LETTERA A UN CONVEGNO
Faccio
parte del gruppo dei promotori di un'iniziativa che va
sotto il nome "Il vangelo che abbiamo ricevuto",
uno spazio libero di comunione, confronto e ricerca sinodale.
Ci si dà convegno per la quarta volta a Roma dal
17 al 18 settembre. A tema l'istituzione dell'Eucaristia
nel racconto di Luca, in cui fanno spicco le parole di
Gesù: "Ma voi non così" (Luca
22, 25).
A
me è stato chiesto di stilare una lettera per il
Convegno, lettera che mi è caro condividere anche
con voi.
Può
forse sembrare "stravagante", vagante fuori,
fuori dalla realtà, che dei credenti, pur sentendosi
inestricabilmente compagni di viaggio delle donne e degli
uomini del nostro tempo, pur avendo amici tra non credenti
o diversamente credenti - e dunque partecipi con loro
delle fatiche e delle gioie, dei drammi e delle attese
che segnano questa nostra stagione - diano come tema al
loro convenire quello dell'eucaristia.
Qualcuno dall'esterno potrebbe giudicarlo un tema privato,
che soffre una sorta di soffocamento nei confini della
chiesa, un restringersi dentro celebrazioni di una liturgia
che vede oggi un convenire di pochi. Non c'è altro,
altro di più urgente, all'interno della chiesa
e della società, su cui confrontarci? Non sono
altri i nodi da esplorare, civili, politici, ecclesiali?
Non corriamo forse il pericolo di essere fuori dalla storia?
La domanda ci inquieta. Se non altro perché svela
drammaticamente, impietosamente, quale immagine di rito,
al pronunciarsi della parola "eucaristia", oggi
si accenda in non poche donne e uomini del nostro tempo.
Ci chiediamo che cosa ci ha portato a questa deriva che
sembra suggerire l'immagine della privatezza, dell'esclusività,
della non contiguità, della ininfluenza del rito
sulla vita.
La
Cena del Signore: un'immagine tradita
Un'immagine tradita. Chi varca - ce lo chiediamo - la
porta di una delle nostre tante chiese intravede con sorpresa
in quella celebrazione un vangelo, una buona notizia?
Un evento che fa sperare? Per il tempo dentro le chiese
e per il tempo fuori le chiese? Intravede, come da una
piccola fessura, un umile anticipo del convenire universale,
cui diamo il nome di "Regno di Dio", nel quale
siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe, donne
e uomini venuti dall'Oriente e dall'Occidente? O intravede
un pallido convenire che non esce dalla consueta "normalità"
di ogni rito?
Nei giorni del nostro convenire a Roma ci chiederemo se
la Cena del Signore segna ancora una differenza, quella
che le aveva impressa il Signore, quella che si affaccia
dal titolo del nostro convenire: "Ma voi non così".
Quasi un dirottamento di modi di pensare, di modi di vedere,
di modi di agire, di modi di stare al mondo.
E' ancora percepito nelle celebrazioni il dirottamento?
Non fa parte l'eucaristia del "vangelo che abbiamo
ricevuto"? Il vangelo non è solo parola che
accende e riscalda i cuori. Gesù ci ha lasciato
come vangelo, notizia buona, anche i suoi gesti. Anzi
i gesti, forse ancor prima delle parole, raccontavano
che il regno di Dio era accaduto, che era già in
mezzo a noi. I suoi banchetti erano vangelo. In modo specialissimo
vangelo fu la sua ultima cena. Quella notte nella sala
al piano superiore sembrò deporre in quel pane
che spezzava e in quel calice del vino che faceva passare
tra i discepoli tutto quello che lui era, tutto quello
che aveva sognato, tutto quello che aveva insegnato: ultimo
gesto, riassunto di tutta una vita, testamento per i nostri
giorni, per tutti i giorni.
Riconoscere
il segno
Si tratta dunque di acconsentire al segno che arde come
brace nel desiderio di Gesù di volerci a cena,
di darci il suo pane e il calice del vino. Riconoscere
il segno. Anni fa in un convegno a Roma Annalena Tonelli,
la volontaria laica, impegnata in Somalia, assassinata
il 5 ottobre 2003, mentre rientrava in casa, dopo la giornata
trascorsa in ospedale, raccontando la sua vita disse:
"la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l'Amore
è inutile, che la mia religione cristiana non ha
tanti e poi tanti comandamenti, ma ne ha uno solo, che
non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie
né pellegrinaggi, che quell'Eucaristia, che scandalizza
gli atei e le altre fedi, racchiude un messaggio rivoluzionario:
"Questo è il mio corpo, fatto pane perché
anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché,
se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva,
ma mangi la tua condanna"".
Ebbene non finisce di sorprenderci il fatto che già
quella cena, al piano superiore, nella sala addobbata,
l'ultima cena di Gesù, abbia vissuto una sconsacrazione.
Cena sconsacrata dai pensieri e dai discorsi dei discepoli.
Pensieri e discorsi in controtendenza spudorata e sconcertante
al gesto che alludeva al pane, l'umile pane delle nostre
case, un pane che non accetta esposizioni in vetrina:
la sua esposizione, quella vera è sulla tavola.
