Il
divino e i volti
Ringrazio
per il congiungimento - per la "e" del congiungimento tra
il divino e i volti -.
Ho sofferto a lungo, troppo a lungo per la schizofrenia
di un divino che mi veniva raccontato come prendere distanza
dall'umano e la sete del volto di Dio raccontata come purificazione
dalla sete del volto delle donne e degli uomini del mio
tempo, e questo nei giorni in cui mi andavo sempre più innamorando.
Innamorando
dei volti. Veniva sera e scrivevo:
I
volti degli amici
sono come Terra Promessa:
pochi metri
di zolla nera e feconda
che conosco palmo a palmo,
come il ramificarsi
delle vene su una mano.
I volti dei miei amici
sono come lo specchio del tempo.
Li interrogo in silenzio la sera:
negli occhi s'è fissata
e ancora vive, tutta,
l'avventura di un giorno:
ancora inseguono
scomode immagini,
come mozziconi
che nessuno osa spegnere
in ceneri di indifferenza.
Dilaga nella piega
degli occhi
la lotta dei disperati,
l'amore dei folli,
questo nostro sperare
contro ogni speranza.
Sui volti dei miei amici
ripercorro ogni giorno
il sentiero inquieto
delle nostre domande
senza risposta.
Unica certezza
- tra sabbie e deserti
di scelte provvisorie -
il Cristo Presenza e Assenza,
vicino come la carne
di uno sposo,
e atteso nella notte
con fiaccole
che faticano al vento
quasi fossero
sul punto di morire.
E
noi, amici?
Noi chiamati
a rischiare la notte,
a decidere al buio
-quando fioca è la luce-
per un cammino o per l'altro.
Perché non parli, o Signore?
Nostra nuova condizione
è non sapere e sperare
contro ogni speranza.
Volti dei miei amici
volti senza presunzione,
immagine
della speranza dei folli.
Volti dei miei amici,
la terra del domani.
La frequentazione della Parola creava congiungimento di
divino e di volti. Mi affascinava e mi intrigava l'immagine
di un Dio che si lasciava prendere da stupore per ciò che
gli era uscito dalle mani: "E vide che era cosa buona, bella".
Lui al culmine dello stupore quando gli riuscì di creare
un uomo e una donna: "E vide che era cosa molto buona, molto
bella". Parte di lui abitava quel volto di donna, quel volto
di uomo, li aveva creati a sua immagine, secondo la sua
somiglianza. E la parola immagine, nella lingua antica,
non racconta una fotografia, ma una custodia di presenza,
della presenza del divino nel volto.
A
volte l'affresco parlava nei suoi colori. A volte purtroppo
- e furono secoli! - l'affresco veniva dimenticato o appesantito
di sovraccarico. Ci furono giorni in cui scordammo l'affresco
delle origini che parlava di volti abitati. Nuovi maestri
cosiddetti dello spirito mi parlavano di un Dio di cui innamorarmi,
da contemplare e di donne e uomini da relativizzare, dai
quali distogliere gli occhi. Ci furono anche giorni in cui
in Seminario - e rabbrividivo - mi portavano come esempio
di virtù S. Luigi Gonzaga, per il fatto che non guardasse
in volto, perché donna, sua madre. A me sembrava pura schizofrenia.
Come se amare la vita, fosse togliere qualcosa a Dio. Un
disamoramento chiamato virtù.
Pensavo
all'incarnazione. Non era il superamento della schizofrenia,
tra Dio e uomo? Dio si è fatto uomo. Dio lo trovi dove?
Dove è andato a nascondersi? Nella carne, nella storia degli
umani. Non è contro la vita, è nella vita. Oggi alla domanda
dov'è andato a nascondersi Dio. mi si accende nel cuore
l'indicazione di una preferenza che urge come una segnalazione.
Da non scordare. Pena il perdere l'appuntamento. Risuona
già insistente nel primo Testamento dove Dio in pagine e
pagine viene evocato come il difensore dell'orfano, della
vedova dello straniero, di coloro che portano scritta nella
pelle una assenza che grida, assenza di difesa, di affetti,
di terra. Dio congiunto a loro.
Dove
si è nascosto Dio? Al cuore mi ritorna un racconto quello
biblico del roveto che narra di Mosè che nei pressi di un
monte, al di là del deserto, vide un roveto ardere e non
consumarsi. Mosè si avvicinò, ma Dio gli parlò dal roveto
chiedendogli di sostare: "Non avvicinarti oltre! Togliti
i sandali dai piedi, perché il luogo, sul quale tu stai,
è suolo santo!". Ci dovrebbe dunque condurre il sospetto
che il luogo che calpestiamo sia sacro, mescola di umano
e divino. Dove si è nascosto Dio? Un midrasch della tradizione
rabbinica cerca di spiegare l'immagine del roveto che arde
e non si consuma.
Ecco
come la interpreta: "Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè:
'Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è
nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se
così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele'.
