AMICO
DEI PUBBLICANI E DEI PECCATORI,
AMICO DI GIUDA L'ISCARIOTA
Articolo per la rivista Esodo
Penso
che se ne sia scritto, dico dell'amicizia di Gesù
con pubblicani e peccatori, della sua amicizia con Giuda.
Ma a dire il vero non ne ho sentito molto parlare e, quando
mi è capitato di sentirne parlare, nei discorsi
si procedeva come glissando, per via che, se le parole
sembrano esagerate o imbarazzanti, si va subito nella
mente a sfumare. Quasi pensassimo: "amico dei peccatori
o di Giuda? Si fa per dire". Un po' come quando nelle
chiese ci chiamiamo tutti fratelli. Si fa per dire! Quasi
pensassimo che quelle sue amicizie non fossero poi una
cosa così profonda!
Ma
doveva pur esserci qualcosa!Se l'accusa l'odoravi nell'aria
e faceva notizia. L'amicizia non è una cosa aerea,
slavata o fumosa, la tocchi. Per esempio amicizia è
come uno ti guarda, sono occhi e mani, è timbro
e tenerezza di voce. E i suoi oppositori, loro che di
spiarlo se ne erano fatti un mandato, avevano colto sguardi,
parole, complicità nella vita del Rabbi di Nazaret.
E lui, Gesù, l'accusa se la sentiva mordere alla
pelle.
Farisei
e dottori della legge lo bollavano come "amico dei
pubblicani e dei peccatori". Avevano di certo sorpreso
come li guardava. Quel giorno per esempio avevano visto
cosa era passato nel suo sguardo quando alzò gli
occhi su Zaccheo il pubblicano che aveva escogitato come
luogo di avvistamento un albero, dall'alto del quale cercare
di capire chi fosse Gesù. E a prova della tenerezza
dello sguardo, sentirono quelle parole nell'aria: "Oggi
devo fermarmi a casa tua". Secondo loro non lo doveva,
proprio non lo doveva! Ma che religione era mai la sua?
C'era da sdegnarsi. Da sdegnarsi a non finire per quell'aria
di festa che dalla casa di Zaccheo filtrava per le strade,
una compagnia scandalosa. Per loro aveva sbagliato casa.
E lui invece a dire che proprio quella era una casa in
cui era entrata la salvezza. A dirlo senza peli sulla
lingua a coloro che fissavano case a Dio e distribuivano
patenti del regno. Lo sentirono dire, a memoria per i
secoli: "Oggi la salvezza è entrata in questa
casa, perché anch'egli è figlio di Abramo;
il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare
e a salvare ciò che era perduto".
Una
amicizia vera, la sua, e lo si percepiva d'istinto da
come stesse bene con loro, nei loro banchetti. Amicizia
scandalosa. E lui che contro gli scandali aveva anche
duramente tuonato, dallo scandalo di essere amico di pubblicani
e peccatori non si era mai, proprio mai, guardato. Ne
andava, secondo lui, della buona notizia del vangelo,
che non è quella di un Dio barricato nella logica
del "se tu sei buono con me, io sono buono con te".
Sarebbe stato messaggio di una ovvietà pallida
e raggelante. Con i peccatori lui stava prima che si convertissero.
E suo intimo convincimento era che a convertirli fosse
proprio questo, il fatto che lo sentissero amico comunque.
A differenza radicale degli uomini religiosi che a gente
come quella non riservavano il benché minimo grumo
di calore. Loro, rappresentanti di una religione dove
c'era testa e ordine, ma niente cuore, niente disordine
del cuore, niente di quel disordine del cuore, di quell'eccesso
di amore che fa la differenza di Dio.
Lui
si inteneriva alla debolezza, la guardava con amore, lui
che raccoglieva frammenti. Lui che aveva appreso nella
bottega del cielo, dal suo Padre vasaio, l'arte di ricomporre
argilla, lontano da ogni disprezzo per un minimo scarto.
C'era amore nei suoi occhi.
Passò
una vita raccattare scarti, quelli che si sentivano tali
o quelli che si portavano addosso, a ferita d'occhi, lo
sguardo spietato dei censori senza cuore né anima.
Raccoglieva scarti, uomini come Zaccheo, donne come Maria
di Magdala o la donna del pozzo di Sicar. Uomini come
i suoi discepoli, che non erano certo stinco di santi
né monumenti di perfezione. Pietro non lo avrebbe
rinnegato tre volte in una notte e gli altri non sarebbero
tutti, dal primo all'ultimo, fuggiti? E lui a guardarli
con tenerezza nella notte dei tradimenti. Lui a ricordare,
proprio quella notte, che a loro non aveva dato nome di
servi, ma nome di amici, lui a dare loro, nella notte
in cui veniva tradito, il pane dell'amicizia. Così
era lui. E così facendo raccontava Dio.
Nel
raccontare dei suoi amici, un nome va aggiunto - a sussulto!
- quello di Giuda. Nel ricordarlo mi prende emozione.
Emozionato al pensiero che a Giuda, proprio nell'ora in
cui lo intravide tra le ombre degli ulivi giungere accompagnato
da una folla con spade e bastoni e lo vide farsi avanti
e baciarlo a tradimento, sì a Giuda riservò
quella parola che devasta ogni nostra plausibile visione
per congiungimento: "Amico, per questo sei qui!".
