LA
FRAGILITĄ DI GESŁ
per la rivista Esodo 2013
Alle
orecchie dei devoti, dei troppo devoti, può sembrare
pericoloso o addirittura dissacrante parlare di una "fragilità"
di Gesù. Quasi fosse attentato devastante alla
sua divinità. Ma saremmo falsamente devoti al mistero
che abita Gesù se, allontanando sdegnosamente da
lui ogni ombra di fragilità, finissimo per cancellarne
ogni ombra di vera umanità. E dovremo forse chiamare
ombra la fragilità di Gesù? O non appartiene
forse alla nostra natura l'essere fragili?
Ci
sono fragilità nella nostra natura che vanno, se
pur faticosamente, superate, ce ne sono altre che vanno
semplicemente riconosciute. In sincerità. In sincerità
verso Dio e verso se stessi.
Questo
mio discutibile dire in modo rapsodico di Gesù
e della sua fragilità va per accensioni che nascono
dalle pagine dei vangeli. Il mio dire non ha dunque la
pretesa delle sintesi teologiche, segue domande e provocazioni
che si rincorrono perdutamente nelle pagine e poi nel
cuore di un lettore comune del vangelo. Pensieri in attesa
di altri pensieri.
Nato
da donna, scrive Paolo. Da un grembo di donna. Fragile
quel cucciolo d'uomo, fragile il grembo, come tutti i
grembi di donna. Sgusciò in un contesto di fragilità,
una lampada fioca in mano a Giuseppe, forse l'altra mano
- sto immaginando - a stringere tenera quella di Maria,
a darle spinta di forza nel travaglio del parto. Fragile,
inerme il bimbo, in bisogno di fasce, di fasce e di latte,
quello della madre. Nato da donna. Donna che lo introdusse,
mettendolo alla luce, nel territorio della fragilità.
Lo
introdusse così nella fragilità del corpo.
Che lui accusava come tutti noi. Accusava stanchezza a
tal punto da prendere sonno, e profondo, sulla barca nella
traversata in piena notte del lago e nemmeno la bufera
delle onde a svegliarlo. Accusava stanchezza e pure sete.
Quel mezzogiorno in una delle sue traversate di regione
sentì morso di sete, seduto stanco a un pozzo di
Samaria chiese da bere a una donna in cerca di pozzi.
Come tutti noi non risparmiato dalla fame, lo annotano
gli evangeli: era mattino di inizio aprile, il giorno
prima era entrato a dorso di puledro in Gerusalemme, quel
mattino mentre usciva da Betania ebbe fame, ma il fico
cui erano andati i suoi occhi aveva bellezza di forme
ma vuoto di frutti. Ci rimase male.
A
volte poi non gli reggevano proprio le forze fisiche,
se ne accorsero quel giorno, poco fuori il pretorio, quando
costrinsero un uomo di Cirene a portare dietro lui la
sua croce.
Direi, approfondendo, come tutti noi fragile nel territorio
dei sentimenti.
Non
era roccia immobile, nè quercia con fronde impassibili
a urli di bufere. Non tetragono come quelli che sbandierano
indifferenza agli assalti della vita, pagò lungo
i suoi giorni debiti di fragilità, come succede
a ciascuno di noi.
A
volte a scuoterlo, ad amareggiarlo sino a farlo impetuosamente
dolorosamente sbottare senza quasi più contenersi,
era la nostra avvilente ottusità: "O generazione
incredula! Fino a quando sarò con voi, fino a quando
dovrò sopportarvi?".
Certo
non si preoccupava di trattenere se stesso in sequestro
assoluto dei sentimenti, quel sequestro che in taluni
uomini di spirito sembra a volte, o spesso, sfiorare l'impassibilità.
Non preoccupato di guardarsi dall'accensione dello sdegno,
né di guardarsi, se è debolezza, dall'accensione
improvvisa dei sogni. E, se cedere ad accensioni rimane
nella mente di qualcuno sintomo di fragilità, Gesù
proprio non mise in atto nessun esercizio per sfuggirla.
