Mangiare
la bellezza
ovvero
la paura dell'insicurezza
Fu
un bussare. Così ogni mese, all'inizio di ogni
mese. Un bussare alla mia porta per un articolo su questa
rivista. E ora che sento bussare per l'ultima volta, mi
viene spontaneo ripercorrere nel ricordo questo mio divagare
nei territori delle nostre paure, pensieri segnati da
parzialità, dalla mia parzialità. Fu come
se ogni mese il mio secchio usurato e fessurato, tra cigolii
di carrucola, avesse osato discesa nel buio del pozzo,
per poi risalire con un fiato d'acqua, piccolo fiato d'acqua.
Ma mi sosteneva, a speranza, la certezza che chi mi avrebbe
letto, con il suo secchio avrebbe portato alla luce una
misura più colma e si sarebbe fatta assemblea delle
acque, delle nostre acque. Che non sono certo spinta impetuosa
di fiume, ma chiacchiericcio di torrente.
A
muovermi per l'ultima riflessione è un episodio
di cronaca che, pur riguardando questa mia città,
ha trovato spazio, per l'assurda violenza che lo connotava,
su tutti i quotidiani nazionali: un taxista della nostra
città, assalito da un branco con brutalità
sconcertante, semplicemente per avere investito un cane.
E noi, noi tutti a portare vergogna per una appartenenza,
l'appartenenza a una città che ha la spudoratezza
di chiamarsi civile, città in odore di Expo!
Ma
a tanta brutalità quale rimedio? Abbiamo sentito
le autorità, che sono al governo di questa nostra
città, dichiarare con molta enfasi che a rimedio,
per sconfitta della violenza, si sarebbero installate
nel giro di poco tempo telecamere su tutti i taxi in servizio
nella città.
Per
un attimo nel mio immaginario prendeva visione, quasi
venisse alla luce della ribalta, l'immagine di una città
grigia che si andava affollando di telecamere: a ogni
angolo una telecamera, ad ogni strada una telecamera,
ad ogni incrocio una telecamera, ad ogni fiato di respiro
una telecamera, a ogni sputo una telecamera. Una città
di spiati, di sorvegliati rimedio e scudo alle nostre
paure e alle nostre insicurezze. La sicurezza della città
demandata dunque a un oggetto esterno, infallibile nei
suoi effetti. C'era da stropicciarsi gli occhi, quasi
stralunati. E molti di noi a chiedersi come mai una simile
geniale pensata non avesse fatto capolino prima d'allora
nelle menti di qualcuno dei molti governanti della nostra
città: moltiplichiamo le telecamere.
Ma
non era questa, a ben vedere, che una delle derive di
un modo di pensare. O di non pensare? Non è forse
vero che da mesi e mesi, forse anni, si va immaginando
di dare sicurezza alle nostre città con pattugliamenti
della polizia o con perlustrazioni di ronde di cosiddetti
vigilantes? A qualcuno di noi, che ormai si sente razza
strana, quando per disavventura capita di passare per
strade cadenzate non da fiori o da alberi ma da sagome
di camionette della polizia, si stringe, per deformazione
direbbe qualcuno, il cuore. Non era l'immagine della città
sognata.
Lungi
da noi pensare che una città non debba essere anche
custodita, serenamente custodita. Ma affidare il tutto
a un occhio esterno può essere veramente segno
di una città matura, di donne e uomini maturi,
di figlie e figli maturi?
Quelli
tra noi, che portano come me un carico non indifferente
di anni sulle spalle, forse ricorderanno di aver visto
nelle chiese di un tempo dominare dagli altari un grande
triangolo rosso che raffigurava la Trinità e al
centro un occhio, un grande occhio polifemico, attribuito
a Dio: occhio che ti spiava, ti perseguitava con la sua
implacabile fissità. Per grazia poi mi è
accaduto di scorrere pagine e pagine della Scrittura sacra
e di diventare sempre più consapevole che sulle
pareti della storia non ci sono tracce di quello sguardo
del terrore. Il volto di Dio che affiora dalla storia
è il volto di un Dio di libertà, che dà
ai suoi figli il sapore e il brivido della libertà.
E dunque se su qualche brandello di muro del tuo passato
o della tua memoria è rimasta traccia di un Dio
che spia la libertà di noi umani, scrosta e ripulisci
l'affresco, e appariranno tracce di un Dio geloso della
tua libertà, un Dio che i suoi figli li vuole liberi,
liberi da tutti i faraoni della terra.
Va
da sé che non ci affascina una terra dove l'ordine
e l'armonia siano a comando di faraone, vengano cioè
dettati o meglio precettati dall'esterno.
