Pensieri
all'inizio di un anno
(per
"Appunti di cultura e politica")
Pensieri
in libertà all'inizio di un anno. E sono a chiedermi
se è tutto così convenzionale.
A
chiedermi se fu proprio un bene che io passassi la notte
di capodanno sui testi della liturgia che avrei dovuto
commentare nella domenica che, senza dare respiro, subito
si sarebbe affacciata.
Confesso
che mi sono anche chiesto se questo mio modo di vivere
le ultime ore di un anno non fosse sintomo inequivocabile
di una vecchiaia ormai inoltrata. O se, ancora peggio,
fosse sintomo di un modo, poco o tanto, spocchioso di
guardare le cose dall'alto.
Dirò
che a questa domanda sulla convenzionalità degli
auguri e dei pensieri di inizio anno mi spingevano anche
le parole di un'amica, Chiara, che proprio in quei giorni
aveva lasciato agli amici un messaggio in cui scriveva:
"Confesso: non sono mai riuscita a vivere come festa
il 31 dicembre, né a identificare la gioia del
ricominciamento con un capo d'anno.... Mi sento, perciò,
fuori tempo e fuori dal coro. Mi pare che augurare un
buon anno, 365 giorni tutti in un mazzo, insieme, sia
un po' come raccogliere la manna più che per un
giorno alla volta, col rischio che si rifiuti di mantenersi
nutrimento vitale, che si perda... Sento il bisogno di
essere aiutata a ricominciare, a volerlo fare, con speranza,
fedeltà. giorno per giorno, giorno dopo giorno
".
Sento
che c'è qualcosa di vero nella parole di Chiara,
sento il pericolo degli auguri che non sono vero augurio,
che non sono nemmeno guardare negli occhi l'altro, che
non sono abitati da un pensiero sulla sua vita, che sono
annegati nell'indistinto che avvolge ormai il termine
"buono": "buon anno". Tu potresti
chiedermi: "Che cosa c'è per te dietro la
parola "buono""?
Ma
forse la convenzionalità attiene anche al giorno?
Perché questo giorno, si chiede Chiara, e non gli
altri 365 giorni? La domanda va a toccare il significato
della ritualità, dei riti-simbolo, quelli religiosi
e quelli civili. Hanno senso o non hanno senso? O è
forse meglio una vita senza riti, dove un giorno scorra
accanto all'altro, uguale all'altro? O possiamo invece
con un rito, che non sia spento, dare occasione di sussulto,
a ciò che, a causa dell'abitudine, tende a ingrigire?
A noi che tendiamo a ingrigire?
E
se la parola "iniziamo un anno nuovo" non la
scolorissimo del fascino che la abita, il fascino di un
inizio, di un cominciamento e ci lasciassimo in qualche
misura contagiare? E ci chiedessimo in silenzio di quali
zavorre ci vorremmo liberare, e fosse giorno di inizio
di pensieri e di passioni, certo non l'unico, riscattato
comunque dalla sua convenzionalità? Altri giorni,
tutti lo sappiamo, lungo l'anno hanno assunto il colore
della ritualità, laica o religiosa che sia. Potremmo,
mi chiedo, farne a meno, pensando per esempio che Resistenza
è ogni giorno e Pasqua è ogni giorno. O
non potrebbe essere provvidenziale per noi, tentati di
smemoratezze, disegnare nel tempo giorni che ci "costringano"
a chiederci se siamo o no oggi resistenti, contro ogni
forma di asservimento? E non dovrebbero forse tendere
a questo l le feste del 25 aprile e della Pasqua se le
loro ritualità non si fosse scolorita, se fossero
celebrate nella verità?
Ma
la domanda sugli auguri e i pensieri di inizio anno è
forse ancor più radicale, perché, al di
là delle parole che si affacciano facili alle labbra,
a molti di noi rimane il dubbio che non solo siano facili
parole, ma che siano purtroppo anche parole fragili, e
dunque parole al vento. Le mie parole che ti augurano
bene e felicità quanto potere hanno di procurarti
nel'anno bene e felicità? Forse hanno il potere
di dirti che tu sei nei miei pensieri. E io, lo confesso,
non sottovaluterei questo dono, già reale, presente
e non ipotetico in un augurio, il dono di sentirsi pensati:
tu hai un pensiero per me, io sono nei tuoi pensieri.