Perciò si legge anche (Is 63,9): 'In tutte le loro angustie
Egli fu afflitto'" (Esodo Rabbà 2,5). Dove è il divino,
dove si è nascosto Dio? Fedele alla sua tradizione, con
la sua vita ancor prima che con le sue parole, Gesù ha insegnato
dove Dio oggi si nasconde, dove lui stesso oggi è presente:
"Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra:
Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il
regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché
ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete
e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto,
nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero
in carcere e siete venuti a trovarmi". Allora i giusti gli
risponderanno: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato
e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato
da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo
accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo
visto malato o in carcere e siamo venuti a visitartili atei,
?". E il re risponderà loro: "In verità io vi dico: tutto
quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l'avete fatto a me" ( Mt 25, 34-40).
Sembra
di capire il perché della preferenza di Dio e di conseguenza
il perché della scelta preferenziale per i poveri - per
i poveri di ogni categoria - a cui siamo chiamati urgentemente
dalla Parola di Dio. Una scelta cui spesso ci chiama papa
Francesco. Perché la preferenza? Non certo perché Dio faccia
preferenza di persone, ma perché di questi suoi figli vede
i volti violati, sconsacrati, depauperati della sua immagine
divina. Altri hanno mezzi e stratagemmi con cui difendersi,
hanno accoliti e solidali che li difendono, questi no. Li
difende Dio, li difendono i veri credenti in Dio. E quando
succede cha a difenderli siano gli atei, Dio si sente difeso
dagli atei. E quando succede che non li difendano i credenti,
Dio si sente abbandonato e sconfessato dai credenti.
Paradossi
della storia! C'è una conversione da operare. Una conversione
di sguardi e di cuore. A chi normalmente vanno i nostri
sguardi? Chi ha un posto - e dovrebbe essere posto di preferenza
- nei nostri sguardi? E nelle nostre assemblee pastorali?
E nei nostri programmi pastorali? Alcuni di noi forse ricordano
con commozione come la "Didascalia degli apostoli" (III
secolo) prescrivesse al cap. 12 che, ad accogliere nell'assemblea
i poveri, uomini o donne che fossero, doveva essere il vescovo
stesso e non i diaconi e che doveva essere ancora il vescovo
a procurare loro un posto e che, se questo non si fosse
trovato, doveva cedere il suo e sedere a terra ai loro piedi.
"È
questo un sogno?"- si chiedeva anni fa il teologo don Pino
Ruggieri - "O sono piuttosto un tradimento dell'eucaristia
quelle celebrazioni che ripropongono, nella disposizione
dei partecipanti e nello stile della partecipazione, le
gerarchie mondane, ma anche soltanto l'educato stare ognuno
per conto suo?". Non è forse vero che riconsacriamo il pane
del Signore ogni volta che ci lasciamo trascinare dal gesto,
l'ultimo che il Signore ci ha lasciato come comando, in
quella sua ultima cena, il gesto del servo che si china
a lavare i piedi stanchi? E dunque ricondotti anche noi
ai piedi, impolverati di fatiche, delle donne e degli uomini
con cui camminiamo, nel desiderio di sollevarli dalle stanchezze
e di rialzarli a dignità? Uno sguardo di preferenza ai loro
volti. Uno sguardo segnato dalla tenerezza. Perché non basta
vedere.
Anche
il sacerdote e il levita della parabola videro, ma passarono
oltre. A differenza del samaritano che vide e sentì rivoluzionarsi
dentro le viscere per la compassione. C'è modo e modo di
vedere le sofferenze dell'umanità e c'è modo e modo di parlarne,
nelle nostre omelie e nei nostri incontri. Posso vedere
e posso parlare senza "toccare", senza "lasciarmi toccare"
da ciò che vedo, da ciò di cui si sta parlando. Posso guardare
e parlare a occhi asciutti. O mi si possono inumidire gli
occhi. C'è un modo distaccato, professionale, asettico di
guardare e di parlare. Si può guardarlo come un caso da
risolvere, come un caso che, se gli dai attenzione, ti ruba
tempo, un caso che in qualche modo ti crea disagio o ti
contagia.
Ci
sono anche oggi categorie che noi sospettiamo di contagio,
sbrigativamente li chiamiamo "irregolari", portano ferite
devastanti nell'anima, esclusioni che sono morti civili.
Forse il sacerdote e il levita avevano una purezza da salvaguardare,
chissà, in vista di quali celebrazioni nel tempio! Avevano
una sacra giustificazione per "girare dall'altra parte".
Quante volte non ci si ferma, invocando una non opportunità.
Una non opportunità secondo le convenzioni codificate. Ma
una opportunità secondo il vangelo.
