LA
PAROLA DENTRO IL TORRENTE
Perché
racconto di lui? A quindici anni dalla sua morte? Perché
non è morto. Delle cose morte non racconti. Le declami.
Fai declamazioni, fai celebrazioni, per lo più ridondanti
di enfasi. E più le cose sono morte, più le
declami. Le cose vive, le persone vive, le racconti. Di
padre David Maria Turoldo puoi solo raccontare.
Vorrei raccontare di lui a quelli che l'hanno conosciuto
e a quelli che non hanno avuto la avventura di conoscerlo.
Vorrei raccontare di lui quindici anni dopo la morte. Dopo
la morte, si fa per dire, perché dopo la morte c'è
la vita. E lui era solito dire che quelli che noi chiamiamo
morti non li divide da noi neppure lo spessore di un foglio
di carta velina. Forse è per questo che a volte mi
sembra di sentirmi sfiorato. È brezza di amicizia,
ma è anche vento impetuoso di profezia. Brezza e
vento insieme. Una senza l'altro non sarebbe David.
Di lui racconterò anche tra pochi giorni in una chiesa,
in faccia al lago e ai monti, dove fui parroco per tredici
anni. E mi prende emozione al pensiero. Tratterrò
il respiro e, dietro il rumore, spero leggero, delle mie
parole, mi incanterò ad ascoltare il gorgogliare
dell'acqua del torrente che scorre poco sotto la chiesa,
sottofondo musicale inimitabile, che racconta a chi va salmodiando
lo scorrere della vita. Ascolta la Parola e ascolta la vita.
La Parola dentro il torrente, dentro il fluire della vita.
Della vita e della storia.
Forse per questo, o anche per questo, sedotto da padre David.
Seduzione di lungo corso, seduzione patita e mai dissolta,
patita dagli anni ormai lontanissimi, quelli acerbi inquieti
ma sognanti, dell'adolescenza. Sedotto da poesie, le sue,
lette di nascosto, preso da incantamento per un religioso,
un servita, che nei suoi versi raccontava il mistero di
Dio dentro il torrente. Dentro il torrente della vita. Raccontava
Dio nel pane che profuma, nel vino che è sangue,
nelle mani che accarezzano il volto, nell'ogiva, fessura
d'infinito, di un'abside. Uomo. Di Dio, certo. Ma uomo.
Lontanissimo dai volti smunti di astratte pallide religiosità.
Aveva il colore forte della sua terra, il Friuli, che l'aveva
generato. Colore che gli è rimasto per una vita impigliato
al volto, non l'avrebbe mai più abbandonato. Colore
forte, che ci succedeva di contemplare, ed era affascinamento,
nei suoi amici, quelli di lunga data, non quelli dell'ora
del funerale, amici per interessata appropriazione. I suoi
amici veri: Camillo, Abramo, Ernesto, uomini di Dio che
non erano, non sono, no, larve, avevano e hanno un colore.
Lui e i suoi amici, uomini di indipendenza. Dentro il torrente,
ma dalla parte dei resistenti, dalla parte dei ribelli per
amore. Dai giorni del vento sferzante della resistenza sino
ai giorni estremi del volto smagrito dall'urlo del male,
David, uomo in rivolta, "rivolta dello spirito, contro
le perfidie e gli interessi dominanti, contro la sordità
delle masse". Parole che prese a prestito nella sua
opera "salmodia della speranza", le parole di
una preghiera di "ribelli per amore". Parole prese
a prestito, appropriazione sacra.
Frequentandolo ci successe così di scoprire, giorno
dopo giorno, dove fosse l'in principio della sua indomita
indipendenza. Era Dio, non si inginocchiava a nessun altro
signore. Lui, l'unico Signore, fonte di libere vite, la
ragione ultima di quella ribellione. Lui e il Libro.
Ricordo come fosse oggi, e sono passati trent'anni, il tavolo,
il grande tavolo, nell'abbazia e le grandi mani di David
e la Bibbia, il grande Libro. Senza quel Libro, senza quella
Parola, sarebbe inspiegabile, sarebbe senza cifra, ogni
angolo della sua vita. Per questo io devo una gratitudine
infinita a una parrocchiana amica, che qualche anno fa mi
fece regalo di un quadro che ritrae con un'intensità
potente Padre David: nelle sue mani grandi il Libro, e gli
occhi con un guizzo di furbizia, la sua furbizia. Ancora
una volta a interrogarti. Col Libro. A interrogare la vita.
Perché il Libro lui lo leggeva nella vita. Sulla
piazza.
Anche per questo la memoria mi andò a lui, quando,
pochi giorni fa, in una domenica di gennaio, la liturgia
ci fece leggere un brano del libro di Neemia, in cui si
parlava di una convocazione del popolo di Dio, "sulla
piazza, davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della
luce fino a mezzogiorno". Mi colpì il luogo
della convocazione di quel popolo, tornato da poco dall'esilio:
un luogo laico, la piazza, la porta delle acque e un tempo
lungo, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno. E nel
cuore di quel popolo, ci è facile immaginarlo, un
desiderio di ricominciare, una passione di ricostruire.
Un desiderio di ricominciare e una passione di ricostruire
simili a quelle, io penso, che fecero sussultare il cuore
di David e di molti di noi nei giorni della liberazione.
Da dove si comincia? Che cosa è al centro di quella
convocazione? "Tutto il popolo porgeva orecchio a sentire
il libro." Il popolo e il libro. Al centro non un arruffapopoli,
ecco la differenza, un libro. E, impressionante, l'ascolto
di una piazza. Sulla piazza, davanti alla porta delle acque
ci fu ascolto, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno.