Ricordo
come se fosse oggi che un giorno di molti anni fa, durante
un mio soggiorno in Valle di Poschiavo, salimmo un pomeriggio
a San Romerio, un alpeggio a milleottocento metri dove
una piccola chiesa antica edificata nel dodicesimo secolo
veglia, come sentinella e rifugio in cima a un dirupo
di 800 metri a picco sul lago di Poschiavo. Uscimmo dall'ombra
della chiesa, ombra impigliata di memorie, ed ecco i nostri
occhi furono sorpresi dalla figura di un pastore: poco
fuori da una baita stava assorto nel silenzio dei monti,
gli occhi sembravano navigare indugiando ora al verde
vivo dei prati ora alle macchie bianche del gregge. Tacemmo,
quasi fosse da ascoltare, senza frapporre briciola di
rumore, la bellezza di quell'armonia. Poi ci avvicinammo
e ci venne spontaneo dirgli il nostro stupore per i suoi
prati inviolati, senza ferita di carte o di bottiglie
abbandonate, tanto più che quel luogo, proprio
per la sua preziosità storica ed artistica, era
meta di non pochi visitatori. Ci venne spontaneo chiedergli
se tutto ciò fosse frutto di qualche ordinanza
comunale che comminasse punizione di multe ad eventuali
trasgressori. Il pastore alzò lento il viso, i
suoi occhi abitati dalla sapienza dei monti, ci disse
che non esistevano ordinanze di sorta e aggiunse: "E'
così perché a noi sta a cuore la bellezza".
Non le telecamere, non le pattuglie di vigilanti, non
il balenare di multe, ma la passione per la bellezza.
Parola di pastore, sapienza dei monti. Affidàti
dunque non a un oggetto esterno, ma a una passione di
bene e di bellezza che ci arde dentro.
E
non sarà questo il compito che dovrebbe occuparci
se fossimo sapienti, quello su cui misurare la nostra
saggezza e preveggenza, la nostra lucidità di visione
per il futuro, la nostra passione per le donne e per gli
uomini del nostro tempo, per la terra che siamo chiamati
ad abitare? Non una terra grigia in cui uomini e donne
camminano grigi e piegati a timore di sorveglianti, ma
una terra di colori in cui uomini e donne camminano testa
alta illuminati dal riverbero della parola di Dio che
li conduce o, se non credenti, sospinti dal lume buono
della coscienza che li abita.
Che
cosa mai insegnerai a un figlio, ad un cucciolo d'uomo?
Gli insegnerai a guardarsi dal colpire il compagno perché
una telecamera prima o poi potrà sorprenderlo e
riprenderlo a condanna? O gli insegnerai che è
bellezza della vita onorare un volto, di chiunque sia
e qualunque cosa accada, gli insegnerai ad accarezzare
un malato, a inchinarsi al filo d'erba, a fasciare la
canna incrinata, a ricomporre i frammenti, a lottare per
una giustizia e una armonia che non siano di pochi ma
di tutti? Lo educherai ad ascoltare le voci che lo abitano?
A leggere le parole che stanno scritte sulle pareti dell'anima?
Gli
occhi alla telecamere o gli occhi alle pareti dell'anima?
Mosè nella steppa così invitava il suo popolo:
"Porrete nel cuore e nell'anima queste mie parole
ve le legherete alla mano come un segno, ve le terrete
come un pendaglio tra gli occhi" (Dt 6,4.9). Non
è forse vero, mi chiedo, che le parole, che diventano
vita e non rimangono suono vuoto nell'aria, sono le parole
che sono discese nel cuore, nell'anima e vi hanno preso
dimora? È nell'anima che avvengono le vere gestazioni.
Le parole, dunque, scritte sulle pareti della tua coscienza
abbeverino i tuoi occhi, siano luce per le tue scelte;
si consegnino alle tue mani, siano la sorgente segreta
delle tue azioni.
A
volte mi sorprendo a osservare triste la stagione che
stiamo vivendo, non vedo i pascoli verdi, inviolati, del
pastore dei monti, vedo giorni sporchi di insensatezza
e di degrado. Fa scuola dall'alto. Mi prende disgusto,
ma poi mi sorprendo, vecchio come sono, a sognare. A sognare
che in donne e uomini erompano sussulti di resistenza.
Poi mi chiedo da dove ripartire. Per nuove stagioni di
bellezza. Ho trovato mesi fa, in una traduzione che mi
ha colpito, una parola custodita nel rotolo di Isaia.
"Ascoltatemi, ascoltatemi
" è scritto.
E dunque un invito ripetuto, pressante, urgente: "Ascoltatemi,
ascoltatemi, mangiate la bellezza" (Is 52,2).
Mi
fermai come sorpreso alla lettura. Mi sentivo nascere
da dentro una domanda: di che cosa ci nutriamo? Di che
cosa nutriamo anima e pensieri. Mi interrogavo: "Stiamo
mangiando bellezza? Stiamo mangiando bellezza o stiamo
mangiando parole che sono scialo di squallore, di disgusto,
di degrado, di egoismi, di intolleranza, di miopie dello
spirito, di insensatezza del vivere?". Le parole
degradate ci fanno degradati, le parole della bellezza
ci fanno donne e uomini della bellezza, della bellezza
del vivere e della bellezza della terra.
"Mangiate
la bellezza!". Ultima parola, un fiato d'acqua, nel
mio secchio usurato, fessurato, in risalita, per cigolio
di carrucola, dal pozzo.
don Angelo