UNA
SERA DI FINE MAGGIO A LAVAGNA
Ci
sono andato per amicizia. A volte resisto agli inviti e
sogno una serata senza impegni, un piccolo spazio bianco
sull'agenda. Raramente lo trovo, i nomi sono fitti. Fitti
anche di cuore. Succede che, per debito dolce di amicizia,
non ci sia più bianco di pagina.
A Lavagna, lo scorso mese, sera di fine maggio, ci sono
andato per amicizia. Amicizia di giovani preti. Quando li
trovo sul cammino, così liberi e così appassionati
di vangelo, con il fiuto delle cose future, così
poco ingessati dall'istituzione, mi incantano e se trovo
un bianco d'agenda lo riempio d'istinto per loro.
Ma a Lavagna - mi sorpresi a pensarlo quella sera arrivando
nella sala affollata - c'ero andato, non solo per un legame
che mi stringe a un gruppo di preti, ma per l'amicizia che
mi lega a Gabriella Caramore, la conduttrice su Radiotre
di "Uomini e profeti" . Mi dava gioia il pensiero
che saremmo stati qualche ora insieme e insieme avremmo
tenuto l'incontro. Lei, nel numero, razza rara, di coloro
che esplorano terre, terre dell'anima e terre della storia,
senza nulla mai concedere all'ovvietà e alla banalità.
Mi ci portò a Lavagna Giovanni e, mentre lui inanellava
chilometri, fiutando da esperto curve e controcurve, mi
venne spontaneo indugiare con il pensiero sui tanti Giovanni
che ci "portano" ogni giorno, e non solo su un
auto, in tanti sensi. Ci portano. Così come siamo.
Senza di loro saremmo senza braccia, senza piedi, senza
mani. Loro silenziosi e ignorati. Alla fine dell'incontro,
se va bene, applaudono te, ignorano purtroppo loro.
A Lavagna l'aria, contrariamente a quella di Milano, la
mia città, era leggera. Mi passò nell'anima,
era tentazione dolce, quasi un desiderio di disertare e
trascorrere la sera, fino a notte, a contemplare il trascolorare
silenzioso della luce sul golfo del Tigullio. Lontano dalle
parole, troppe, dice una mia amica, che non reggono certo
il confronto con la magia di un braccio di mare a sera.
Ma il desiderio per grazia rientrò come ci affacciammo
alla sala. I visi erano tutt'altro che spenti. Erano come
vele in rada, le vele aperte ad annusare il vento. I visi
interrogavano. La stessa sensazione che colse Gabriella,
quando alla fine dell'incontro, le venne spontaneo mettere
a confronto l'atmosfera di quella sala laica, così
vivace, con l'atmosfera che le era toccato di vivere qualche
giorno prima, in uno spazio che più clericale non
si può, dove si presentava un libro prestigioso e
le parole sembravano rimbalzare su muri di gomma. Nell'impassibilità
totale. Nessun segno. Nessuna traccia di emozione. Impalpabili
in vesti colorate.
Perdonerete questo mio vagare per ricordi, quasi un tirare
il can per l'aia. A volte gli incontri, non sempre ci soffermiamo
a pensarlo, non sono solo gli interventi, non sono solo
le parole, sono l'aria che respiri. E sarebbe bene che come
chiesa ce lo ricordassimo.
Eravamo stati chiamati a parlare di temperanza. Una parola
fuori uso, non più in commercio. Più in commercio
il suo negativo, l'intemperanza. Perchè cancellata,
o quasi, dal linguaggio comune la parola? Forse perché
ci rimane in cuore l'immagine di una virtù diffidente,
preoccupata di contenere, di porre paletti, di imprigionare,
di contenere l'incontenibile. Forse da qui è nato
un sospetto, che ha accompagnato e ancora accompagna questa
virtù. Questa virtù e la sua declinazione
ascetica.