Per tutti. L'unica esposizione che sopporta il pane. L'unica
che ha sopportato Gesù. Qualcuno voleva dargliene
un'altra, ma allora lui si eclissava. Lui è altro.
E ci chiede di essere altro: "Ma voi non così".
La
regola del pane
Ai discepoli quella sera ricordò la regola del
pane, che è alternativa radicale ai criteri mondani.
Se il rito non racconta più il segno, se il rito
viene defraudato, i credenti giocoforza ritornano alle
loro case, alla loro vita, alla storia con la volontà
di dominio, di potenza, di prestigio. Come se a loro la
storia di quel pane, la storia di Gesù di Nazaret
non avesse parlato: un rito orfano, cieco di quella storia,
da cui si esce per ritornare alle case, alla città,
alle opere e ai giorni, senza dirottamenti, bensì
con i vecchi criteri di sempre, quelli obsoleti, quelli
di una pallida "normalità" mondana. La
normalità mondana dei discepoli che fanno discorsi
su chi è più grande fra loro.
Succedeva allora, succede anche oggi, in noi e nella chiesa,
quando la celebrazione rimane confinata a livelli di superficie
e non diventa seme che, accolto nella maturità
delle coscienze, genera la passione di relazioni vere,
nuove e intense. E quando succede questo, è l'eclisse
dell'eucaristia, l'eclissi di Dio, di Gesù. Assisti
allora a una chiesa che cerca posti sulle piazze, che
mangia con quelli che contano, che contratta appoggi mondani,
interessata più al suo bene che non al bene di
tutti, il bene soprattutto di coloro che non hanno nessuno
che li difenda. Quando questo succede è doveroso
concludere che il rito è vuoto, cieco, anche se
solenne, anche se colmo di profumo di incensi e di colore
di vesti. Anzi la solennità in tal caso suona esposizione
di sé, quell'esposizione da cui il vero pane e
Gesù si sono sempre ritratti.
Il
gesto del servo: un sogno?
La relazione con cui si aprirà il nostro convenire
a Roma ci ricorda in modo suggestivo come la Didascalia
degli apostoli (III secolo) prescrivesse al cap. 12 che,
ad accogliere nell'assemblea i poveri, uomini o donne
che fossero, doveva essere il vescovo stesso e non i diaconi
e che doveva essere ancora il vescovo a procurare loro
un posto e che, se questo non si fosse trovato, doveva
cedere il suo e sedere a terra ai loro piedi. "È
questo un sogno?"- si chiede la relazione - "O
sono piuttosto un tradimento dell'eucaristia quelle celebrazioni
che ripropongono, nella disposizione dei partecipanti
e nello stile della partecipazione, le gerarchie mondane,
ma anche soltanto l'educato stare ognuno per conto suo?".
Non è forse vero che riconsacriamo il pane del
Signore ogni volta che ci lasciamo trascinare dal gesto,
l'ultimo che il Signore ci ha lasciato, come comando,
in quella cena, il gesto del servo che si china a lavare
i piedi stanchi? E dunque ricondotti anche noi ai piedi
impolverati di fatiche delle donne e degli uomini con
cui camminiamo, nel desiderio di sollevarli dalle stanchezze
e di rialzarli a dignità?
Un
pane per vite libere
Suggestivo, nella relazione, l'accenno al concilio di
Nicea che vietava in un suo canone che almeno la domenica
ci si inginocchiasse (canone 20). Sembra a noi di riudire
l'eco ripetuta del vangelo là dove Gesù
comandava di "alzarsi". In piedi, quasi a dire
che l'Eucaristia è fonte di donne e uomini alzati
e non abbassati, fonte di vite libere, è un pane
che ci dà la forza di sfuggire al rimpianto dei
cibi sì prelibati, ma in terra di schiavitù.
Già Don Primo Mazzolari diceva ai suoi parrocchiani:
"Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello,
non vi togliete la testa". Eucaristie in nutrimento
di uomini e donne in ascolto di un magistero che è
dentro ciascuno di noi: "Lo Spirito che il Padre
vi manderà nel mio nome, lui vi insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io
vi ho detto".
Restituire all'eucaristia il fascino di notizia buona
per il nostro tempo
Oggi che la stragrande maggioranza dei nostri compagni
di viaggio più non frequenta le nostre celebrazioni,
non dobbiamo sentire ancora più urgente il compito
di restituire ad esse il fascino che loro appartiene di
notizia buona, per il nostro tempo e anche per chi di
loro prima o poi si affacciasse?
E non dovremmo altresì sentirci educati dai "segni
dei tempi" a sospettare che qualche scintilla dell'eucaristia
possa abitare in liturgie che chiameremmo laiche?
In un colloquio con Gabriella Caramore, Emilio Tadini,
scrittore e pittore, proprio lui non credente, parlando
di Van Gogh, anni fa disse: "Viene in mente quel
suo quadro che si chiama "I mangiatori di patate",
dove dei poveri contadini sono radunati intorno al tavolo
per una cena, che consiste appunto solo in un piatto di
patate. Ma in questo straordinario quadro si manifesta
una specie di "eucaristia laica", come se stessero
officiando il rito della consacrazione di questo povero
cibo. La luce della lampada a petrolio che sta sopra il
tavolo sembra una luce straordinaria mistica".