Ciò
non toglie che io senta fragile il mio gesto di augurarti
il bene, il mio benedirti. Forse anche per questo i credenti
chiedono all'inizio di un anno che sia Dio a benedire,
a dire bene dei suoi figli, a dire il bene per i suoi
figli. Perché il dire bene, il benedire di Dio,
non è vuota parola, ma parola efficace, parola
che crea, che suscita. Parola che fa camminare i sogni.
E
che Dio dica bene, che benedica i suoi figli e questa
terra, è già pane buono, profumo di pane
per il cammino. Perché l'aria che stiamo respirando
è come aria intrisa di maledizioni. Sembra di vivere
il vuoto della speranza. Al di là delle, fin troppo
facili, dissimulazioni ci sembra di sorprendere visi spenti,
delusi dallo spettacolo del degrado quotidiano, come rassegnati
a una realtà grigia, percepita come immodificabile,
sentita come una maledizione. Una terra maledetta, una
stagione maledetta. Che ci fa arresi. Notizia buona, che
porta fuori da questo andare a occhi bassi, a passi sconfortati,
è che Dio ancora dice bene dei suoi figli. Per
questo non sarebbe notizia buona una chiesa che dimenticasse
la benedizione, optando per parole intrise, più
o meno apertamente, di sconforto e di maledizione. Ditemi
voi che cosa ce ne faremmo di una chiesa che evocasse
maledizioni? Che ci dicesse che il nostro tempo è
un tempo maledetto? Che cosa ce ne faremmo di una chiesa
che usasse il nome di Dio per far balenare maledizioni?
I
toni cupi e risentiti hanno mai risvegliato i sogni e
le energie di qualcuno? "Voi" dice Dio "porrete
il mio nome sui figli di Israele e io li benedirò"
(Nm 6,27).
Oggi,
che l'anno si è srotolato già di qualche
giorno, mi succede di fermarmi a pensare. Chi più,
chi meno, forse tutti, sulla soglia dell'anno nuovo abbiamo
augurato alla nostra casa, alla casa dei nostri amici,
alla casa delle chiesa, alla casa del nostro paese, alla
grande casa della terra un anno "buono". Sarebbe
estremamente importante che da quelle parole di augurio
ci sentissimo impegnati, così come sarebbe bello
che sempre sentissimo la responsabilità della parole
che diciamo e dunque responsabili anche di quell'augurio,
e dunque chiamati oggi a fare tutto quello che è
nelle nostre mani perché l'anno sia buono, perché
il degrado sia allontanato, perché quanto nelle
parole abbiamo evocato come bello almeno in parte, per
la nostra parte, si realizzi.
E'
il desiderio che ho trovato nella parole di Mario Luzi,
che l'amica Chiara univa al suo messaggio:
Vorrei arrivare al varco
con pochi essenziali bagagli,
liberato da molti inutili,
inerziali pesi e zavorre
di cui l'epoca tragica e fatua
ci ha sovraccaricato, noi uomini.
E vorrei passare questa soglia
sostenuto da poche,
sostanziali acquisizioni
di scienza e di pensiero
e dalle immagini irrevocabili
per intensità e bellezza
che sono rimaste
come retaggio.
Occorre, credo, una liberazione,
una specie di rogo purificatorio
del vaniloquio
cui ci siamo abbandonati
e del quale ci siamo compiaciuti.
Il bulbo della speranza
che ora è occultato sotto il suolo
ingombro di macerie
non muoia,
in attesa di fiorire
alla prima primavera.
"Sostenuto"
scrive Mario Luzi "dalle immagini irrevocabili per
intensità e bellezza che sono rimaste come retaggio".
Non tutte le immagini hanno il dono atteso e provvidenziale
di sostenerci. Altre hanno il potere funereo di deprimerci.