La
sua predicazione senza diplomazie, soprattutto verso le
autorità religiose, conobbe i toni aspri e ruvidi,
quasi impietosi, senza nascondimenti e senza contenimento,
con l'esito di opposizioni altrettanto dure, violente,
segnali per lui di una morte annunciata. Accadde anche
che qualche volta i discepoli stessi lo invitassero a
moderare i toni. Ma lui resistente a ogni invito che suonasse
cedimento a calcoli umani. Gli interessava Dio, gli interessava
la difesa a tutto campo della dignità di noi umani.
Schiettezza senza moderazione a prova di morte.
Lo
consumava, senza moderazioni di sorta, zelo per la casa
di Dio , per il vero volto di Dio e dell'uomo. E tutti
noi a ricordare ciò che avvenne nell'avvicinarsi
di quella pasqua. Un gesto voluto. Giovanni annota il
particolare di Gesù che annoda le cordicelle per
farne una sferza: "fatta allora una sferza di cordicelle...".
Consumato dallo zelo, cacciò tutti fuori dal tempio,
con le pecore e i buoi. E non si limitò, non si
contenne, non gli bastarono le parole: "Gettò
a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò
i banchi e ai venditori di colombe disse: Portate via
queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo
di mercato". Fragile davanti alle emozioni?
Lontano
anche dall'ideale dell'uomo di spirito che ha in somma
cura l'arte di sorvegliarsi, allontanandosi da ogni forma
di eccesso persino nei sogni. Per fedeltà spenta
al reale. Non è forse vero che un giorno i discepoli,
di ritorno da una compera di cibo nel villaggio più
vicino, lo trovarono a parlare con la donna di Samaria,
così preso dall'acqua, che la sua parola aveva
disseppellito dal cuore della donna, da abbandonarsi a
visioni di sogno? Lui in quel sole caldo li invitò
sorprendendoli a contemplare campi biondeggianti di grano
in anticipo di mesi. Quanti maestri dello spirito gli
avrebbero gridato di guardarsi da quelle farneticanti
esaltazioni invocando un minimo di moderazione!
I
vangeli, a differenza di quello che avremmo fatto noi
perché non apparissero in lui ombre di "debolezza",
non nascondono, non censurano, anzi raccontano senza esitazioni
di sorta i suoi turbamenti.
Un
turbamento sino al pianto. Non stava certo nella figura
dell'uomo forte, quello che non si scompone, che tiene
alto il suo profilo in ogni evenienza. Turbato sino al
pianto, narra il vangelo. Pianto per morte di un amico.
Né si preoccupò di nascondere quella che
alcuni ancora chiamano fragilità e debolezza. Apertamente.
Tutti lo videro, tutti a dare testimonianza di quanto
lui amasse Lazzaro.
La
fragilità dell'anima turbata. C'è chi non
si lascia mai turbare nell'anima, imperturbabile, c'è
chi nasconde il suo turbamento. C'è chi come Gesù
il turbamento lo patisce straziante ruvido sulla pelle
scorticata, sente il cuore tremare e lo confessa senza
falsi pudori.
Non
ho titolo accademici per confortare una tesi, ma mi ha
sempre colpito un confronto tra il racconto delle tentazioni
subite da Gesù nei quaranta giorni passati nel
deserto e il racconto delle tentazioni subite da Gesù
durante la sua esistenza e in modo particolare nell'ultimo
scorcio della sua vita. Il racconto del deserto sembra,
mi si perdoni, cancellare ogni figura di fragilità.
Mi sono chiesto se gli evangelisti volendo raccontare
la vittoria sulla tentazione non abbiano calcato sulla
libertà estrema luminosa del Rabbi di Nazaret che
sfugge, ed è affascinante, ad ogni sequestro e
imprigionamento. Mi sono chiesto se gli evangelisti nell'intento
di raccontarci l'atto estremo, quello conclusivo, vittorioso
delle tentazioni non siano nelle stesso tempo incappati
nella necessità, forse non voluta, di sottacere
il percorso psicologico e il travaglio che segnarono anche
duramente corpo mente e cuore del Signore nel cammino
verso un simile atto di libertà e di amore, estremi!