Ci fu silenzio, ci fu ascolto, ma ci fu anche il coraggio,
lo chiamo "coraggio", di mettere in discussione
se stessi. Era un popolo capace di mettere in discussione
se stesso, il suo passato, capace di riconoscere le cause
della stagione drammatica e avvilente che aveva patito.
Il libro, al centro della piazza, entra nella vita, entra
nelle case, come sembra suggerire il luogo laico in cui
il libro viene letto a un popolo. Non c'è un sequestro
ecclesiastico.
David liberò la Parola, il Libro da ogni sequestro
ecclesiastico. La fece vibrare nella vita. Sulla piazza.
E proprio perché entrava nella vita, la sua non era
una parola neutra: il vangelo non è né pallido
né evanescente. Ha forma, ha colore. Per questo la
predicazione di David, segnata da passione accesa per Dio,
per il popolo, per gli ultimi della terra, non poteva non
suscitare come ogni parola profetica consensi e ripudi,
accoglienza e ostilità. Dentro e fuori la chiesa.
Dentro la chiesa e dentro la società.
Gli capitava di raccontare come, nei giorni della dittatura,
dopo un'omelia che ne denunciava la brutalità e l'arroganza,
era stato fatto fuggire di nascosto per una porta non ancora
sorvegliata. Così come gli capitava di raccontare,
un poco divertito, quanto era capitato in Duomo dopo una
sua omelia sul ricco epulone, quando la "buona"
borghesia milanese, insofferente per il tono acceso di quella
predicazione, si era fatta sentire con vibrate proteste
presso il Cardinale. Il Cardinale Schuster, che amava quel
giovane frate servita, lo chiamò a rapporto chiedendo
che cosa mai di tanto provocatorio avesse detto in quella
domenica. David passò i fogli dell'omelia al Cardinale.
Immaginando possibili reazioni, una volta tanto si era sentito
in dovere di scrivere punto per punto quanto avrebbe detto.
Il Cardinale prese i fogli, lui finissimo studioso di Padri
della Chiesa, lesse attentamente, fissò negli occhi
quel frate in attesa: "Ma questa" gli disse "non
è farina del tuo sacco. Questa è pura trascrizione
da un trattato di S. Ambrogio. Un'altra volta cita la fonte,
David. E non ci saranno reazioni, nessuno potrà dire
più niente".
A tanto, e non solo ieri, siamo arrivati: che possiamo leggere
pagine delle Scritture Sacre o pagine dei Padri, solo citando
la fonte. Se non si avesse l'avvertenza di citarla, potremmo
anche passare per rivoluzionari. Le parole del vangelo che
suonano sulla piazza come innovazione, ovattate da nubi
d'incenso finiscono a volte per stemperarsi nelle chiese
in un dolce innocuo addomesticamento.
Non così per padre David che fece risuonare la Parola,
senza cedimenti: doveva, per fedeltà, risuonare con
il suo colore e la sua forza. E, a volte, era ruggito di
leone.
Doveva risuonare, ed era ruggito di leone, in difesa degli
ultimi. Gli ultimi, una categoria dell'umanità, che
ebbe, dobbiamo riconoscerlo, un posto di privilegio, terra
sacra, nella vita di David, gli ultimi di ogni terra e di
ogni condizione sociale, gli ultimi che Gesù difese
a costo di morte, restituendo loro quella dignità
di cui spesso vengono spudoratamente espropriati. Gli ultimi,
i dimenticati, volti cancellati, inghiottiti nelle nebbie
della nostra dilagante indifferenza.
Lui, per passione fremente, per fedeltà senza sconti,
gli ultimi li volle da dietro le quinte, dove l'ingiustizia
li va confinando, sul proscenio del palco o, forse meglio,
sul lucerniere. A splendere nella casa di questa umanità.
E furono nomi di terre, ultime. E furono nomi di donne e
di uomini, ultimi. Furono, fino a pagarne il prezzo, le
sue battaglie. Battaglie di passione, per debito di fede
e per debito d'amore.
E così, avventura stupefacente, la Salmodia di David,
per mirabile congiungimento, legava il nome di Dio e il
nome degli ultimi della terra, quelli di cui i nostri reliquiari
sacri gridano l'assenza, assordante silenzio! Quelli lui
mise sugli altari, nomi sacri, nel canto forte e tenero
della sua Salmodia. Perché ognuno fissandoli avesse
un sussulto di libertà e riprendesse a sperare.
"Salmodia della speranza": è il titolo
di un suo testo teatrale sulla Resistenza. Anche questo
un paradosso della sua vita, lui uomo dei paradossi. Paradosso
fu che lui, immerso come pochi nei drammi della terra, nello
strazio degli ultimi, ritrovasse fede e coraggio per cantare
la speranza. Una parola molto antica gli sussurrava al cuore
che i martiri di ieri e di oggi, se non se ne perde la memoria,
sono seme nella terra. Una terra che non va, per disperazione,
abbandonata.
Il padre, fatto orfano di sette figli nei giorni della resistenza,
ritorna alla terra:
Un uomo è ritornato ai campi deserti:
una croce di ossa a sorreggere sette cuori.
Aveva sette figli. Tutti ammazzati.
Ghirlande di spine gli era la vecchia madre.
E le nuore e i bimbi fiorivano
come novelle gocce di sangue
giù per il suo corpo esangue.
Raggiustò la casa,
ricongiunse le strade interrotte,
e innalzò nuovi alberi nelle grandi fosse,
e riprese l'aratro e ritornò ai campi.
"A raccolto distrutto,
uno nuovo se ne prepari" disse!
don
Angelo
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