Leggo la parola e mi fermo. Lui non era tipo che sprecasse
parole, quasi che Giuda fosse tanto per dire, "amico",
e la parola fosse in leggerezza. Lui le parole le caricava
di senso, e nel caso di pensieri e di sentimenti. Avrebbe
potuto dirgli, forse lo avremmo fatto noi, che aveva chiuso
con l'amicizia, troppo lacerante la ferita. Usò
la parola "amico", che per lui non aveva fatto
il suo tempo, per lui era ancora in vigore, era ancora
il tempo di dirla perché vera, era parola che specchiava
il tempo continuo del suo cuore. Di più non è
scritto. Ma in quella parola sussurrata nel buio del giardino
già era disegnato un oltre, l'oltre di ogni oltre,
come se di più non si potesse. Di più con
quell'amico non poteva.
E
io rimango a pensare. Poi oso andare oltre, ma sono i
pensieri poveri, i miei, di uno qualunque, di un lettore
che va maldestramente immaginando.
"Amico,
per questo tu sei qui". So che lo guardava con tenerezza,
perché sulle sue labbra non ci fu, mai, menzogna.
Aveva lo stesso sguardo che abbiamo noi con un amico.
Lacerato e amante allo stesso tempo. Penso ai suoi occhi,
al brivido chela notte più fonda non riuscì
né a spegnere né a velare. Non aveva rotto,
era ancora congiunto. Ho immaginato gli occhi, i suoi,
e penso, un po' presuntuosamente, di non aver sbagliato
ad immaginare.
Ora
vorrei immaginare sull'altro versante, quello di Giuda.
Ho trovato scritto che la parola di Dio non scende senza
intenerire, come fa la pioggia, le zolle. Immagino e penso.
Penso che la parola inimmaginabile, la parola "amico"
non possa non aver intenerito la zolla, anche la più
oscura del cuore di Giuda. Se ne andò disperato.
Sommessamente oso dire disperato per amore, per tradimento
di amicizia. Disperato per amore volle restituirei trenta
denari, che gli scottavano tra le mani ma ancor più
sul cuore. Disperato si impiccò. Io sommessamente
lo vado pensando: si impicco per disperazione d'amore.
Ci si può impiccare per amore. Se lo fai, vuoi
che l'amico non sia lì ad accoglierti? Quella parola
amico l'aveva messo in movimento.
Non
ho competenze, ma a volte mi vien fatto di pensare che
questo, dell'amicizia di Gesù con pubblicani e
peccatori, con donne di cattiva fama, con Giuda, sarebbe
un capitolo su cui indugiare. Dico da parte dei credenti.
Da parte di una chiesa che, affacciandosi al mondo, sbaglierò,
non usa, usa poco, quasi le è estranea, la parola
"amico" o se la usa sembra "un tanto per
dire", una chiesa che ha troppo dimenticato, tenendosene
sdegnosamente lontana, lo scandalo, quello che il suo
Signore non ha mai evitato, lo scandalo di mangiare con
pubblicani e peccatori. Una chiesa, che quando si affaccia
ai problemi che attanagliano questa umanità, assume
l'aria distante di chi giudica e non il volto di chi si
intenerisce per "viscere di misericordia". Così
facendo non mette in cammino, sprecando "l'opportunità
delle opportunità" se stiamo al vangelo. La
spietatezza del giudizio non ha mai messo in cammino nessuno,
se mai ha congelato cammini. A mettere in cammino sono
occhi, mani, pensieri che svelatamente dicono amicizia.
Abbiamo
avuto, e dobbiamo farne devota emozionante memoria per
debito di gratitudine, la grazia delle eccezioni. Una
grazia da non vanificare. La grazia di uomini di chiesa
che nel loro ministero onorarono queste amicizie di Gesù,
uomini di chiesa che non si fermarono ai pregiudizi, ma
al di là delle lontananze, salvaguardarono come
assoluto uno stile del vangelo, persuasi che in quello
stile fosse lo svelamento, luminoso per tutti, non soggetto
ad equivoci, del messaggio evangelico.
Mi
fermo. Evocando un nome. Un volto. Quello di un vescovo
amato, il cardinale Carlo Maria Martini. Mi fermo evocando
carezze, le carezze sono nel linguaggio dell'amicizia,
le carezze tra un laico non credente e un vescovo, uomo
di chiesa. Era il 10 maggio 2010, ed era la penultima
volta in cui Eugenio Scalfari, laico illuminista, incontrava
a Gallarate il card. Martini, parlarono di morte e di
risurrezione. E alla fine? Scrive Scalfari: "L'incontro
era finito. Il giovane sacerdote era rientrato per aiutare
il cardinale ad alzarsi. Io gli dissi: "La prossima
volta voglio vederla saltare alla corda". Mi guardò
sorridendo e disse: "Torni presto". Poi mi accarezzò
il viso con un tocco leggero. Feci altrettanto con lui.
Eravamo tutte e due un po' commossi. Fuori continuava
a piovere".
Angelo Casati