Mi sono chiesto se a piegare e intristire i volti, a farli
vuoti di accensioni non sia anche lo scorrere insistente
di parole e di immagini di degrado nei nostri occhi. Quasi
assistessimo a un diluvio di distruzione e azzeramento.
Anche per questo mi ritrovo sempre più a inseguire
per sete d'anima le rare immagini irrevocabili per intensità
e bellezza che ci sono rimaste come retaggio. Vanno disseppellite.
Con tutta la nostra passione disseppellite, qualora per
disavventura le immagini del degrado le avessero soffocate
o costrette all'angolo o persino costrette all'esilio.
Mesi
fa, mi suonò come nuovo, nella versione che ne
dava, un biblista, Don Gianantonio Borgonovo, un versetto
del rotolo di Isaia. "Ascoltatemi, ascoltatemi
"
è scritto. E dunque un invito ripetuto, pressante,
urgente: "Ascoltatemi, ascoltatemi, mangiate la bellezza"
(Is 52,2).
Mi
fermai come sorpreso alla lettura. Mi sentivo nascere
dal di dentro una domanda: "Di che cosa ci nutriamo?
Di che cosa nutriamo anima e pensieri?". Mi interrogavo:
"Stiamo mangiando bellezza? Stiamo mangiando bellezza
o stiamo mangiando parole che sono scialo di squallore,
di disgusto, di degrado, di egoismi, di intolleranza,
di miopie dello spirito, di insensatezza del vivere?".
Le parole degradate ci fanno degradati, le parole della
bellezza ci fanno donne e uomini della bellezza, della
bellezza del vivere e della bellezza della terra.
Ma
nel silenzio dei pensieri e delle preghiere, sentivo anche
bussare alla porta dell'anno due altre immagini, quasi
fossero sorelle della bellezza, non potevano mancare,
chiedevano accoglienza, due immagini che hanno trovato
profumo di ospitalità non solo nelle pagine dei
libri cosiddetti sacri, ma anche in pagine di libri chiamati,
forse solo per insipienza, profani, non sacri: le immagini
del vento e del fuoco.
Augurare
vento.
Lego
l'immagine del vento allo Spirito. Non è una legatura,
frutto di fantasie o fuori le righe, è dentro la
fantasia e le righe del vangelo, l'immagine l'ha usata
Gesù: "il vento soffia dove vuole e ne senti
la voce, ma non sai di dove viene e dove va, così
è chiunque è nato dallo Spirito" (Gv
3,7).
Mi
sono chiesto dove annuso il vento? Lo annuso nella chiesa?
Forse
sono impietoso, io l'ho respirato a pieni polmoni nella
stagione del Concilio, oggi mi manca l'aria. Come se faticassi
ad annusare il vento ai piani alti. Siamo sommersi da
documenti. E sono pesanti, logorroici. Sono tomi. Li confronto
con i vangeli, quattro, poche pagine e stracolme di vento,
di profezia, ti fanno alzare la testa. Oggi i documenti
ecclesiastici vengono sfornati a gettito continuo e chi
li legge? Hanno il linguaggio degli ambienti clericali,
sono pallidi, non c'è vento.
Mi
è capitato di pregare e di scrivere in vista di
montagne:
A
ondate piene
per voglia d' amore
il vento,
disseppellendo
come da affreschi
ammalorati
luci e colori
delle case e dei boschi.
Non c'è vento
sui nostri volti smunti
nelle parole vuote
nelle liturgie senz'aria
nelle nostre vite grigie.
E sia vento, per grazia,
ondate di vento,
sui nostri volti smunti,
Signore.