Stando al racconto dei vangeli non potremmo certo dire
che Gesù le scelte, soprattutto quelle estreme,
le abbia affrontate con animo spavaldo, bensì pagando
alla fragilità umana un caro prezzo. Scelta a caro
prezzo dentro un debito di confessata riconosciuta debolezza.
Dentro un debito di vero, non finto turbamento.
Il
pensiero mi corre a un giorno che per Gesù già
odorava di passione, passione estrema. Vicina era la Pasqua.
Tra quelli saliti per il culto c'erano anche dei Greci.
Forse non giudei? O forse proseliti? Non sappiamo. Comunque
non gente del recinto, non appartengono al recinto d'Israele.
Si sentono attratti da un desiderio. Di vedere Gesù:
"Signore, vogliamo vedere Gesù" dicono
a Filippo. Quelli vogliono vedere Gesù. E non sono
del recinto. E allora Filippo prende con sé Andrea,
vanno in due a parlarne a Gesù. Ma lui risponde
in modo enigmatico. Risponde: "E' giunta l'ora che
sia glorificato il Figlio dell'uomo". Trono della
gloria per lui è la croce. La croce per lui il
luogo - è paradossale dirlo - della massima attrazione:
"quando sarò elevato da terra, attirerò
tutti a me". E' come se Gesù pensasse: arrivano
anche i pagani? Anche loro attratti? Ma allora è
vicina l'ora della croce, l'ora della attrazione che di
più non si può. Che cosa vedrà quel
gruppo di Greci? Vedranno un chicco di grano cadere nella
terra. Gesù ha davanti agli occhi la vicenda del
chicco di grano. Ebbene l'ora della sua morte non la affronta
in modo spavaldo, come fosse un passaggio naturale. No,
anche lui turbato. Turbato da questi greci che con la
loro presenza gli ricordano che l'ora della discesa nella
terra è vicina. E Gesù si svela, si svela
nel suo turbamento, nella sua fragilità. Non è
come noi che ipocritamente, per falsa immagine di spiritualità,
vogliamo esibire una fede senza turbamenti. Lui dice:
"Ora l'anima mia è turbata". E sarebbe
anche tentato di allontanare quell'ora.
Aggiunge:
"E che devo dire allora? Padre, salvami da quest'ora?
Ma per questo sono giunto a quest'ora. Padre, glorifica
il tuo Figlio". Gesù non chiede di essere
risparmiato, ma di essere glorificato. Il legno diventerà
il luogo della gloria. Accoglie la sua ora, ma dopo aver
attraversato senza sconti il mare del turbamento dell'anima,
il mare della sua fragilità.
Ebbene
per uno come me che cerca, da povero cristiano, di spiare
Gesù e la sua vita, per lasciarsene in qualche
misura contagiare, è fonte di non povera consolazione
il fatto che Gesù stesso nel suo cammino verso
la croce abbia conosciuto fragilità e turbamento.
Lo confesso, me lo sarei sentito meno vicino, meno compagno
del viaggio, se non ne avesse spartito con me il turbamento,
se verso la morte fosse andato con passo spavaldo, da
eroe, il forte cui non trema il cuore.
Leggo
nei vangeli che, nell'orto, in vigilia di morte "cominciò
a spaventarsi e a sentire angoscia". Confessò
tristezza: "Ora - disse - l'anima mia è triste
fino alla morte". E gli ulivi lo videro sudare sangue
di morte.
Messia
chino sulle debolezze degli umani, abitò la nostra
esistenza, una fragile tenda, un telo di vento. Abitò
la nostra fragile carne.
Superò
la fragilità, anche quella estrema, oserei dire,
con un nome che si affaccia, costantemente, connessione
intrigante, nell'ora della debolezza: "Padre".
