DISSEPPELLIRE
DIO NEI CUORI DEVASTATI
"E poiché hanno seminato vento
raccoglieranno tempesta.
Il loro grano sarà senza spiga,
se germoglia non darà farina" (Os. 8, 7).
Leggo i giornali, sento i commenti, ascolto i discorsi della
gente. Mi ritornano le parole. Le parole sono di un profeta,
Osea. Secolo ottavo avanti Cristo. Ma sono, a mio avviso,
la cifra inquietante di ciò che sta accadendo.
Non stiamo forse raccogliendo tempesta? L'interrogazione
è sulle labbra della gente comune, preoccupata come
tutti per questa deriva allucinante del progresso umano:
il buco d'ozono nei cieli, la carne avvelenata, le acque
inquinate, l'uranio impoverito, le isole assediate da scarichi
mortiferi. Ma forse è solo la punta di un iceberg;
c'è un sommerso che sfugge e la sua invisibilità
accende ancor più fantasmi. Fantasmi e paure nel
nostro immaginario e nel cuore.
È
come se assistessimo, impauriti e impotenti, a un'opera
di "de-creazione". Dio ha creato il giardino,
noi decreiamo riducendolo poco a poco a deserto. La desertificazione
in atto della terra, in controtendenza sull'opera di Dio,
che è un operare per la vita. E noi? Nel rischio
di operare per la morte.
Ce lo confidavamo sere fa, leggendo il libro di Geremia:
"Guardo la terra, caos informe! Il cielo, senza luce
/ guardo i monti, tremano; le colline traballano;
/ guardo: niente uomini; gli uccelli del cielo, volati via;
/ guardo: il giardino è un deserto, i paesi rasi
al suolo" (Ger.4,23-26).
Stiamo raccogliendo tempesta?
Ciò
che manca oggi forse è un sussulto di profezia, un
profeta che tolga il velo e smascheri le radici del male:
avete seminato il vento!
Dov'è il male oscuro? Quale vento abbiamo seminato?
"Due iniquità ha commesso il mio popolo:
abbandonarono me, fonte d'acqua viva
e si scavarono cisterne, cisterne screpolate
che non trattengono l'acqua" (Ger.2,13).
Non sarà questo il momento in cui dare nome alle
cisterne screpolate, le cisterne cui ci siamo affidati sostituendole
alla fonte d'acqua viva, le cisterne che ci lasciano ora
a fissare con sgomento un deserto sulla terra, un vuoto
nel cuore?
All'adorazione
del vero Dio, sorgente di acqua viva, abbiamo sostituito
l'idolatria del denaro, del potere, del successo, dell'immagine,
senza accorgerci che lì abitava una forza di morte.
Questo il vento che abbiamo seminato. A lungo, per troppo
tempo seminato. E ora raccogliamo tempesta.
Purtroppo, per una schizofrenia inimmaginabile, succede
che oggi ad alzare lamento per la tempesta siano paradossalmente
i corifei del vento, quelli che adorano gli idoli vuoti,
le maschere del tempo, e le fanno luccicare agli occhi di
tutti per vile interesse, gli uomini e le donne di corte
in adorazione del dio denaro, del dio successo, del dio
potere, del dio immagine.
Si combattono mulini a vento agitando spauracchi vuoti e
non si dà nome a ciò che "decrea",
a ciò che fa avanzare nell'anima e sulla terra il
deserto.
Come reagire - questa la domanda - al male, alle forze che
portano morte sulla terra? Come reagire quando le stesse
chiese sembrano sedotte dal fascino morto degli idoli vuoti?
Forse
è venuta l'ora di uscire, da un lato, dalla rassegnazione
che spegne il coraggio di innovare e, dall'altro, dalla
illusione devota di chi pensa che oggi basti rimettersi
a frequentare il tempio, riducendo la fede a pura frequentazione.
Forse occorre capire che oggi bisogna rimettersi a frequentare
la vita, la storia, con la memoria di Gesù viva,
non spenta. nei nostri occhi. Senza cedere all'inganno di
coloro che seminano vento.