Una declinazione triste, fissata, senza reticenze e senza
misericordia, da Mounier in questa sua immagine di alcune
categorie di cristiani: "esseri impacciati, che non
vi guardano in faccia, che pensano e misurano il gesto al
millimetro
, eroi linfatici, vasi di noia, sacchi di
sillogismi, ombre di ombre". Péguy, trent'anni
prima, ne aveva smontato il meccanismo psicologico, scrivendo:
"perché non hanno forza di essere della natura
credono di appartenere alla grazia- per-ché non hanno
coraggio temporale credono di essere penetrati dall'eterno
- perché non possono appartenere al mondo che li
rifiuta credono di appartenere a Dio" (in Giulio Bevilacqua,
Equivoci mondo moderno e Cristo, pag. 116).
Mi sono detto che questi non potevano essere i prototipi
della temperanza secondo il vangelo, una temperanza, a mio
avviso, quella evangelica, che ci fa leggeri, e non pesanti.
Ma come avrei potuto parlare della temperanza in astratto?
Mi sono lasciato sedurre dal desiderio di un'incursione,
niente più di un'incursione. Nella vita di Gesù.
La temperanza o l'intemperanza di Gesù? Un' incursione,
una corsa dentro. Semplicemente una corsa, perché
non avevo né tempo né competenza per una riflessione
più ampia e articolata.
Temperante Gesù? Se tu lo osservi da vicino, come
succede per tanti altri aspetti della sua vita, sovverte
le categorie entro le quali abbiamo costretto le immagini
della temperanza. Per esempio, non era né asceta
né formatore di asceti. Lo era Giovanni il Battista.
Tant'è che non mancavano di fargli osservare: "Come
mai i discepoli di Giovanni digiunano, mentre i tuoi discepoli
non digiunano? (Mc 2,18). L'accusa accomunava discepoli
e maestro e Gesù la sentiva nell'aria, diceva: "È
venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve e voi dite:
è un beone e un mangione"? Sembravano dirgli,
loro gli uomini osservanti: "suvvia, desidereremmo
un maestro un po' più moderato, più temperante,
più ascetico".
Cerchiamo allora di capire. Più temperante il Battista,
meno temperante Gesù di Nazaret? Sì, se ci
si lascia abbagliare da criteri solo esteriori.
Più in profondità, ci sembra di capire che
temperanza non è questione di prontuari, non la puoi
misurare con criteri esteriori. Guardala in Gesù:
è una virtù che ti permette di non essere
dominato, di restare leggero, di non appesantirti. E che
niente, proprio niente, nemmeno il cibo o il vestito, diventi
un'ossessione, un affanno: "
non affannatevi
dunque dicendo che cosa mangeremo, che cosa berremo o che
cosa vestiremo?". A mettere in guardia dall'affanno
proprio lui che, in un giorno di sabato e di fame, difenderà
i discepoli, che raccoglieranno spighe nel campo.
La temperanza è innanzitutto dentro. È sul
crinale tra "l'occuparsi delle cose", che è
doveroso e "l'essere occupati", subire occupazione,
subire invasione, subire un dominio. Non hai più
la mente sgombra, non hai più l'anima libera. La
tua testa è altrove, sei occupato. Non sei leggero,
sei appesantito. Risultato dell'intemperanza è l'ingrassamento
che indurisce il cuore, istupidisce. Acceca.
Da questa intemperanza che fa ciechi mette in guardia il
vangelo. Ciechi su Dio. "Avete mangiato di quel pane"
dirà a rimprovero Gesù "e vi siete saziati".
Punto e basta. Non avete riconosciuto che era dono, dono
dall'alto. Ciechi su Dio, ma anche su chi ci sta accanto:
sei occupato nella testa. Il ricco epulone, intemperante,
nemmeno si accorge di Lazzaro, né della sua fame
né delle sue ferite. Si accorgono i cani.
Temperanza è avere l'aria leggera, pochi bagagli,
per avere il cammino leggero: "Il Figlio dell'uomo
non ha pietra dove posare il capo". Gesù è
contro ogni forma di sequestro. Anche contro il sequestro,
che può venire dalle cose più belle, dagli
affetti, un'intemperanza che può ridurre a tana anche
le realtà più belle e più care, la
famiglia. "Vado a salutare i miei cari" gli dirà
uno. "Lascia" risponderà. Contro la tana.
Temperanza è libertà, è non essere
occupati. E uno dei segreti è confidare in Dio. Oggi
confidiamo in Dio? Osservate le nostre strategie ecclesiastiche:
altro che due tuniche e altro che andare senza bastone,
altro che chiesa del grembiule. È il rischio dell'idolatria.