Il
10 luglio di quest'anno a Santa Cruz della Sierra, in Bolivia,
parlando i ai movimenti popolari Francesco, il vescovo di
Roma, parlava di volti e diceva: "Quando guardiamo il volto
di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato,
del lavoratore escluso, dell'indigeno oppresso, della famiglia
senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato,
del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio
in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal
traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché
è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei
"volti e nomi" ci si stringono le viscere di fronte a tanto
dolore e ci commuoviamo...
Perché
"abbiamo visto e udito" non la fredda statistica, ma le
ferite dell'umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra
carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta
o dall'indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove
e cerchiamo l'altro per muoverci insieme. Questa emozione
fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con
la ragione: ha un "più" di senso che solo la gente capisce
e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti
popolari". Scoprire il divino nei volti significa in qualche
misura anche perdersi.
Perdersi
a contemplare - sia pure attraverso un'esile fessura -.
Perdersi a contemplare l'oltre che abita i volti . Qualcosa
che eccede, qualcosa che fa la dignità di quel volto che
a volte è stato piegato in un nome, in un genere, in un
età, in una categoria, in una professione, in una cultura
, in una religione. Perdersi con gli occhi nell'aldilà che
lo abita, sfiori il divino. Un oltre che diventa per te
nutrimento. Spesso mi fermo a pensare, e anche a ringraziare
per i volti. Sono stati la mia ricchezza, il mio nutrimento.
Quello che io sono in gran parte lo devo a loro, all'oltre
che li ha abitati.
Se
ti perdi nei loro volti, i crocifissi della storia, che
nel migliore dei casi vengono considerati come oggetto di
cui prendersi cura, vengono strappati alle loro periferie
per ritrovare dignità: da oggetto diventano soggetto, protagonisti,
portatori di dignità e di ricchezza, creature che possono
dare, possono ospitare, possono insegnare. Come non ricordare
la donna del vangelo che Gesù, alla fine della sua vita
pubblica, invita a guardare? Quasi ci dicesse: "Guardate
lei, imparate da lei". Intrigante pensare che alla fine
del vangelo Gesù lasci in eredità un volto.
Di
una donna, vedova e povera. Nella sua povertà ha lasciato
scivolare due monetine nel tesoro del tempio, era quanto
aveva per vivere. E Gesù la mette in cattedra, mentre spodesta
altri dalle loro solenni altezzose cattedre, ha appena finito
di dire: "Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare
in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi
seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano
le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere.
Essi riceveranno una condanna più severa" (Mc 12, 38-40).
Dal
vangelo viene una consegna, quella di ricondurre dalla terra
di esilio in cui sono stati deportati, dalle periferie della
società in cui sono stati emarginati, dai silenzi in cui
sono stati zittiti, gli ultimi della terra. Gli ultimi che
per il vangelo sono i primi: qui sta la rivoluzione del
vangelo, negata o incompiuta. Gli ultimi che Gesù difese
a costo di morte restituendo loro quella dignità di cui
spesso vengono illegalmente espropriati. Gli ultimi, i dimenticati,
inghiottiti nelle nebbie della nostra dilagante indifferenza,
nelle nostre agghiaccianti leggi di esclusione, esclusione
illegale in umanità.
Gli
ultimi una categoria dell'umanità, che dovrebbero aver un
posto di privilegio, terra sacra, nella vita di ogni vero
discepolo del vangelo. Potremmo azzardare domande: attingiamo
alla sapienza degli ultimi? Li mettiamo in cattedra nei
nostri consigli pastorali, nelle nostre assemblee ecclesiali?
A chi diamo la voce nei nostri grandi convegni, nelle imponenti
faraoniche manifestazioni ecclesiali? Troviamo presenti
i loro volti? Ci prende timore che in assenza dei loro volti,
in una misura non indifferente, si nasconda anche Dio? Una
rivoluzione? Incompiuta o nemmeno iniziata?
Se
ne intravvedono inizi - e nemmeno tanto timidi in alto,
che più alto non si può - quasi un segnale per tutta la
chiesa e non solo per la chiesa. Forse queste mie parole
- le mie troppe parole - possono efficacemente essere racchiuse
in una sola immagine, quella dei centocinquanta clochard
in visita ai Musei vaticani e alla Cappella Sistina il 26
marzo scorso, su invito di papa Francesco. Passi offrire
la cena! Ma offrire una visita ai musei e alla cappella
Sistina, con guida di esperti? E' gesto che rivendica dignità
di occhi e di intelligenza per coloro che noi chiamiamo
"barboni".
Dignità,
intelligenza, capacità di godere della bellezza, un volto!
A sorpresa il papa si affacciò nel nel mezzo della loro
visita, strinse le mani a ciascuno, disse loro: "Benvenuti.
Questa è la casa di tutti, è casa vostra. Le porte sono
sempre aperte per tutti". I suoi occhi! I suoi occhi mentre
li guarda. Li vedi come perduti in un'icona, quasi stessero
sulla soglia. Sulla soglia del divino. Invito a una sosta.
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