è un pensare
che conduce a sconfinamenti. Non sarà anche questo
il pensare femminile? Ancora una volta lontani - quanto!-
dalla lezione evangelica della donna dei cagnolini, che
indusse Gesù, il Maestro, lui, l'unico Maestro, a
"sconfinare", il giorno in cui a lei, donna pagana,
donna dell'oltre confine, oppose un rifiuto: "non è
bene" le disse "gettare il pane ai cani".
"È vero" gli replicò la donna "ma
anche i cagnolini si cibano delle briciole del pane che
cadono dalla tavola dei loro padroni!." Il Maestro
imparò dalla donna. E quel giorno sconfinò.
Sconfinò nel territorio dei cagnolini.
E già aveva sconfinato, secondo un altro vangelo,
per via di una donna, sua madre, alle nozze in Cana di Galilea.
Aveva sconfinato sulla sua ora. Alla madre che lo aveva
invitato a fare qualcosa, lui aveva risposto: "Donna
non è ancora giunta la mia ora". La madre lo
fece sconfinare sull'ora, in un giorno di nozze. E fu vino
buono fino alla fine. E fu ora di ebbrezza. Ebbrezza comune.
A volte mi viene fatto di chiedermi se all'origine di tante
immobilità ecclesiastiche, all'origine di una chiesa
restia a sconfinare, non ci sia anche questa ritrosia a
lasciarsi condurre dalle donne, così come il Rabbì
di Nazaret si lasciò condurre dalla donna dei cagnolini
e da sua madre. Vedo e soffro la distanza. La distanza dal
vangelo.
Soffro a volte la sensazione, che nei fatti, al di là
delle parole, nei loro confronti, nei confronti delle donne,
permanga un pregiudizio, quel pregiudizio circa il puro
e l'impuro, che Gesù scardinò quando rivendicò
la purezza di ogni realtà vivente, attribuendo al
cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere
pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.
Soffro la sensazione che nella chiesa, al di là delle
parole, la donna sia in qualche misura ancora sospettata,
come la si ritenesse portatrice di qualcosa di imprevisto,
di oscuro, come se la sua femminilità fosse abitata
da una forza pericolosa. Non sarà anche per questo
che le donne vengono per lo più celebrate dalla chiesa
per la loro maternità, la donna madre, che non per
la loro femminilità, la donna in quanto donna? In
quanto donna, secondo il racconto della Genesi, e non in
quanto madre, lei con l'uomo, immagine del Dio creatore!
O non dipenderà anche da questo la fatica di concepire
una sessualità che non sia legata a filo stretto
con la procreazione, quasi che questa sia alla fine, lo
si dica o no, la purificazione dell'inquietante femminile?
Ancora una volta lontani dal Maestro che si ritrovò
più volte a celebrare mani di donne che l'avevano
unto e profumato e a criticare, senza giri di parole, l'accoglienza
misurata e senza tenerezza degli uomini religiosi.
Nella casa, ancora a Betania, in giorni che già odoravano
la Passione, ancora una donna colse, sola fra tutti, una
verità più profonda di quel Rabbì,
colse il segreto del suo cuore turbato. E lo unse di tenerezza.
E la casa si riempì di profumo.
Dare spazio al femminile nella chiesa, a tutti i livelli,
avrebbe come risultato, non ultimo nell'importanza, un dilagare
di profumo nelle nostre comunità ecclesiali, che
così spesso e così pesantemente, corrono il
rischio dell'appiattimento nella figura burocratica della
istituzione, comunità senza calore, senza profumo.
Un profumo che non abita le verità gelide né
le distanze, abita mani che toccano e ungono: "La verità
è ciò che arde. La verità non è
tanto nelle parole, ma negli occhi, nelle mani, nel silenzio.
La verità sono occhi e mani che ardono in silenzio"
(Christian Bobin).
Ce lo ricordano le donne. Lo ricordano alla società
e alla chiesa. E chi ha spazio faccia spazio.
don
Angelo
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