Idolatria dei palazzi e delle piazze.
Temperante Gesù, nel suo stile di vita, ma anche
nella sua missione, che non era urlo degli intemperanti,
non era la pretesa di coloro che non conoscono le misure,
fragili e deboli, dell'umanità. Lui che dava trasparenza,
nella sua missione, alla parola dei profeti che invocavano
un Messia che non spezzasse, come avrebbero voluto gli smoderati,
la canna incrinata. Lui fasciava l'incrinatura e invitava
a fasciare. Lui dava un goccio d'olio al lucignolo dalla
fiamma smorta e invitava a fare altrettanto. Lontano dalle
intemperanze ecclesiastiche che pretendono nascite senza
i teneri nove mesi di un grembo. Intemperante sì
nel gettare il seme, strano seminatore. "Guarda dove
lo getti", gli direbbero ancora oggi gli uomini della
misura. Intemperante nel gettare il seme, ma temperante
nell'attenderlo: "Il regno di Dio" diceva "è
come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli,
di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come egli
stesso non lo sa" (Mc 4,26-27).
Eppure a volte Gesù si accendeva, quasi toccassero
anche a lui momenti di intemperanza, quasi volesse fare
sacra una certa intemperanza. Quando? Quando sentiva tutta
l'urgenza di salvare Dio dalle gabbie degli uomini religiosi,
quando incrociava l'ipocrisia soprattutto quella religiosa,
il mercato sulla religione, l'ingiustizia sulla pelle dei
deboli.
Diventava, perdonate il bisticcio di parole, intemperante
con gli intemperanti. Contro gli sradicatori di zizzania,
gli uomini del sacro furore: "Vuoi che la sradichiamo?".
"Lasciate che crescano insieme fino al giorno della
mietitura" (Mt 13,28-30). E nemmeno allora sarete voi
a separare, ma gli angeli di Dio. Intemperante Gesù
contro coloro che invocavano il fuoco sul villaggio dei
samaritani che aveva negato l'ospitalità. "Ma
Gesù si voltò e li rimproverò"
(Lc 9,55).
Forse anche lui, perdonate questa mia bizzarra interpretazione,
che farebbe insorgere i biblisti d'ogni specie, si sentiva
a rischio di intemperanza e allora, perdonate la bizzarria,
raccontava parabole. Era forse uno stratagemma, perché
la sua indignazione non andasse fuori misura. Lo dava ad
intendere con parabole!
Temperante o intemperante Gesù di Nazaret? Certo
lontano dai canoni compassati e sbiaditi di una certa immagine
di temperanza. Fino a difendere, pensate, l'intemperanza
della donna del profumo, quello spreco inaudito: bruciare
in un brivido di unguento e di profumo, in pochi istanti
di ebbrezza, il valore di uno stipendio di un anno di lavoro?
Uno spreco che aveva suscitato la reazione dei moderati
della sala, dei temperanti, dei misurati. E Gesù
a difendere la donna, quasi volesse dire che l'amore conosce
smodatezze, conosce eccessi, conosce sprechi, conosce intemperanze.
E che a volte è grazia incontrare il "fuori
misura", l'unguento di nardo preziosissimo, che ti
racconta, senza possibilità di fraintendimenti, che
tu sei pensato, capito, amato da qualcuno. Ma quel profumo
intemperante, il profumo della donna, non era forse l'icona
trasparente dell'eccesso di amore che abitava lui, Gesù?
Temperanza allora non è un'ascesi gelida, che insegna
a fare a meno. A fare meno del profumo, dell'unguento, della
mani che accarezzano. Questa non è la leggerezza
del vangelo. Questa è pesantezza: pesanti sono i
discepoli, così misurati! Leggera, libera, smisurata,
per grazia intemperante, la donna dello spreco.
Chiudo gli appunti. E mi godo i visi della sala affollata.
Ora ascolto Gabriella. E mi godo l'arte rara di interrogarsi
e di interrogare.
Usciamo. Le ombre hanno dilatato a dismisura la magia della
notte. Buchiamo la notte verso Milano. Ci sono angeli che
guidano per te nella notte. E sorridono al tuo intermittente
sonnecchiare.
don
Angelo
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