"Padre" nell'ora dell'arrivo dei greci: "Ora
l'anima mia è turbata. Che devo dire? Padre salvami
da quest'ora? Padre, glorifica il tuo Figlio". "Padre"
ancora nella notte degli ulivi: "Padre, se vuoi allontana
da me questo calice: tuttavia non sia fatta la mia ma
la tua volontà". "Padre" nell'ora
della croce dopo l'urlo che ferì il cielo, "Dio
mio Dio mio, perché mi hai abbandonato", urlo,
estrema fragilità. Dopo l'urlo l'invocazione struggente,
pure grido a gran voce: "Padre, nelle tue mani consegno
il mio spirito". Una fragilità consegnata
alla preghiera, sollevata dalla fiducia in un Padre che
non abbandona nel grido i suoi figli.
Ci
emoziona nella preghiera di Gesù quel perseverare,
nonostante tutto, a dare a Dio il nome di Padre, con una
confidenza che ci rabbrividisce: "Abbà!".
Ci rabbrividisce, e ci insegna una immagine più
autentica di preghiera. Dentro un dilemma: pregare perché
ci siano risparmiati i passaggi faticosi, le tempeste
della vita o pregare perché non veniamo meno, perché
non ci sentiamo soli e abbandonati nell'attraversamento?
Come ci fa pregare il salmo: "Anche se vado per valle
oscura, non temo alcun male, perché tu sei con
me" (Sal 23,4).
Nella
fragilità, a sostegno, Gesù cercò
il volto di Dio. Dobbiamo però, per debito di verità,
aggiungere che nel momento della fragilità lui
cercò anche volti di amici, senza minimamente velare
questo suo bisogno profondo di vicinanze anche umane.
Mendicante di amicizie e di affetti.
Il
racconto del giardino narra quel suo andare in cerca degli
amici e la desolazione di trovarli addormentati, quasi
non ci fossero. Per tre volte disegnati nel racconto quei
passi in ricerca, per tre volte raccontata la delusione:
"Venne e li trovò addormentati
venne
di nuovo e li trovò addormentati
venne per
la terza volta e disse loro: Dormite pure e riposatevi.
Basta! E' venuta l'ora: ecco il Figlio di dell'uomo viene
consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo".
Una
fragilità la sua, come la nostra che anela ad essere
riconosciuta e sollevata da chi ti ama. I vangeli ci raccontano
di Gesù che, nei primi giorni della settimana che
vide la sua passione e la sua morte, cercava rifugio,
rifugio del cuore, passando le sere e le notti a Betania,
in casa di amici. Aperta la porta per l'amico, l'amico
che sentiva la pressione, ormai vicina, delle croce.
E
non fu proprio a Betania che all'inizio di quella settimana
che si preannunciava decisiva, decisiva di morte, per
Gesù, una donna amica, Maria, in quella cena si
accorse, lei sola, del segreto che pesava sul cuore del
suo amico e maestro, ora che il cappio stava per soffocarlo
una volta per sempre? E lei a ungerlo e a profumarlo con
un profumo che fece gridare tutti per l'eccesso di uno
spreco! E Gesù, a fronte dei discepoli così
lontani dal capire che cosa gli passasse nel cuore, a
difenderla: lei era arrivata, con gli occhi di chi ama,
a intravedere, a capire, ad accogliere un bisogno segreto
del cuore.
Dono,
per chi attraversa il buio della fragilità, la
luce che pulsa dal volto di un amico, di una amica. Dono
inestimabile è avere al fianco uno che ti legga
nel cuore, uno che vegli sulla tua angoscia, consapevole
di non potertela purtroppo cancellare, ma pronto a portarla
con te. Gesù sembra raccontare la improponibilità
di una fede, in forza della quale presuntuosamente si
arrivi a dichiarare che basta Dio a noi stessi.
Cercò il volto del Padre, cercò il volto
degli amici.
Angelo Casati