L'ACQUA,
IL CIELO, LA VOCE
Una
seduzione. Dovuta all'evangelista Luca -ma non è
il solo- che racconta dell'immersione di Gesù nelle
acque del Giordano. Seduzione di una parola, "figlio":
"tu sei mio figlio".
A sedurmi dietro la parola non solo il racconto di Luca
ma anche i figli che vedo portati in braccio in questa mia
chiesa e gli occhi dei padri e delle madri, che sembrano
dire, quasi specchiare, le parole: tu sei mio figlio.
Assemblea -per inciso- più vera, la nostra, di quelle
che prevedono per i cuccioli d'uomo uno spazio rarefatto
a parte. Figura, la nostra, del popolo di Dio così
com'è, col pianto dei bimbi.
Forse ancora più vere delle nostre le liturgie del
terzo mondo, dove nel cuore della celebrazione ci sono mamme,
le madonne d'oggi, che a pieno titolo allattano al seno
il più tenero dei figli.
Testo
amato -dicevo- questo del Battesimo del Signore, ma forse
mai rincorso nei pensieri come quest'anno. Né so
darmene una ragione: le ragioni a volte sono segrete, inconsce.
Sono arrivato perfino a pensare che fosse a motivo dei "cieli
aperti": "e mentre pregava" -è scritto-
"si aprì il cielo".
Sono mesi in cui i cieli, i nostri, sono per lo più
chiusi e comincio -lo confesso- a sentirne il peso: come
pesano i cieli chiusi!
Dopo giorni di nubi portiamo i cieli chiusi persino negli
occhi. Non ce ne avvediamo, ma gli occhi sono specchio,
di cieli interiori, sì, ma anche di cieli grigi o
splendenti delle nostre città.
Al loro lacerarsi ci viene incontro il mistero, una voce
sorprendente.
Quel
giorno -chissà se fu mattino o pieno giorno o verso
sera- all'aprirsi del cielo, al soffio misterioso dello
Spirito, su quel figlio d'uomo in viaggio da Nazaret di
Galilea "venne una voce dal cielo: tu sei mio figlio,
il mio diletto, in cui mi sono compiaciuto".
Non era il primo giorno della voce. Non è uno solo
il giorno in cui un padre e una madre, guardando la loro
creatura, dicono a parole o con gli occhi: "tu sei
il mio figlio".
Anche Dio -mi si perdoni se oso esprimermi così-
chissà quante volte, lungo la vita di quel figlio,
si sarà sentito venire alle labbra, quasi una necessità,
quelle parole. Parole mai così vere, mai così
intense, miste a un fremito delle viscere: mio figlio sei
tu. Un'esclamazione del cuore.
Antico e Nuovo Testamento lasciano tracce di questa voce.
Più volte è narrata la voce. Ma io, per contenermi
o forse anche per la suggestione che me ne viene, vorrei
indugiare su tre volte sole, tre volte della voce, tre volte
di "tu sei mio figlio".
La
prima volta fu che ancora era informe: "ancora informe
mi hanno visto i tuoi occhi" (Sl. 139, 16).
Non ancora nato. E lo Spirito, prima ancora che sulle acque,
nel grembo di una ragazza di oscuro paese: "lo Spirito
Santo scenderà su di te, su te stenderà la
sua ombra la potenza dell'Altissimo", come ali di colomba
a protezione, "colui che nascerà sarà
dunque santo e chiamato Figlio dell'Altissimo" (Lc.
1, 35).
Chiamato figlio anche nel grembo. Come succede tra noi,
che uomini e donne chiamino i figli anche nel grembo.
Nasce e Dio lo chiama figlio. Così come quando tra
noi mettono un cucciolo d'uomo, appena nato, sulle ginocchia
di un padre e di una madre. E ti vengono al cuore le parole:
tu sei mio figlio.
Così
Dio. Non so se sbaglio ma io penso che, come uno nasca,
uomo o donna che sia, chiunque sia, per Dio è un
figlio: è scritto nella sua carne.
Noi, con il Battesimo dei bambini, lo diciamo, noi lo celebriamo.
Diciamo che tu sei un figlio, figlio amato, prima ancora
che tu possa dire un "amen", prima ancora che
tu possa fare un passo nel bene o nel male.
Tu figlio amato, tu sulle ginocchia. Il cielo è aperto.
Fin da prima che il grembo sia aperto.
Vengo
al secondo giorno. In mezzo ce ne sono chissà quanti,
ma io oltrepasso. Vengo a un secondo giorno in cui a Dio
sull'uomo venuto da Nazaret di Galilea viene fatto di esclamare:
tu sei mio figlio.
Succede a un padre, a una madre, quando il figlio è
cresciuto e ti sembra arrivato là dov'era il suo
destino, o meglio là dov'era la sua vocazione, là
dov'era chiamato per quella chiamata scritta nella carne.
Al suo posto, diremmo, se la parola "posto" non
portasse con sé qualche ambiguità: ha preso
il suo posto.
E qui sta lo sconcerto. La voce del cielo dice: tu sei mio
figlio, sei al posto giusto, proprio a un figlio d'uomo
che si immerge nelle acque, nella fila dei peccatori, nel
battesimo di tutti, in questo atto di solidarietà
e di condivisione, non nella distinzione ma nell'immersione,
non nella potenza e nella superiorità, ma nella mitezza
e nell'umiltà.
Davvero è come se si aprissero i cieli. Perché,
se il Messia è questo, i cieli non sono più
minacciosi, non fanno più paura. Su quel figlio d'uomo
immerso Dio dice: tu sei mio figlio.
Vien fatto di chiederci: e quando a noi viene spontaneo
dire a uno che abbiamo generato, magari con una punta d'orgoglio:
tu sei mio figlio? quando ha fatto carriera o quando lo
vediamo immerso nella solidarietà e nella condivisione?
Qualcuno ha scritto che, sull'esempio di Gesù, nostra
vocazione resta quella di "aprire i cieli". Anelito,
anelito sommo, aver aperto nella giornata terrena i cieli
nella vita di qualcuno, togliendo la minaccia incombente,
il peso del terrore e della disperazione.
Sorvolando
ancora su altri giorni in cui Dio di certo ha detto su Gesù
di Nazaret: tu sei mio figlio -giorni scritti e giorni non
scritti, quello della trasfigurazione sul monte, per esempio-
vorrei ora indugiare su un terzo giorno, in cui al cuore
di Dio, prima ancora che alle sue labbra, venne questa esclamazione,
il giorno della risurrezione.
Il riferimento è in un passo degli Atti degli Apostoli,
dove si ricorda che in un giorno di sabato Paolo entrò
nella sinagoga di Antiochia di Pisidia.
Paolo prende la parola, ricorda la discendenza dei padri
e, in quella discendenza, Gesù di Nazaret, Gesù
un giorno immerso nel Giordano, Gesù come il compimento
della promessa fatta ai padri.
E Paolo dice: "Dio l'ha attuata, la promessa, per noi,
risuscitando Gesù, come sta scritto nel salmo secondo:
Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato".
Bellissimo. È come se Dio, risuscitando quel figlio
d'uomo, morto di croce, dicesse: sei mio figlio, io oggi
ti rigenero.
Oggi, scrivendone -sono sincero- un po' mi commuovo. Al
pensiero che, il giorno in cui morirò e arriverò
a lui, a Dio, egli mi guarderà. Sarò un pover'uomo,
pieno di dubbi, di incertezze, di fragilità. Ma lui
mi guarderà e mi dirà: Mio figlio sei tu.
Oggi ti ho generato.
don
Angelo
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