Troppo
spesso soffro la sensazione di essere in una bolla, di
soffocare in una bolla, senza fessure o pertugi su ciò
che si muove nella storia, nelle problematiche delle donne
e degli uomini di oggi. Sembra di camminare su erbe di
plastica. Ma per reazione, reazione di fede e di cuore
non desisto dal credere che la nostra è terra attraversata
oggi da Gesù, il Vivente, sfiorata dal suo vento,
Nel cuore, nonostante tutto, mi sembra a volte di udire,
a sfida, la voce di una piccola inerme ma resistente sorella,
piccola sorellina speranza.. Forse per questo, venendo
un giorno da erbe grigie di incontri incolori, mi succedeva
di scrivere:
E
venendo da cenacoli chiusi
in prati d'erbe
smunte
senza refoli di vento
l'avventura dei tuoi passi
su erbe bagnate,
colorate di ignoto
da un oltre che segna
il tuo passaggio di silenzio.
Andavi per pareti di vento.
Ed io a inseguire
per acuto di nostalgia
il tuo profumo di vento.
Auguro
di vento. E augurio di fuoco.
L'immagine
del fuoco evoca talora nelle pagine della bibbia una forza
irresistibile di divoramento, di incenerimento. A consumazione
delle mille scorie. Ma talora evoca l'evento dell' amore,
che "le grandi acque non possono spegnere né
i fiumi travolgere" (Ct 8,7). Augurare fuoco, può
dunque significare augurare la bellezza dell'amore, la
bellezza della relazione, un prendersi cura a tutti i
livelli della relazione. E là dove prevale il potere
possa finalmente prevalere la relazione.
Dunque
contro la freddezza del potere, che ha contagiato nonostante
le parole di Gesù gli stessi ambiti ecclesiali.
A causa del persistere di un modello piramidale, soffriamo
la tristezza di un fatale impoverimento delle relazioni.
Prevale il ruolo, prevale l'organizzazione, disattendendo
gravemente la parola di Gesù che invitava: "Questo
è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli
altri come io ho amato voi
Io non vi ho più
chiamato servi, ma vi ho chiamato amici" (Gv 15,
12.15). Disattendendo gravemente l'altra inequivocabile
parola di Gesù che, alludendo alle forme del potere
mondano, ammoniva: "Tra voi però non così"
(Mc 10, 43). E noi a chiederci se sperimentiamo oggi nella
chiesa questa amicizia, uno stare seduti alla pari da
amici intorno alla stessa tavola, un volersi bene, un
dirsi ciò che abbiamo nel cuore, senza reticenze
né paure, un parlarsi al di là delle maschere
dei ruoli, in una parola se viviamo una vera comunione
o se colorandola di spiritualismo l'abbiamo mutata in
lontana vaghezza. Illudendoci che il futuro della chiesa
stesse più nell'esercitare potere, per di più
mercanteggiando favori dai grandi del tempo. Scriveva
anni fa Don Michele Do - e sembra di vedere i suoi occhi
indimenticabili, fatti trasparenti dalla contemplazione
delle sue montagne -:
"La
tentazione del potere. Caduta la trasparenza, che è
frutto dell'esperienza interiore, essa viene sostituita
dal potere spirituale. Un potere che si illude di supplire
il vuoto dell'esperienza spirituale (
). Non è
il potere che crea la trasparenza, al contrario, è
la trasparenza che crea il potere. È stato un giorno
di grazia quello in cui è caduto il potere temporale
della chiesa, ma giorno di grazia ancora più grande
sarà quello in cui cadrà il potere spirituale,
assai più insidioso e deleterio. Perché
la chiesa, invece che spazio e voce della libera coscienza
religiosa di fronte a tutti i Cesari, finisce per diventare
il Cesare essa stessa e al posto della grande mediazione
nasce la grande inquisizione. La tentazione della magia".
Se
avessi tutto, ma non avessi la carità, "a
nulla mi servirebbe" (1 Cor 13,3).
Sulla soglia dell'anno ci auguriamo bellezza, vento e
fuoco. Ce li auguriamo, e dunque ci impegniamo. Perché
delle parole che diciamo ci sentiamo responsabili. Davanti
a Dio cui le affidiamo e davanti alle donne e agli uomini
con cui camminiamo.
"Su
di noi sia la bellezza del nostro Dio
conferma per noi il lavoro della nostre mani
porta a termine ogni nostro lavoro" (Sal 90,17).
don Angelo