Forse è tempo che ci ridestiamo tutti dal sonno.
Che ognuno di noi si prenda, per quanto gli compete la sua
responsabilità: nella famiglia, nella città,
nel paese, nella chiesa, nel mondo.
Ci rimane, nonostante tutto, in cuore qualche suggestione
del vangelo e, in forza di quella, la capacità critica
di intravedere se i modelli che stiamo perseguendo siano
o no in sintonia con il Gesù dei vangeli, un Gesù
mite, umile, povero, un Gesù segno della compassione
di Dio, un Gesù che scopre la fede nei lontani, un
Gesù che, su quelli che per la religione, per la
società non contano, dice: voi contate, contate per
Dio.
La
grande tradizione della Bibbia ci ha insegnato che tocca
a Dio portare a compimento l'opera della mani dell'uomo.
Ma, affermando questo, ci ha pure insegnato che le nostre
mani contano, che il giardino Dio l'ha affidato all'opera
della mani dell'uomo e della donna.
C'è una responsabilità dunque da riprendere
in mano con gioia ogni mattina. La responsabilità
del giardino, la responsabilità di quell'angolo di
mondo che oggi ci viene affidato.
Poter dire ogni mattina, ma con passione: "Io ricomincio".
Nonostante gli anni, nonostante le disillusioni, nonostante
la pesantezza delle istituzioni, anche religiose.
"Io ricomincio", chiedendo a Dio l'intensità,
la freschezza, la voglia che abitano la parola: "io
ricomincio".
Ricomincio per l'angolo di giardino che mi è affidato,
per la misura che mi è consentita, lontano dalla
frustrazione di chi si illudeva di cambiare il mondo, il
mondo nella sua interezza.
A Nadia Neri don Lorenzo Milani, con disincanto ma senza
pessimismi, scriveva: "Non si può amare tutti
gli uomini. Si può amare una classe sola (e questo
l'hai capito anche te). Ma non si può nemmeno amare
tutta una classe sociale se non potenzialmente. Difatti
si può amare solo un numero di persone limitato,
forse qualche decina, forse qualche centinaio. E siccome
l'esperienza ci dice che è possibile solo questo,
mi pare evidente che Dio non ci chieda di più".
Le
mani di Dio dunque. Ma anche le nostre mani.
Paradossalmente -come scrive Etty Hillesum- chiamati ad
"aiutare Dio". Compito dell'uomo e della donna:
aiutare Dio. E così Etty Hillesum, giovane ebrea
olandese, testimone e vittima del Lager, capovolge millenarie
impostazioni teologiche, che riservano solo a Dio il compito
di aiutare.
Tocca anche a noi, ogni giorno ridestandoci, aiutare Dio,
perché non venga distrutto, ma si salvi, un pezzo
di lui in noi stessi e nel mondo.
Così Etty in una pagina intensa, indimenticabile
del suo diario:
"Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per
la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi
bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini
di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una
piccola cosa: cercherò di non appesantire l'oggi
con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani -ma anche
questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già
la sua parte. Cercherò di aiutarti affinchè
tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso
promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre
più evidente per me, e cioè che tu non puoi
aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo
modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare
di questi tempi, è anche l'unica che veramente conti,
è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio.
E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai
cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra
che tu non possa far molto per modificare le circostanze
attuali ma anch'esse fanno parte di questa vita. Io non
chiamo in causa la tua responsabilità, più
tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a
ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non
puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino
all'ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all'ultimo
momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri,
forchette e cucchiai d'argento, invece di salvare te, mio
Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici
ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a
tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi
prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle
grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio
a sentirmi un po' più tranquilla, mio Dio, dopo questa
conversazione con te. Discorrerò con te molto spesso,
d'ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi.
Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente
alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò
a lavorare per te e ad esserti fedele e non ti caccerò
via dal mio territorio" (Diario 1941-1943, pagg. 169-170).
don
Angelo
|